SILVIO SPAVENTA. IL NOVECENTO, SECOLO DEL LAVORO di Raffaele Colapietra – Numero 13 – Gennaio 2019

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       SILVIO SPAVENTA.           IL NOVECENTO,     SECOLO DEL LAVORO

 

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A questa linea egli si serbava fermamente fedele, dopo qualche sbandamento durante il rigidissimo ergastolo di Santo Stefano: Italia e Vittorio Emanuele, nel 1860, persecuzione implacabile e indifferenziata di borbonici, camorristi e garibaldini, fino alla sanguinosa repressione dei moti torinesi di fine 1864 per il trasferimento della capitale a Firenze.

 

Spaventa lasciava il potere per poco meno di un decennio, entrando a consumare un’esperienza nel Consiglio di Stato che si dovrebbe conoscere meglio per intendere il suo pensiero in proposito, nessuna reazione immediata, ad esempio, all’abolizione del contenzioso amministrativo nel 1865 ad opera del guardasigilli Pisanelli, uomo di Destra e meridionale come lui, e suo amicissimo personale.

Spaventa è ministro dei lavori pubblici nel dicembre del 1873 

in un gabinetto Minghetti tutt’altro che “piemontese”


e la novità d’ambiente che subito lo colpisce sono le società più o meno anonime fiorite nel frattempo, un’escrescenza capitalistica internazionale che egli non comprende, denunziandone subito, ed esclusivamente, l’egoismo e le immoralità spicciole nella gestione ferocemente privatistica delle ferrovie italiane, donde la “gioia segreta” di poter eliminare tale gestione ad opera di stranieri “i più audaci avventurieri e speculatori che si siano mai visti” ed in favore di uno Stato da “adorare” in quanto “dirige un popolo verso la civiltà” intesa quest’ultima “quale unità della coltura e del benessere” ed identificandosi esso Stato con “un’assoluta necessità sociale” (marzo e giugno 1876).

Spaventa non avrebbe visto questo Stato trionfare contro “la frode, 

il raggiro, l’aggiotaggio e tutti gli altri vizi” delle società anonime, 

i suoi stessi elettori abruzzesi lo avrebbero escluso e costretto 

a rifugiarsi nella Bergamo “capitale dei Mille”


ma altresì roccaforte del cattolicesimo sociale dei Radini Tedeschi, Rezzara, Agliardi, Suardo, il mondo da cui sarebbe venuto fuori il futuro Giovanni XXIII e che condizionava Spaventa nella sua requisitoria dell’aprile 1877 contro gli estremismi laicisti del guardasigilli Mancini che lo aveva escluso dal Consiglio di Stato (avrebbe riparato ben presto Zanardelli, l’uomo delle aborrite società anonime) anche nelle sue novità più indiscutibilmente liberali, l’abolizione del carcere per debiti, le modifiche alla condizionale e alla libertà provvisoria, il voto amministrativo alle donne (era stato Spaventa ad ammetterle come telegrafiste, esempio immediato ed illustre Matilde Serao, ma ciò alla luce del puro e semplice “tornaconto finanziario”, marzo 1875, cioè perché pagate di meno).

“Nessun pubblico impiegato possa, una volta investito del suo ufficio legittimamente, esserne arbitrariamente privato” ecco la parola d’ordine che Spaventa innalzava 

alla Camera nel novembre 1877 ed avrebbe mantenuto per un decennio 

con i suoi corollari:


l’auspicata esclusione degli impiegati dalla lotta dei partiti politici, “il bisogno di vivificarne l’ambiente” attraverso organi speciali concordati tra il potere esecutivo e quello legislativo, grazie ai quali “la libertà costituzionale diventa concreta, diventa quello che deve essere, non semplice partecipazione alla formazione delle leggi ma partecipazione alla loro esecuzione” donde “l’uomo veramente libero, che fa a sé la propria legge e l’esegue da sé” (giugno 1878). Cose del genere avrebbe ripetuto Giovanni Gentile tra il delitto Matteotti ed il 3 gennaio, allorché si parlò correntemente di uno Spaventa in camicia nera e di una tessera fascista a Spaventa.

Croce aveva posto da un pezzo lo zio al vertice del proprio personale pantheon risorgimentale, accanto a De Sanctis e Carducci: ma Gentile non va dimenticato, 

né con lui Salandra, che di Spaventa era stato allievo


e che, tanto a Chieti nel giugno 1922 per il centenario della nascita, quanto nel 1928, in merito alla crisi di fine secolo, aveva obiettato più o meno direttamente a Croce in termini da ripensare con attenzione.

Un ripensamento sistematico dell’esperienza risorgimentale era intanto 

quello che il Nostro veniva svolgendo nei suoi ultimi anni, 


i pieni poteri del 1859 soffocatori di ogni autonomia provinciale alla luce di una indipendenza che era arrivata a subordinare la libertà (marzo 1879) ed a consentire un’ingerenza dello Stato obiettivamente inevitabile alla quale si reagisce privilegiando l’amministrazione sulla politica sotto l’egida suprema della monarchia “che in questa missione ha la sua nuova ragion d’essere” (maggio 1880, in evidente chiaroscuro con ciò che parecchi anni prima aveva sostenuto Angelo Camillo De Meis e ben al di là dell’auspicata elettività del Sindaco, che monopolizzava l’attenzione nell’atmosfera pre-elettorale dell’epoca). 

 

Appunto l’allargamento del suffragio avrebbe richiamato il Nostro a Chieti nel dicembre 1882 ma egli si sarebbe mantenuto fedele a Bergamo in nome di un organicismo conservatore tutt’altro che alieno dal cattolicesimo del Zentrum tedesco, il diritto elettorale “non individuale ma pubblico per operare il bene altrui e adempiere un dovere” donde la speranza che

“facendo partecipe del governo dello Stato altri ceti che abbiano intenti ed ideali diversi dalla borghesia si produca quella differenziazione di partiti che oggi manca” 

e che è dovuta al “principio essenzialmente radicale” (e borghese) 

del protagonismo del pensiero a fini di governo,


protagonismo che “si è provato inefficace ed inetto a riedificare ciò che deve continuare ad esistere”, scopo a cui debbono adempiere, in funzione essenzialmente conservatrice (e perciò latamente cattolica), gli “altri ceti” chiamati sul proscenio dalla riforma elettorale (e perciò tutt’altro che sovversivi). 

 

Sbarazzatosi di fatto delle novità di tipo tedesco che Guido Baccelli pretende di introdurre nelle strutture universitarie “istituzioni sociali indipendenti dallo Stato” con la loro nebulosa “libertà d’imparare” (gennaio 1884), ribadito il carattere letterario e retorico del patriottismo quarantottesco che aveva indotto ad un’assurda azione puramente rivoluzionaria una Destra “parte media che doveva fare ad un tempo da propulsione e moderatrice dello Stato” (settembre 1885), il canto del cigno parlamentare del Nostro, marzo 1886, prima delle novità crispine del Senato e della nuova specifica sezione del Consiglio di Stato, prende atto dell’esaurimento del ciclo trasformistico, il principio nazionale che degenera in nazionalistico con le sue vocazione imperialistiche, bellicose e protezioniste, il principio democratico pacifista volto essenzialmente a sollevare le sorti delle classi inferiori.

Questo “sollevamento”, lo ripetiamo, non ha nulla di sovversivo 

e molto di paternalistico,


contribuisce essenzialmente alla definizione dei partiti politici (lo avrebbe ben inteso Giolitti nel 1892), si sarebbe identificato (settembre 1886) con “una classe che non ha altra base che il suo lavoro e diventa sempre più numerosa, ed aspira naturalmente a venir su ed a migliorare il suo stato”: ma poiché “la libertà stessa è spesso contraria agli sforzi che le classi operaie fanno per riuscirvi” la grande novità del Nostro, schiettamente democratica di fatto anche al di là dell’intenzione, è la scoperta e la valorizzazione della scuola popolare “l’officina in cui devono farsi i nuovi italiani… nella quale il sapere diventa carattere e le cognizioni opere”:

in altre parole, dall’Ottocento secolo della storia di De Meis al Novecento 

secolo del lavoro di Spaventa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

aveva dato la misura della levatura politica e dell’orientamento strategico del venticinquenne Silvio Spaventa, unità italiana monarchica sotto l’egida di Carlo Alberto Re di Sardegna.

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L’ANTICA BOTTEGA DEL LEGNO CHE SUONA di Michele Minisci – Numero 13-Gennaio 2019

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       L’ANTICA BOTTEGA        DEL LEGNO CHE SUONA

 

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Parliamo di Rosalba De Bonis, l’ultima di una dinastia di liutai, famosi in tutto il mondo, che da 500 anni costruiscono strumenti musicali a corda, tra i quali va segnalata la chitarra battente, la cui particolarità consiste nella sua sonorità. E’ chiamata così anche perché le corde debbono essere percosse e non pizzicate e la quinta corda, o scuordo, dà una nota cupa. 

 

Nell’Italienische Geigenbauber, l’almanacco del gotha dei liutai, si parla dei De Bonis come di una dinastia. C’è un Francesco I, Francesco II, un terzo, un quarto, come ci sono i Giacinto, i Michele, i Nicola, i Vincenzo, i Rosario, e infine Rosalba, l’ultima della dinastia, variamente alternati come i rami di un albero genealogico imperiale.

L’abilità, il gusto raffinato della linea e tutti i segreti per ottenere dagli strumenti 

un suono armonioso che i grandi musicisti conoscono bene, 

vengono custoditi gelosamente e tramandati di padre in figlio.


La bottega d’arte, posta al centro dell’antico Rione della Giudecca, nel comune di Bisignano, in provincia di Cosenza, dove ormai Rosalba De Bonis, l’ultima della dinastia, lavora da sola, è un ambiente luminoso, inconfondibile; le forme-modello dei vari strumenti musicali sono appese alle pareti, i molti attrezzi antichi da lavoro, ben ordinati, sembrano tanti elementi decorativi dell’ambiente. Le linee degli strumenti sono l’una diversa dall’altra, i legni rari sapientemente invecchiati e trattati con vernici speciali; i vari intarsi, le decorazioni, sono veri capolavori di sapienza, di calcolata straordinaria sapienza, perché ogni elemento, anche quello decorativo, contribuisce alla più pura musicalità degli strumenti.   

Sono secoli di storia, la storia di una Calabria segreta e inattesa, 

quella della musica. Le vicende di una bottega dove con gli stessi scalpelli, 

le stesse forme, gli stessi legni, soprattutto con lo stesso amore, 

qualcuno ripete ogni giorno il miracolo di creare uno strumento vivo.

Violini, chitarre, mandolini, ukulele, tutto nasce in questa bottega in modelli identici da secoli. I nipoti diventano padri, poi nonni, poi se ne vanno vedendo che gli ultimi nati sono già pronti a prendere il posto lasciato vuoto, per continuare quel lavoro che non deve finire mai. Rosalba mi dà appuntamento davanti alla sua bottega e subito mi rapisce: parla metà in italiano e metà calabrese-cosentino; occhi neri come la pece, sguardo limpido, sincero, ma quasi inquisitore, come a voler proteggere, davanti ad un estraneo, i suoi lavori, la sua arte, la sua genialità, nonostante la cordialità con cui mi concede questa intervista. 

 

Mentre mi mostra i modelli da cui ricava poi le sue chitarre, Rosalba mi racconta la storia del legno da cui sono state ricavate le sue ultime chitarre, legno di palissandro brasiliano, una partita del 1957, arrivata a Battipaglia dal porto di Napoli, che ora non si trova più in commercio, lasciata ad invecchiare per decenni. E poi tira fuori da un cassetto ciotoli di colla risalenti al 1915, uguale a quella che si usava nel ‘700; e poi mi porta nello stanzino dove c’è una piccola officina, con al centro una base in muratura, di lato un mantice, della cenere forse ancora calda, e

mi spiega come lavora col fuoco per addomesticare, piegare il palissandro 

alla sua volontà, alla sua idea di chitarra,


all’anima che vuole infondere ad un semplice pezzo di legno. 

 

E la tecnica di Rosalba è la stessa che si usava nel 1500, uguale alla tecnica utilizzata per modellare le gondole di Venezia, le chitarre spagnole. E’ qui che Rosalba ha un moto di orgoglio spontaneo e sincero, quando mi dice che non le piace la chitarra spagnola, la chitarra classica è quella italiana. 

 

Punto. Ricorda poi quando ai primi del ‘900 i suoi lontani parenti andavano in giro, con in spalla la viertula, insomma la bisaccia, piena di chitarrine, per venderle nei mercatini di tutta la Calabria. Poi sono arrivate le prime mostre, i primi concorsi e i riconoscimenti in tutto il mondo.

“Un vero liutaio inizia questo lavoro a sette anni, per essere considerato 

un liutaio perfetto. Io ho iniziato che avevo vent’ anni 

e ci lavoro solo da altrettanti anni


– mi dice Rosalba – e non faccio ancora la chitarra perfetta, come timbrica, forse come estetica ci sono vicino… e poi sono l’unica donna della dinastia a lavorare con le chitarre – e sottolinea questo aspetto con determinazione, forse per ribadire un suo orgoglio femminista, ricordando la contrarietà in famiglia per questa sua decisione di impegnarsi in questo lavoro – …e poi è mancina… dicevano per dissuadermi… 

 

Ricordo che zio Vincenzo e anche mio padre, Costantino, solo dopo la mia cinquantesima chitarra battente hanno detto …ci siamo…. Ho deciso di impegnarmi nella costruzione della chitarra classica solo dal 2013, e ne ho fatte già una decina e penso che quando ne costruirò altre dieci forse raggiungerò la perfezione. Farò la chitarra classica perfetta del 2000 – mi dice con un largo sorriso e un’impennata di orgoglio -. Pensa che ci vogliono dai 40 ai 50 giorni per costruirne una”.

A questo punto Rosalba mi racconta delle tante visite ricevute 

nella sua bottega dai tanti chitarristi-cantanti italiani,


di diversa estrazione musicale, come Roberto Murolo, Pino Daniele, Celentano, però in incognito, Fred Bongusto, e poi Eugenio Bennato, della Compagnia di Canto Popolare, che da quando scoprì la chitarra battente, nel 1976, contribuì a renderla molto popolare. “Per non parlare di Modugno, che incontra mio zio Nicola sul treno e gli compra una de Bonis seduta stante: pensa un po’! Ma ho saputo che anche Fabrizio De Andrè ha suonato una De Bonis”. 

 

Ma l’episodio che Rosalba ricorda di più e con infinito orgoglio è quello riguardante

la prima visita in Italia di Segovia, il grande chitarrista spagnolo, 

invitato in una trasmissione per la Rai, con la fila dei liutai italiani 

che gli presentavano le proprie chitarre da utilizzare 

per il concerto italiano e lui scelse la De Bonis.


Ma chi prenderà il posto di Rosalba de Bonis, fra cent’anni? 

 

“E chi lo sa… – mi risponde Rosalba allargando le braccia – Mio figlio ha dodici anni e ho anche diversi nipoti, ma nessuno di loro, per ora, ha mostrato interesse per le nostre chitarre. Vedremo…. mai dire mai”. 

 

Finisce qui il mio incontro con Rosalba de Bonis, una liutaia calabrese, un mito nel mondo della liuteria internazionale, e mentre ci salutiamo mi dice ancora, con malcelato orgoglio: “Io voglio proteggere la mia tradizione, la mia particolarità, e non voglio che finisca”. 

 

Che gli dei ti siano propizi, Rosalba.

 

 

Lavora con le sue mani per carpire al legno un segreto. Legno di palissandro, di abete, di ebano, di acero, di mogano. Tante parti che, assemblate poi insieme, daranno vita, dopo settimane, mesi, di intenso lavoro, alle sue chitarre.

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GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO di Alessio Romano – Numero 13 – Gennaio 2019

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GENTE MOLTO PER BENE. JOHN FANTE E L’ABRUZZO

 

Per John Fante, italoamericano di seconda generazione, nato in America e che non sapeva parlare italiano, conoscendo solo qualche parola di dialetto ascoltata in casa, l’Abruzzo è puro mito. La terra primitiva dove è nato il padre, Nicola Fante, muratore che per sfuggire al freddo e alla miseria della sua terra, ha attraversato l’oceano, migrante economico, per lasciare le montagne appenniniche e raggiungere quelle così simili del Colorado.

È da qui, da questo padre e da questi ricordi, che tutto il lavoro letterario

di John Fante prende le prime mosse. 


Già nell’incipit del suo primo romanzo pubblicato (Aspetta primavera, Bandini), prima ancora di Arturo Bandini, suo alter ego e ritratto dell’artista da giovane, compare il personaggio di Svevo Bandini, padre di Arturo: 

 

“Avanzava, scalciando la neve profonda. Era un uomo disgustoso. Si chiamava Svevo Bandini (…). Detestava la neve. Faceva il muratore e la neve gelava la calce tra i mattoni che posava (…). Anche da ragazzo, in Italia, in Abruzzo, detestava la neve. Niente sole, niente lavoro. Adesso viveva in America, nella città di Rocklin, Colorado. (…). Le montagne c’erano anche in Italia, simili a bianchi monti a pochi chilometri di distanza verso occidente. Le montagne erano un gigantesco abito bianco caduto come piombo sulla terra.”1 

 

E ancora più avanti, nello stesso romanzo, l’Abruzzo diventa l’argomento di un divertente e divertito dialogo tra Svevo e una ricca e colta vedova americana: 

 

“E così lui era italiano. Splendido. (…). Doveva sentirsi orgoglioso delle sue origini. Non sapeva anche lui che la culla della civiltà occidentale era proprio l’Italia? Aveva mai visto la cattedrale di San Pietro, gli affreschi di Michelangelo, l’azzurro del Mediterraneo. E la Riviera? No, non li aveva mai visti. Le disse con parole semplici che era abruzzese, e non si era mai spinto a nord, nemmeno a Roma. Aveva lavorato duro, fin da ragazzo. Non aveva avuto tempo per nient’altro. L’Abruzzo! La vedova sapeva tutto. Ma allora aveva sicuramente letto le opere di d’Annunzio, era abruzzese anche lui. No, non l’aveva letto, quel d’Annunzio. Ne aveva sentito parlare, ma non l’aveva mai letto. Sì, sapeva che quell’uomo importante era della sua provincia. La cosa gli faceva piacere, sentiva gratitudine per d’Annunzio. Finalmente aveva trovato un terreno comune, ma con suo grande sconforto s’accorse di non avere nient’altro da dire sull’argomento.”

Ma l’Abruzzo di John Fante è soprattutto un piccolo paese, 

Torricella Peligna, quel paese che, ci ha insegnato Cesare Pavese, 

“ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via”. 


Un paese che, per quanto lontano e mai visitato realmente, per John Fante è la garanzia di radici, di gente che a prescindere dal tuo ritorno, è rimasta ad aspettarti, come effettivamente è stato. Torricella Peligna è un luogo primordiale, l’Eden della sua mitologia familiare. Un mondo-paese popolato da personaggi leggendari come il suo antenato brigante Mingo di cui proprio il padre lo esorta a scriverne la storia nel romanzo Full of Life

 

“Un uomo coraggioso, mio zio Mingo. Era un Andrilli, fratello di tua nonna. L’hanno appeso proprio là, in Abruzzo. I Carabinieri… Due proiettili nella spalla. Ma l’hanno appeso lo stesso. E sua moglie lì, che piangeva. Sessantuno anni fa. L’ho visto con i miei occhi. Coletta Andrilli, bella donna.”2

Ma l’Abruzzo è anche un ingombro di cui sbarazzarsi. Su John Fante infatti 

c’è tutto il peso del pregiudizio razziale nei confronti degli italiani. 


I dago, mangia-spaghetti, selvaggi ubriaconi, violentatori e assassini, mafiosi, sporchi come maiali. È un tema caro a Fante soprattutto trattato nella sua raccolta di racconti Dogo red. Il successo letterario vagheggiato da Arturo Bandini serve anche a questo: è la chiave di quel riscatto sociale per sconfiggere il pregiudizio che su di lui incombe in quanto italiano.

Per l’Abruzzo, John Fante è un nipote smarrito, un figliol prodigo letterario 

mai tornato, ma che ha reso immortale e conosciuta in tutto il mondo 

la piccola comunità di Torricella Peligna (nel Sangro Aventino, 

in provincia di Chieti) che ormai da più di dieci anni 

lo celebra in un festival3 a lui dedicato.


John Fante non è mai tornato nel paese del padre, proprio per paura di infrangere la sua natura mitologica. Ma sono tornati lì i suoi figli, soprattutto il poeta e scrittore Dan Fante, venuto a mancare da qualche anno, proprio per essere protagonisti di questa celebrazione annuale che ha portato lì scrittori, registi e musicisti di fama mondiale (Sandro Veronesi, Romana Petri, Ryan Gattis, Paolo Virzì, Frank Spotnitz, Vinicio Capossela, Nada, Enrico Rava, Gianni Vattimo solo per citarne qualcuno), tutti complici di questo rito collettivo: il chiudersi di un cerchio, il ritorno a casa dell’eroe dopo la sua odissea. 

 

John Fante è però stato in Italia per il suo lavoro di sceneggiatore. Nelle lettere che scrive da Roma ha un giudizio molto negativo del suo popolo di origine, una preoccupazione che condivide proprio con il figlio Dan: 

 

“Gli italiani sono farabutti, ladri, malversatori, bugiardi, truffatori. Mi danno la nausea. Sii contento del tuo lato tedesco e inglese4. E soprattutto sii contento di essere americano. Per quanto riguarda me, vorrei essere un Ubangi con un osso nel naso.”5 Ma subito dopo Fante sembra quasi pentirsi delle sue parole, deve tornare in lui quel “ricordo di vecchie camere da letto, e il ciabattare di mia madre verso la cucina”6. Aggiunge infatti:

“Ma credo sia così per Roma, città di ladri, e che in provincia sia diverso. 

Mi dicono che gli abruzzesi sono gente molto per bene.”  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Una storia di amore e odio dal passato utile a comprendere le difficoltà del nostro presente. 

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1.Traduzione di Caro Corsi, Aspetta Primavera, Bandini, Einaudi, 2005.

2.Traduzione di Alessandra Osti, Full of life, Einaudi, 2009.

3.John Fante festival “Il Dio di mio padre” direzione artistica di Giovanna Di Lello organizzato dal Comune di Torricella Peligna dal 2006.

4.Da parte della madre Joyce Smart, sposata da Fante nel 1937.

5.Da Tesoro, qui è tutto una follia, a cura di Francesco Durante, traduzione di Alessandra Osti, Fazi editore, Roma.

6.Dalla nuova prefazione di Fante a Aspetta primavera, Bandini.

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PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI di Simone Gambacorta – Numero 13 – Gennaio 2019

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PER UN RITRATTO DI GIANNI GASPARI

 

Dico Baggio perché ho iniziato a seguire il calcio con i mondiali di Italia 90 (avevo 12 anni) e da allora per me (che di calcio nulla so) dire Baggio significa dire che qualcuno riesce a fare benissimo e con uno stile suo qualcosa di difficile.

 

C’è chi parla di classe. La parola è abusatissima e però funziona: 

si dice un giocatore di classe, per esempio, e Baggio lo è. 


Lo associo alla grazia, alla morbidezza di movimento, all’armonia: nessun altro calciatore, nemmeno Maradona (che a Baggio sarà stato senz’altro superiore), mi ha dato un’idea così nitida di eleganza. Baggio per me significa vedere la bravura che accade, vederla succedere. Ma quando ho visto Baggio, Baggio non c’era. A dire il vero, Baggio non l’ho mai visto di persona e quel giorno ero a Teramo in una libreria e secondo me Baggio a Teramo nemmeno c’è mai stato. Non ho verificato, manco saprei a chi domandare, ma mi sa che la città in cui vivo neppure l’ha sfiorata. 

 

Quel giorno mi pare fosse un sabato del 2017. Si era lì a parlare di un libro ed ero fra coloro che lo presentavano. Quando si arrivò alla fine si chiese al pubblico se ci fossero domande. Ce ne furono. Una, un’altra, un’altra ancora: e l’una, l’altra e l’altra ancora ebbero risposte. Poi una mano si tirò su in un cenno rapido e duplice, un po’ qua e un po’ là, tac-tac tac-tac, sembrava un “ciao” e invece era un “posso?”. Era Gianni Gaspari.

Sapevo che era lì, ci consociamo da anni, lo considero un maestro, 

ma non pensavo intervenisse.


Intervenne: e io vidi Baggio. 

 

Ma adesso devo spiegare per sommi capi chi è Gaspari: è un giornalista, è stato per anni conduttore del Tg2 (edizione serale) e di quella testata è stato a lungo caporedattore della cultura (Antonio Ghirelli direttore) oltre che critico cinematografico. I suoi servizi da Cannes e da Venezia (eccetera) hanno fatto scuola. Per dire: in un articolo di «Repubblica» del 2002 (si legge pure in rete: Tg2 a sorpresa, c’è il cinecritico che fa sul serio) Sebastiano Messina plaudiva alla sua onestà di recensore e al suo lessico. Morando Morandini fece altrettanto nell’introduzione a un suo dizionario dei film. 

 

Insomma, i meriti riconosciuti al teramano Gaspari (null’altro che omonimo del corregionale pluriministro) sono parecchi e non pochi valgono da blasone.

Varrebbero da blasone, se solo fosse capace non dico d’ostentare alcunché, 

ma almeno di mettere a parte gli amici delle esperienze per lui più gratificanti.


Non avviene. L’aneddotica (sempre garbata) che rende la sua carriera un’antologia capace di racconti gustosissimi e inaspettati (corsi condensati di giornalismo e critica) non contempla lodi a se stesso e resoconti a lui favorevoli: per via di quel suo riserbo tutto meridionale, le cose che lo riguardano le vieni a sapere fortunosamente, per il sovrano capriccio della casualità, praticamente per sbaglio, come inciampandoci; e se non tutte, molte di esse possono essere riassunte in un orientamento che nella sua carriera l’ha sempre guidato: il giornalismo mal s’accorda con ruoli di potere.

 

Si può convenire o meno con una simile visione, ma Gaspari, galantuomo 

come pochi (discretissimo, mai invasivo), sempre l’ha pensata così e tuttora lo fa.


Sicché molte possibilità di ascesa per le quali altri avrebbero fatto (o hanno fatto) carte false, lui le ha scansate. Non le ha cercate, gli sono state proposte, e più volte: e però nulla, è rimasto fedele alla sua idea di fare giornalismo senz’altro per la testa che il giornalismo. E giornalismo tout court. Per capirci: s’incontra in rete un video che risale a metà anni Ottanta e che lo vede in veste di cronista puro: Le 48 ore più lunghe, sull’allarme terremoto in Garfagnana. «A Barga, a Castelnuovo di Garfagnana, a Bagni di Lucca, a Villa Collemandina e in altre località sconvolte dal rischio sismico, l’alba significa praticamente uscire da un incubo». Il tempo di arrivare al punto e il pezzo da antologia lo si tocca con mano sin dall’incipit esemplare. Quel servizio per il Tg2 lo si potrebbe prendere pari pari oggi, proiettarlo in una qualsiasi aula di una qualche più o meno grandeggiante Facoltà di Comunicazione e utilizzarne ogni singola virgola per spiegare com’è che un giornalista dovrebbe raccontare le cose.

Ma perché dico che quel giorno ho visto Baggio? 


Perché Gaspari il suo intervento lo fece come quando ai mondiali del Novanta Baggio prese palla a centrocampo in Italia-Cecoslovacchia. Giannini, Baggio, Giannini, Baggio: dopo la triangolazione il 15 azzurro partì filato dalla trequarti sinistra, saltò un avversario e tagliò il campo in diagonale avanzando verso il centro; poi, non appena in area, scartò un secondo difensore e con un tocco di destro che pareva dipinto mandò la palla alla sinistra del portiere, frattanto graziosamente messo assiso.

Idem Gaspari: non un’esitazione, non un’incertezza.


Presentavamo Tutti i racconti di Andrea Carraro, e lui, con la sua inconfondibile voce, partì dal Branco, il romanzo del 1994 da cui Marco Risi trasse il film omonimo (sceneggiato con lo scrittore). A quell’iniziale scatto dalla trequarti seguì il primo movimento a sorpresa (salto dell’avversario), con un parallelismo che in trenta secondi divenne una recensione doppia che rileggeva allo specchio film e romanzo. Dopo di che centralizzò con un flash sul realismo di Carraro per poi tirare fuori – a limite d’area varcato – un’altra mossa a sorpresa (bye bye al secondo difensore): un excursus sui romanzi dello scrittore, con una compattezza concettuale che rese tutto ancor più simile al gesto di un atleta. Il gol fu una parecchio rapinosa e non meno suadente stoccata: un compendio sui temi cardine della narrativa di Carraro e sui narratori a lui accostabili. 

 

Se ne potrebbero raccontare altri di episodi buoni per testimoniare la maestria di un uomo che, partito dal suo Abruzzo, è diventato un protagonista del giornalismo culturale e un gran nome della critica cinematografica.

Ma questa mezza fantasia con Baggio serve forse per dire che lo stile 

sempre possiede un che d’inesorabile e bello.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una volta ho visto Roberto Baggio, solo che eravamo in una libreria e Baggio non c’era.

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“FORTE E GENTILE”. LA TRADIZIONE INVENTATA di Marzio Maria Cimini – Numero 12 – Ottobre 2018

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        “FORTE E GENTILE”.            LA TRADIZIONE INVENTATA

 

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e hanno tremendamente seccato noi e l’universo.

Siamo stanchissimi d’essere fotografati in costume (che non esiste). Siamo stanchissimi d’essere forti e gentili. Noi non vogliamo più essere presi per gentili, cioè per fessi. Più grave è poi prendersi per gentili da se stessi… Siamo stanchissimi di aprilate e maggiolate avendo voglia di cantare quando, dove e come ci pare! Per rifare un’educazione abruzzese è urgentissimo ed indispensabile capire questa semplice verità provvisoria: noi non siamo speciali, noi non abbiamo niente di speciale!” 

 

Con queste parole – riportate in esergo alla splendida Storia di Pescara che il facondo storico aquilano Raffaele Colapietra ha dato alle stampe nel 1980 -, Filandro De Collibus (1889-1975), federale abruzzese e deputato per tre legislature nel Regno d’Italia, affida i suoi pensieri alla rivista L’Adriatico l’11 gennaio 1931.

 

De Collibus era un avvocato, fascista quantum sufficit ma dall’ingegno adamantino, 

e quasi novant’anni fa non si faceva riguardo di contestare un’invenzione propria 

di quel regime di cui peraltro L’Adriatico era chiamata a farsi fanfara: 


l’invenzione della tradizione, che poi è tutt’uno, in questo caso, con una tradizione inventata. 

 

Era stato il Fascismo, raccogliendo un’estrosità postunitaria, fattasi vieppiù tenace con la Grande Guerra, a premiare quel senso d’appartenenza su base diremmo etnica, regionale, provincialissima che chiamava a mettere in risalto i caratteri più identitari, o ritenuti tali, delle comunità;

quei tratti distintivi che, anziché fare l’Italia Unita, la volevano rotta in milioni di rivoli 

di lingue diverse e abiti particolarissimi e usanze mai viste altrove,


carezzando il pelo dell’orgoglio triviale e convincendo così i crocchi – anche i più disparati – della loro unicità, e dunque della loro preziosità. 

 

Ne paghiamo ancora oggi lo scotto più salato; e la perdita del contatto giornaliero con la lingua vernacolare e coi riti che davvero quelle comunità, fino almeno al secondo dopoguerra, coltivavano sinceramente, ha prodotto autentiche mostruosità che sono sotto gli occhi di tutti: abiti “tipici” che sono pastiches esilaranti di generi e tessuti, riti che vivono solo nelle (buone?) intenzioni di quelli che si ostinano a riproporli in feste patronali e sagre estive, canti ritenuti popolari che di popolare non hanno nulla, essendo noti gli autori di testo e musica. E’ esemplare il pur decente “Vola vola vola” che gli abruzzesi son tanto lieti d’intonare, con confusione di strofe e di uccelli che normalmente si esaurisce dopo il secondo ritornello, mentre altri due restano nel segreto della bocca: è in verità canzone recente assai, scritta dall’ortonese Luigi Dommarco e musicata da Guido Albanese appena nel 1922.

De Collibus poi s’indigna davanti a questa formula che più di tutte pesa

sull’identità abruzzese: “forte e gentile”. 


Ma se, come mi capita spesso, io chiedo ai miei conterranei se sanno come mai gli aprutini vengono così definiti e loro son tanto lieti di definirsi, nessuno mai sa dirmelo. E quindi mi pare questa soprattutto l’occasione migliore per fare chiarezza: non in Dante, che ricorda Tagliacozzo e la sua battaglia famosa del 1268 nella Commedia
2, ma in un libello felice del 1883 scritto da Primo Levi compare questa definizione. A rendere ardua e poco maneggevole la spiegazione, ci si mette anche l’omonimia del giornalista ferrarese, ma meneghino per scelta, col chimico torinese autore di celeberrimi libri sull’infinita vergogna della persecuzione degli ebrei in Europa negli anni feroci della Seconda Guerra Mondiale.

 

Anche il Primo Levi autore di Abruzzo forte e gentile era di religione israelita, 

anche lui dotato di una penna felicissima e d’un ingegno grande: 


giornalista fervente, amico di Crispi che gli fece fare una gran carriera al Ministero degli Esteri accanto a quella giornalistica, era anche amico di alcuni tra i maggiori intellettuali della sua epoca, su tutti il grande scrittore lombardo Carlo Dossi -di cui curò la prima pubblicazione delle Note Azzurre dopo la morte avvenuta nel 1910- Luigi Perelli, Gabriele d’Annunzio, e gli artisti Tranquillo Cremona, Teofilo Patini e Francesco Paolo Michetti, quest’ultimo autore della copertina di Abruzzo forte e gentile. Si tratta di un buon esempio di reportage impressionistico destinato, con il binomio del titolo, “a fondare una vulgata di lunga durata, non immune da mistificazioni, dell’immagine regionale”
3 dove peraltro era tipico di una certa cultura il giudizio sul brigantaggio, definito “espressione morbosa di qualità che un popolo libero, uno Stato indipendente, potrebbero senza pena trasformare in virtù”4.

 

Scrive Primo Levi “L’Italico”, come usava firmarsi in un eccesso di fervore nazionalista, nella prefazione al libro, che conta 231 pagine e 22 capitoli: 

 

“V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, semplicità ed efficacia, una parola consacrata dalla intenzione degli onesti a designare molte cose buone, molte cose necessarie: è la parola Forza.

 

Epperò, s’è detto e si dice il forte Abruzzo.


V’a nella nostra lingua, tutta, in sé stessa, comprensiva eleganza, una parola che vale a comprendere, definendole, tutte le bellezze, tutte le nobiltà… è la parola Gentilezza.

Epperò, dopo aver visto e conosciuto l’Abruzzo, 

dico io: Abruzzo Forte e Gentile”.


Il libro non è mai più stato ripubblicato – e quindi è introvabile – e si è perso nella notte dei tempi (sarebbe anzi ora che un editore lo ripubblicasse), ma il suo titolo è rimasto ben vivo nell’immaginario collettivo dentro e fuori l’Abruzzo: già nel 1886 Giuseppe Mantica, nel suo Zoologia letteraria contemporanea, per descrivere con delizioso sarcasmo la … specie alla quale appartiene lo scrittore pescarese Gabriele d’Annunzio, scrive: “Echinus adriaticus – Frutto di mare. Nasce sulle coste dell’Abruzzo forte e gentile. Leccato animale da’ capelli ben ravviati, da le forme femminee, da li canti novi aspiranti alle melodie di Vergilio latino […]”.

Com’è possibile che una formula felice, che data appena centotrentacinque anni, 

e che già era contestata novant’anni fa, possa essere entrata 

così profondamente nell’immaginario 

dell’identità aprutina? 


Perché, tutto sommato, è una formula consolatoria, di cui nessuno, in fondo, può dispiacersi davvero, lusinghiera se la si osserva da lontano e senza troppe questioni: è una pietra tombale, de mortuis nihil nisi bonum, e che però poco s’addice ad un popolo che si consideri, o voglia farsi considerare, ancora vivo e vitale. Naturalmente questo è un problema non solo dell’Abruzzo e non solo del Meridione, ma è un problema d’identità veramente troppo vasto, che interessa tutti quelli che abbiano un sentimento di popolo e di condivisione, e dunque queste riflessioni alla spicciolata si adattano a contesti tra di loro solo apparentemente eterogenei: in effetti, a ben guardare, i rischi di una “tradizione inventata” affliggono chiunque sia portatore di una qualsivoglia forma di tradizione, e l’afflato protezionistico molto spesso danneggia anziché esaltare.

Può esistere una tradizione che non sia espressione vera di un modo di agire, 

di pensare, di mangiare, di vestire? Può esistere, 

e persino trionfare sulla tradizione vera. 


Gli strumenti della modernità, tuttavia, permettono non solo una maggiore cura filologica nella testimonianza delle tradizioni, ma ne consentono anche una più vasta e capillare diffusione: la trasmissione dell’immateriale è sempre problematica, ma ci sono migliaia di persone pronte ad accogliere il vero e il bello, a mettere a frutto un patrimonio vastissimo fatto di condivisione e di saperi trasmessi. 

 

E’ compito di questa epoca promuovere e anzi imporre contenuti che non solo suonano nuovi e inediti alle orecchie più accorte, ma che possono dare nuova energia al recupero e alla trasmissione di storie e di valori che non possono non essere riconosciuti come alti e irripetibili.

Una vera identità abruzzese, una vera identità, passa oggi attraverso il recupero
di consuetudini più antiche e più illustri, meno orecchiate e più precise,
meno consolatorie e più forti, meno gentili ma anche più autentiche. 


Non è un ritorno al passato, non è un vacuo esercizio di nostalgia, ma l’unico mezzo che abbiamo per continuare a far vivere quanto di più onesto e vero resiste ancora nella nostra comunità. 

 

Abbandonare quanto di posticcio, di grottesco, di sedimentato affligge il nostro sentimento dell’appartenenza ad un luogo e ad una storia è l’unica difesa che ancora possiamo esercitare per la resistenza dei nostri luoghi e delle nostre storie.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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 Nota 1

1. Abruzzo forte e gentile: impressioni d’occhio e di cuore / Primo Levi. Roma: Stabilimento tipografico Italiano, 1982. Abruzzo forte e gentile: Impressioni d’occhio e di cuore / a cura di Virgilio Orsini. Sulmona: Libreria editrice A. Di Cioccio, 1976.

2. Cfr. Inf XXVIII 17-18.

3. Storia d’Italia Einaudi, Le regioni dall’Unità a oggi, L’Abruzzo, a cura di M. Costantini – C. Felice, Torino, 2000, p. 257.

4. Ibi, p. 40. Per un approfondito ritratto biografico di Primo Levi si può vedere: http://www.treccani.it/enciclopedia/primo-levi_res-90eb7b0e-87ee-11dc-8e9d-0016357eee51_(Dizionario-Biografico)/

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IL TRATTURO. “L’ERBAL FIUME SILENTE” di Franca Minnucci – Numero 12 – Ottobre 2018

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           IL TRATTURO.            “L’ERBAL FIUME SILENTE”

 

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è questo il titolo della raccolta, poi confluita in Alcyone, che comprende la lirica più nota di Gabriele d’Annunzio: I Pastori.

Composta fra settembre e ottobre del 1903, la creazione stessa dei Sogni – e in particolare dei Pastori – è da rimandare ad una annotazione sulle carte alcionie del luglio 1902 che recita: “Andiamo? Ormai la terra – questa terra – ha preso la mia sembianza! E’ tempo di partire”. Alle soglie dell’autunno quindi, con una estate che man mano si stempera poeticamente in note soffuse e sfumate, … è la faccia dell’Estate / quella che langue / nell’aria lontana, che muore / nella sua chiaritate / dopo che tanto l’amammo, / dopo che tanto ci piacque…, sembra che il poeta si lasci invadere dal desiderio nostalgico della sua terra, dal suo ricordo più vivo e malinconico.

L’immagine dell’Abruzzo si staglia davanti ai suoi occhi, e si tinge di un velo di tristezza e di rimpianto,


come avviene nelle memorie sfumate del Sogno… Pochi scrittori hanno infatti sentito e nutrito la forza delle proprie origini come d’Annunzio e nessun luogo egli ha portato nel cuore come la sua terra natale. Quel litorale sabbioso incorniciato da pini smilzi, il fiume che mescola l’acqua dolce a quella salsa, la Maiella – terra madre – solenne e austera, saranno per tutta la vita i suoi contorni interiori, i profili della sua anima. Il poeta vagabondo e inquieto, l’unico scrittore italiano che a fine secolo era già proiettato in Europa, mantiene invece forte i legami con la sua cultura d’origine, e il rapporto che d’Annunzio ha con la sua terra è alla base delle pagine più alte della sua prosa e della sua poesia.

Il tema della migrazione stagionale delle greggi, cosi rilevante pel nostro territorio, 

era da lungo tempo sedimentato nella sua anima, elaborato nella sua mente.

 

Già nel 1893 d’Annunzio, sulla Tribuna Illustrata, a commento dei lavori di Michetti, scriveva “Qui è tutta la nostra razza rappresentata, nelle grandi linee della sua struttura fisica e nella sua struttura morale:… Qui passano lungo il mare pacifico nell’alba le vaste greggi condotte da pastori solenni e grandiosi come patriarchi a somiglianza delle migrazioni primordiali”; torna poi ancora sull’immagine nel Trionfo della Morte: “Scendevano, egli e Demetrio, giù per un tratturo verso l’abbazia che ancora gli alberi nascondevano. Una calma infinita era intorno, su i luoghi solitari e grandiosi, su quell’ampia via d’erbe e di pietre deserta, ineguale, come stampata d’orme gigantesche, tacita, la cui origine si perdeva nel mistero delle montagne lontane e sacre.” E ancora nella Laude dell’illaudato, nel Libro ascetico della giovane Italia, compare l’accostamento tratturo-fiume: “quelle vie larghe come fiumane, verdeggianti d’erbe e sparse di macigni, qua e là segnate d’orme gigantesche, che discendono per le nostre alture conducendo ai piani le migrazioni delle greggi”. Così come nelle pagine più malinconiche ed elegiache del Fuoco: anche qui la transumanza è descritta in tutta la sua poetica bellezza: “… le pecore lanose camminando imitavano il movimento delle onde; ma il mare era quasi sempre quieto, quando passavano le greggi con i loro pastori. Tutto era quieto; su le spiagge era disteso un silenzio d’oro…”. Tutto è pronto, dopo una lunga gestazione, e se ne sente già l’eco, per i versi più eleganti e sobri della sua produzione: l’endecasillabo alcionio de I Pastori nella sua nitida purezza e in tutta la malia musicale dei suoi versi. 

 

D’Annunzio racconta liricamente la sua terra attraverso l’evento più rituale e identitario che la caratterizza: la transumanza… ma lo fa

vedendo in quei pastori non dei comuni uomini ma dei solenni sacerdoti, transumanza come trasmigrazione universale di tutti gli uomini.

 

Il poeta aveva già anticipato quello che oggi l’Unesco vuole venga riconosciuto come patrimonio culturale immateriale dell’umanità; e far così conoscere un frammento della nostra identità, che pur avendo profonde radici nella nostra terra è un pezzo di identità nazionale. 

 

Gli itinera callium o percorsi tratturali hanno rappresentato per millenni strutture viarie di essenziale importanza non solo per il passaggio delle greggi e dei pastori ma anche per quello dei mercanti, artigiani, pellegrini che li hanno adottati nei loro collegamenti e nei loro transiti come luoghi sicuri e sperimentati. La transumanza non è però fenomeno esclusivo dei paesi italiani ma si colloca nelle latitudini più diverse, caratterizzando l’economia di diversi paesi europei oltre che di intere zone alpine ed appenniniche del Nord ed ovviamente del Centro e del Sud Italia. 

 

La sua collocazione più autentica è quella che la lega ai verdi pascoli della montagna abruzzese che conducono alle pianure del Tavoliere delle Puglie e che è resa possibile solo da un clima di stabilità e sicurezza sociale e politica.

I percorsi tratturali, apparentemente semplici ed elementari, rappresentano invece 

il risultato di una complessa strategia di analisi del territorio,  

 

di uno studio della morfologia per cui si disegna un percorso che scavalca fiumi, valli, che si inerpica in modo audace e che crea una rete organizzata nei cui punti di intersezione si sono da sempre collocati luoghi di culto, mercati, luoghi di scambio e di smercio, abbazie, chiese, monasteri, castelli, stazioni di posta, locande, trattorie, che sono tutti, a loro modo, realtà che hanno espresso i codici economici, religiosi, antropologici ed artistici dell’economia pastorale.

Il termine tratturo, deformazione del latino tractoria, comparve per la prima volta 

sotto l’Impero Romano e designava il beneficio dell’uso gratuito del suolo 

di proprietà dello stato che venne successivamente esteso 

anche ai pastori della transumanza.

 

Con la romanizzazione delle regioni del centro Italia le attività pastorali vengono regolate giuridicamente in modo preciso e articolato, come si evince dagli scritti di Cicerone e di Varrone, come si legge ancora sulla porta Boiano di Sepino e dai tanti cippi seminati lungo le località del centro Italia. La legislazione romana ci testimonia la grande importanza dell’economia pastorale e di tutte le attività che essa induceva. Conosciamo tutti bene le origini del termine pecunia che proprio da pecus, pecora, bestiame, prende il suo etimo. 

 

Con la caduta dell’impero romano la transumanza vive un inesorabile declino e con l’arrivo dei Longobardi, ma solo dopo la loro conversione al cristianesimo, quei luoghi di culto saranno riutilizzati come tali. Dobbiamo aspettare gli Aragonesi che mutuarono il modello organizzativo della Mesa spagnola adeguandolo, con opportune modifiche, alle tipicità dell’Italia meridionale.

Così, nel 1447, si iniziò a parlare in maniera compiuta della Dogana della Mena 

delle pecore, un’istituzione fiscale, con sede a Foggia, che provvedeva 

ad affidare i pascoli e ad esigere i tributi.  

 

Sempre sotto gli Aragonesi venne fissata in metri la larghezza del tratturo e si consolidarono le tradizioni e i rituali intorno al calendario della transumanza scandito nell’arco di tempo dei due San Michele, il primo dell’8 maggio e il secondo del 29 settembre, arricchiti dai pellegrinaggi alla grotta del Santo al Gargano.Il declino della transumanza inizia con le leggi di Bonaparte, che vanno a vantaggio dell’agricoltura a discapito della pastorizia, e, nonostante gli sforzi dei Borboni, il processo purtroppo diventa irreversibile.

Il territorio abruzzese però porta ancora le stimmate come vestigia degli antichi padri di questa millenaria civiltà perché tutto il nostro paesaggio geografico 

è disegnato e costruito intorno a questo erbal fiume silente.

 

E se è vero come è vero che l’uomo è soprattutto “geografia” cioè il risultato dei suoi fiumi, del suo mare, delle sue colline, gli uomini della nostra terra sono quindi legati indissolubilmente a questa nobile e antica pratica. Raccontano essi con gesti, parole, riti, suoni, profumi, quei camminamenti, quelle lunghe pianure, quelle colline, l’orizzonte di quel mare. Modelli comportamentali, usi, costumi, stili di vita che sono maturati nei secoli dettati dalla pratica della transumanza e che si sono sedimentati nel tessuto della nostra regione, nel vissuto antropologico e in tutte le tradizioni, dimostrando ancora oggi, nel terzo millennio, la forza espressiva e la potenza del loro significato.

Cadenzati dalla melodiosa sequenza di chiese, edifici, luoghi di sosta e di culto 

che si sgranano come rosari lungo le vie dell’erba, i tratturi continuano 

ancora oggi, nascosti dietro o dentro tracciati autostradali, 

a lanciare segnali di vita attraverso suoni, segni e sapori 

e fanno sentire la forza della loro presenza.

 

Perché dentro quella terra, lungo quella via, è imprigionata la nostra identità primigenia ed è per questo che l’affermazione ah perché non son io coi miei pastori è il grido d’amore più vero e lirico che un poeta abbia mai levato per la propria terra. Il poeta che sente la realtà in una fase di disfacimento, di decadenza, avverte l’istinto incontrollabile a riandare con i “suoi” pastori e riattraversare in un percorso rigenerativo i luoghi della sua terra.

E così, in un silenzio a-temporale, accompagnato solo dall’antica musica d’acqua 

che lo sciacquio delle onde produce e da quell’ovattato calpestio degli armenti, d’Annunzio ricrea davanti ai nostri occhi il rito più antico e solenne 

di tutti i tempi: la transumanza!

 

In questo abbraccio lirico il poeta si riappropria delle sue radici e ci chiama a fare lo stesso per tornare ad essere – con orgoglio – uomini d’Abruzzo proprio nelle figure più nobili e sacre che ci rappresentano: I Pastori.

 

 

 

 

 

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LE PAROLE IN TERRA di Pier Franco Brandimarte – Numero 12 – Ottobre 2018

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LE PAROLE IN TERRA

 

quella dell’Abruzzo settentrionale dove il Tronto segna il confine e si sente l’influenza del piceno.

Tra i lemmi con la A c’è un verbo che si trova solo qui, arregnarsi, ed è significativo. Lo usavano un tempo i marchigiani, i papalini che scendevano a sud, che valicavano il fiume Tronto per raggiungere l’Abruzzo, la prima terra del Regno appunto, quello delle Due Sicilie. Un moto a luogo che per l’inimicizia degli schieramenti si trasformava in un principio bellicoso.

Arregnarsi vuol dire ancora adesso fare a botte, e lo usano da entrambe le sponde senza bisogno che nella zuffa siano coinvolti abruzzesi o marchigiani;


è sparita la connotazione geopolitica, resta solo la generica violenza. Io mi arregno, tu ti arregni, egli si arregna, etc, va bene con chiunque. 

 

Altra violenza, a colpi di verbi, senza spiegazioni: abberresà, scunecchijà, accìde. 

 

La scrèlla è un pezzo di legno, la screllata è il colpo dato con quello. Qualsiasi oggetto minimamente contundente, se si aggiunge –ata, si può dare in faccia a fare male.

 

Ricordarsi poi che morire è sempre riflessivo:

 

I’ m’mòre, tu t’muóre, etc: io mi muoro, tu ti muori. Morire in sé. Morire se stessi, spegnersi come averne avuto abbastanza. Togliersi di mezzo. À ssà muort. Si è morto. Chi l’ha ucciso? La morte. Lui stesso in quanto morte. Morire è diventare morte, farsi morte.

Da piccolo mi sembrava che nessuno, dalle mie parti, avesse troppa voglia di parlare, per quello che serviva bastavano quei cozzi circospetti di dialetto.

 

Bastava far rumore. Nonostante questo, nella normalità degli scambi, degli abbai, improvvisamente partivano ircocervi colorati, composti carnosi e filamentosi che solcavano le conversazioni, termini compatti e ramificati di nervi espressivi che non te ne dimenticavi più. Le parole lavorate da catene di bocche nei secoli e scagliate da certi vecchioni davanti al te stesso bambino.

Certi lemmi, come nomi di re babilonesi, dicevano le traiettorie: 

Nnammónde, lassù, verso il monte, Nabbàlle, verso valle.

 

I verbi che s’innestano nei tessuti del significato, che agucchiano e stringono l’uomo alla cosa: ficcare, incantare, ingannare:’ngarrà,’ngandà, ngannà: morsi, risparmio e sfinimento. Le parole andavano in terra, rimbalzavano per aria. 

 

Rivedo le persone pancitare dopo il pranzo, nel sopore digestivo. Il pancito, pangetà, lo sbadiglio inteso come un palpito dello stomaco. E nelle notti una membrana malefica si stendeva sul respiro: sognavi di annegare, di non tornare più alla superficie

Era la sensazione di sprofondare in una melma, il fondale del lago, 

un pantano, la pandàfeca si diceva, ti è venuta la pandàfeca

 

– il dizionario riporta la credenza che la pandàfeca fosse la molestia di uno spettro scontento. La pandàfeca risaliva da secoli di paludi malariche dove sciami di moscerini scurivano le sponde dei fiumi e dei fossi, nei miasmi. La terra è il fantasma che uccide. L’erosione, i disgeli, le piogge abbondanti in primavera, calcando con le suole la terra si strizza e sforma come una spugna, ne vengono riccioli e bollicine tutt’intorno, si fatica a camminare.

Ci si impantana lavorando sulla M, ‘mbandanà, le aferesi che impastano le parole lavorano di N e di M: ‘mbana, impanare, ‘ndògne, intingere – 

le lettere imbibite nel brodo del complemento.

 

Si veniva a messa dai campi con le scarpe in collo per evitare si sporcassero, alla fontanella della piazza ci si limpiava e calzava. Era tutta terra qua. Una frase nostalgica e pubblicitaria. Ma la pubblicità è sempre pulita mentre il dialetto, in sostanza, è uno sporco che gronda, sono brocche di metallo che cadono nella terra continuamente fangosa e sollevano schizzi e cimurri. E anche le bocche si gettano in terra, e le parole rimbalzano in aria: lu zalluócche, lu ciuótte, lu ciuóppe, lu ciùnghe… 

 

…La ciùta è il sesso della femmina, più conosciuta come fregna, terra madre, regina delle melme, che è come dire un fico maturo spiccato che precipita nel piatto bianco squacquerandosi, sugoso. Mentre da piccoli la si chiamava mozza, paritaria, rispetto al corrispondente membro maschile, nel numero di lettere e nella doppia zeta puntuta, ma la seconda gregaria del primo;

il primo aggressivo con le zeta che tagliano l’aria rapaci; la seconda invece ferita, mancante, mozzata, tranciata del qualcosa originario,

 

come fosse inferiore, come fosse un’invidia del pene. Anche le persone e le cose sono fregne, come nell’italiano vale l’uso di fico e fica, una cosa fica, una persona fica, un fico una fica, un fregno una fregna. La fregnaccia è sempre una cazzata. 

 

E il corpo, altro corpo, sempre caricato, pesante, deforme, animato: la varvaiòzza, ad esempio, è un doppio mento colante, lievito madre di carne, che non finisce mai come fosse l’impasto per un dolce o la massa per gli gnocchi che ognuno, corpulento, si porta addosso.

Terra di morchie, metalli cavi e violenza, terra di allegrie, spiriti e penitenza.

 

(In casa ti possono entrare: streghe, gattimammoni, mazzamarielli, e Sant’Antonio l’eremita.)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Torre di Montone

a Vinicio Ciafrè, poeta del Vibrata

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1 – Il dizionario a cui si fa riferimento è l’opera di V. Ciafrè, Dizionario del dialetto neretese, Artemia edizioni, Mosciano S. Angelo, 2010

 

IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI di Francesco Avolio – Numero 12 – Ottobre 2018

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE        E DIALETTI

Parte I

 

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In quasi centosessant’anni di vita unitaria del Paese, sui dialetti sono state dette davvero molte cose, qualche volta giuste, non di rado errate, altre volte, inevitabilmente, in contraddizione fra loro.

Qui possiamo ricordarne almeno una: i dialetti non sono lingue “minori”, bensì “piccole lingue”. La differenza è sottile, ma fondamentale: se infatti le lingue “minori” sarebbero varietà linguistiche di prestigio e valore più basso rispetto ad altre (ad esempio nei confronti delle grandi lingue nazionali), le “piccole lingue” sono invece tali semplicemente perché spesso parlate, ancora oggi, da piccole comunità (ma anche in parecchie città importanti come Napoli, Bari, Palermo, Catania, Cagliari, e, fuori del Mezzogiorno, Roma, Venezia, Trieste ecc.).

Lingue sono, però, e non altro, anche se possono sembrare votate 

ad un destino davvero strano:


da un lato sono infatti esaltate, mitizzate e (spesso senza che ve ne siano validi motivi) rimpiante nostalgicamente; dall’altro derise o disprezzate, e lasciate a lungo fuori dalla porta della scuola e perfino dell’università. Inoltre, queste lingue hanno espresso, per un lunghissimo arco di tempo, ed esprimono in parte ancora oggi, il patrimonio culturale, antropologico, delle comunità che le parlano, cioè quel vasto insieme di esperienze e conoscenze che va spesso sotto il nome di “tradizione popolare” o “cultura popolare”. Le radici profonde dei nostri dialetti sono, come per l’italiano e le altre lingue neolatine o romanze, nel latino parlato.

Si tratta, quindi, non di “figli” dell’italiano stesso, cioè di derivazioni, 

magari “scorrette” (come in molti ancora credono), 

della lingua comune, bensì di suoi “fratelli”, meno fortunati:


tutti hanno il medesimo genitore, vale a dire il latino che era in uso, sia prima di Cristo sia in epoche più tarde, fra le classi popolari di Roma e dell’Italia, con diverse innovazioni, ma anche con parecchi tratti arcaici, a volte risalenti alle tante lingue sulle quali il latino stesso, nel corso della sua lunga espansione, si era sovrapposto (osco, greco, etrusco, celtico ecc., dette tecnicamente lingue di sostrato), nonché con prestiti da quelle entrate in Italia dopo la caduta dell’Impero romano (gotico, longobardo, arabo, dette lingue di superstrato) e in epoca medievale e moderna (provenzale, francese antico e moderno, spagnolo ecc.).

Se si vuole, dunque, i nostri dialetti sono, a pieno titolo, lingue “neolatine” 

o “romanze” proprio come il francese, lo spagnolo, il portoghese o il rumeno

 

l’unica, vera differenza sta nel fatto che queste ultime sono diventate, a un certo punto della loro storia, e con motivazioni e dinamiche diverse da caso a caso, delle varietà a diffusione sempre più ampia, fino a caratterizzarsi per una chiara dimensione nazionale, ufficiale e letteraria. Un’immagine molto fortunata, e da attribuire probabilmente al linguista Max Weinreich (1894-1969), è quella secondo cui, a ben guardare, “una lingua è un dialetto con un esercito e una marina”.

Ma quanti sono i dialetti in Italia? Per strano che possa sembrare, 

è presso che impossibile rispondere a questa domanda:

 

i nostri comuni sono in tutto 8057, ma non è affatto raro il caso in cui il capoluogo comunale possieda una parlata anche molto diversa da quella delle sue frazioni (basti qui ricordare gli esempi di città e cittadine del Centro-Sud come L’Aquila, Pescara, Caserta, Potenza ecc., nonché di moltissimi comuni minori). Ciò fa così innalzare, e di molto, la cifra complessiva, senza nemmeno prendere in considerazione altri fenomeni, antichi e recenti, di variazione interna ai singoli centri abitati (dialetti dei contadini e dialetti dei pastori, dialetti dei pescatori e parlate degli artigiani ecc., che non di rado, infatti, convivevano e convivono in una stessa comunità).

Le “Indie (linguistiche) di quaggiù”?


La nota definizione che dell’Italia meridionale diedero i Gesuiti nel XVI secolo (le “Indie di quaggiù”, appunto), in seguito al rivelarsi di remoti universi contadini nei quali era più che urgente, nella loro prospettiva, l’opera di evangelizzazione – definizione che è stata poi ripresa negli anni Settanta, come titolo di una bella serie documentaristica trasmessa dalla RAI, e, più di recente, con finalità diverse, da alcuni antropologi (Francesco Faeta nel 1996, Gianluca Sciannameo nel 2006) e storici (Giuseppe Maria Viscardi nel 2005) -, sembrerebbe poter essere riutilizzata in riferimento non solo alle tradizioni popolari, e segnatamente a quelle religiose e magico-rituali, ma anche relativamente ai dialetti e alle “tradizioni linguistiche”. Il Sud, cioè, si mostrerebbe a tutta prima – agli occhi del non esperto di cose di lingua – come una sorta di gigantesco serbatoio di arcaismi, a cui attingere in una sorta di affannosa risalita verso le fasi linguistiche più antiche della nostra Penisola. 

 

Non si tratta di un’immagine del tutto falsa, ma è certamente parziale.

Proprio la dialettica conservazione/innovazione o, se si vuole, continuità/mutamento rappresenta infatti una delle prospettive più efficaci e interessanti

nello studio della fisionomia linguistica delle regioni meridionali,


e ciò fondamentalmente perché esse non sono state quasi mai un mondo chiuso, sordo alle innovazioni, isolato dalle principali correnti linguistico-culturali: “uno dei caratteri storico-geografici più salienti del Mezzogiorno è quello di essere, oltre che un paese stretto, un paese aperto, tale sia verso il continente europeo attraverso gli Appennini, sia, soprattutto, verso il Mediterraneo […]. Lungi dall’essere un elemento riduttivo o addirittura negativo, come molto spesso è stato valutato, l’apertura del Mezzogiorno ai più vari apporti esterni ha dato respiro mediterraneo ed europeo alla sua storia e ne ha arricchito culturalmente ed antropologicamente le strutture umane”1.

Non solo quindi, luogo di perturbante arcaicità, in un rapporto 

poco dialettico con il resto dell’Italia, del Mediterraneo e dell’Europa, 

ma soprattutto terra di numerosi e profondi contatti, intrecci 

e anche conflitti linguistico-cultural


(in cui l’arcaismo non è certo assente, ma non è il solo elemento in gioco), che non sono visibili solo nelle pur cospicue tracce lessicali lasciate dalle numerose dominazioni straniere – come si dice e si scrive di solito –, ma riscontrabili un po’ in tutti gli aspetti dell’espressione linguistica, dal lessico alla fonetica, dalla grammatica (morfologia) alla sintassi, e non riguardano unicamente francese, spagnolo, greco o arabo (cioè le lingue più blasonate e, quindi, nobilitanti). 

 

È proprio questo che, in diverse puntate, cercheremo di vedere un po’ più da vicino. 

 

(Segue)

 

 

 

 

 

 

 

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decoro cultura

1 – F. Barra, Il Mezzogiorno nelle relazioni internazionali, in G. Galasso, R. Romeo (a cura di), Storia del Mezzogiorno, vol. IX, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’età moderna, Tomo 2, Napoli, Edizioni del Sole, 1992, p. 162)

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La copertina del Dizionario Dialettale delle Tre Calabrie di Gerhard Rohlfs, fra le principali opere dialettologiche del Novecento, che mette subito in relazione fatti dialettali e tradizioni popolari (nello specifico, i costumi tradizionali maschili della Calabria ultra, a sin., e della Calabria citra, a destra).

La “lotta” tra forme conservative (derivate dal lat. cras) e forme innovative riguardanti la parola ‘domani’ nei dialetti dell’Italia centro-meridionale (Carta 347 dell’ Atlante linguistico e etnografico dell’Italia e della Svizzera meridionale, in sigla AIS, versione on line predisposta dall’ ing. G. Tisato dell’ISTC di Padova).

 

GARGANO ANNO 1000 di Menuccia Fontana – Numero 12 – Ottobre 2018

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GARGANO ANNO 1000

 

Pietro II Orseolo, il 26 maggio, partiva a vele spiegate, al comando della Flotta “Velis Libratis”, per Parenzo, Pola, Zara che saranno le tappe di una marcia trionfale.

A Spalato è accolto con onore ma il suo obiettivo è venire a patti con quelle genti slave che un tempo gli erano ostili. Dopo uno scontro durissimo ne esce vittorioso, la flotta Venetica torna alla base e l’Orseolo potrà assumere il titolo di doge dei Venetici e dei Dalmati.

Ed è in questa veste che nell’anno 1002 al comando della flotta Veneta 

si dirige e approda sulle coste del Gargano.


Ma non è questa la meta, la spedizione è diretta a Bari, la città assediata dai Saraceni da terra e da mare. È il 3 settembre del 1002, la flotta va verso il Gargano, il promontorio dalla morfologia tormentata, “l’isola che non c’è”. 

Li accoglie una luce abbagliante, le case bianche, e un mare che ha già il colore di un autunno alle porte, un Adriatico calmo in cui si riflettono le verdi pinete che lo circondano.

A poca distanza dalla città di Vieste c’è una piccola isola che non ha 

neanche un nome, la si indica come “l’isolotto del faro”; 


sull’isola c’è una grotta (luogo di culto della Venere Sosandra dal III secolo Avanti Cristo); bisogna fermarsi, Bari è lontana, ed è qui che i Veneziani lasciano una splendida testimonianza, non inedita ma ignorata anche dalla storiografia Veneziana. 

 

La grotta (magazzino per i fanalisti) conserva molte iscrizioni graffite, questo il testo dell’epigrafe, tradotta dal latino, che ricorda il passaggio della flotta veneta:

“In nome di Dio e del Salvatore Nostro Gesù Cristo, nell’anno 1002 dall’incoronazione, nel mese di settembre il giorno 3 nell’indizione prima, 

entrò in questo porto il signore Pietro doge dei Veneti e dei Dalmatici, 

con cento navi pronto alla guerra contro i Saraceni che assediavano Bari”.


La testimonianza già piena di orgoglio in quel primo passaggio fu poi completata (dalla stessa mano?) al momento del ritorno della flotta verso Venezia con una precisazione:

“il Doge combatté con loro alcuni li uccisero, altri li misero in fuga”.  


La città di Bari non ha dimenticato e ricorda l’avvenimento con una festa popolare – “Vidua Vidue” – di saluto a Venezia. Tutta la storia della Puglia conduce al mare, il mare è la sua vita, la sua ricchezza, la sua religione, anche i suoi santi vengono dal mare. Come ha detto Giovanni Macchia (francesista pugliese), “una dolce ansietà di Oriente si scopre sulle sue coste.” È uno scrigno che ancora nasconde piccoli tesori, a svelarli sarà “la Puglia illuminista” per farne dono a questa terra così bella che dimentica il passato. La storia si può nascondere anche su un piccolo isolotto al largo di Vieste ma è un nostro dovere civico renderla un “libro aperto” su cui si possa leggere.

 

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DEL DIVARIO NORD SUD E ALTRO di Tommaso Russo – Numero 12 – Ottobre 2018

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DEL DIVARIO NORD SUD e altro

 

Forse perché sorvegliato dai toni ufficiali di una certa storiografia delle ricorrenze, il dibattito sull’Unificazione, svoltosi nei dintorni del 150°, ha affrontato in modo sommario alcuni capitoli della storia nazionale come le coppie Risorgimento e Mezzogiorno, Stato e Mezzogiorno. Si deve a un gruppo di studiosi se quei nuclei tematici sono stati oggetto di una vivace discussione in casa Clio di cui qui se ne offre una sintesi.

 

Tra storici, economisti storici, storici economici, in molti hanno partecipato. Primo argomento affrontato è stato l’avvio del divario. Giuseppe Galasso colloca la “bipartizione dell’Italia” alla discesa, nel 568, dei Longobardi che si spinsero fino in Campania creando un principato autonomo tra Benevento e Salerno. Per secoli, si seguirono nella Penisola dinastie diverse e solo l’unificazione “porrà termine tredici secoli dopo” a quella divisione. 

 

Infatti è quell’esito con le sue conseguenze a riproporre la domanda sulla genesi del divario e a caratterizzare i contenuti della polemica.

 

In un suo pamphlet ricco di dati, cifre, report e stime, Emanuele Felice 

sente l’esigenza: di fornire una narrazione veritiera sul divario, l’origine, 

le cause; di illustrare le tesi assolutorie e accusatorie per l’agire pubblico 

dei meridionali, in particolare per i gruppi dominanti;

 

di polemizzare con Vittorio Daniele e Paolo Malanima: con i loro scritti hanno fatto da grancassa ai neoborbonici. In altra sede successiva, la risposta non si è fatta attendere. Entrambi, rigettando l’accusa di essere criptoborbonici, hanno sottolineato la conformità dei loro dati a quelli del collega. La differenza è nella data di origine. Per Felice non va ricondotta all’evento unitario, alla politica della Destra, alla presunta inferiorità dei meridionali. Nel crocevia unitario, sostiene, i ceti dominanti indigeni, «una minoranza privilegiata», scelsero la via della rendita. Sembra, però, il caso di aggiungere che all’appuntamento unitario le elites meridionali giunsero prive di un programma politico e, quindi, senza possibilità di negoziare con quelle piemontesi. 

 

Invece, Daniele e Malanima spostano agli ultimi decenni dell’800 la genesi del divario, allorquando l’Italia si incammina sulla strada dell’industrializzazione. Qui, par di capire che, in quel torno di anni, si esaurirono gli effetti benefici del corredo portato in dote dal regno delle Due Sicilie allo Stato nascente; che il ceto politico nazionale non fu in grado di elaborare un programma di sviluppo generale del Paese, ma solo un piano di lavori pubblici e di interventi in funzione anticiclica a sostegno dei settori industriali in ascesa. 

 

Studiosi come Stefano Fenoaltea, Giovanni Vecchi et alii, con i loro calcoli, stimano che l’«effetto unificazione» non fu destabilizzante per il Sud. Nei decenni centrali dell’800 partecipò del più generale trend del Paese. Ai loro occhi la questione non è la distanza fra le due parti, ma quella «tra l’Italia e i paesi progrediti dell’Europa». Si può aggiungere che quando l’Italia, alla fine dell’800, comincia a entrare nel novero dei paesi industrializzati, per reggerne l’urto sceglie una doppia velocità, sacrificando quella parte di territorio che nel frattempo si era indebolita. 

 

Salvatore Lupo partecipa al dibattito riprospettando talune riflessioni dell’esperienza della rivista Meridiana. Si tratta di punti chiave: la diversità tra storia del Mezzogiorno e questione meridionale; la differenza tra questione sociale e questione meridionale (gramscianamente intesa); la necessità di «liberare la storia del Mezzogiorno dagli stereotipi»; infine, la tesi che «il Mezzogiorno tra momenti di divergenza e convergenza col Settentrione», in 150 anni, ha partecipato allo sviluppo italiano «nel suo complesso». Vale a dire una forte attenuazione del dualismo e delle differenze fra le zone del Paese, tanto da far scomparire la questione meridionale. 

 

Ciò, a suo tempo, suscitò l’ira di Galasso e di settori della storiografia gramsciana. 

 

Renata De Lorenzo, recuperando il nocciolo della riflessione di Galasso, ha confermato che tra le due parti del Paese la differenza esisteva già nei decenni preunitari. 

 

Pier Luigi Ciocca ha aperto un nuovo cantiere di scavo. Attiene al binomio agricoltura-grande brigantaggio. Ovvero, ai danni da questo apportati a quel comparto produttivo con le sue azioni: abigeato, incendi di raccolti, di stalle e masserie, distruzione di vigneti e colture arborree (noccioleti, uliveti, agrumeti…). Quanti anni necessitarono, si chiede lo studioso, per ricostituire intero quel patrimonio agro-pastorale? Questa domanda ha senso se si considera anche il suo rovescio. Quale fu il volume del danno procurato dalla legislazione speciale, legge Pica in primis, sul mercato tra città e campagne meridionali? Anche questo è un laboratorio da esplorare. 

 

Altre suggestioni si configurano ma qui possono essere elencate solo come titoli per capitoli di ulteriori indagini. Si tratta, infatti, della nascita del pre-giudizio antimeridionale; della diacronia tra costruzione dello Stato (State building) e formazione della Nazione (Nation building); dell’esigenza di definire il grande brigantaggio come lotta di classe o moto demanialista, scontro legittimista o guerra civile o combinazione di alcune tra queste determinazioni. Di certo, non fu una jacquerie.

Il Pil come indicatore di sviluppo di una comunità non sempre ne misura i contenuti 

in modo reale e veritiero. E se ciò vale per il ‘900, è d’obbligo la prudenza per l’800 meridionale, preunitario, per il quale necessitano altri indici per capire 

il più vasto dei Regni italiani usciti dal congresso di Vienna.


Con la Prammatica De Regimine studiorum (1770) Ferdinando IV, sottraendolo ai Gesuiti, istituisce un nuovo sistema scolastico pubblico, statale e laico. Tra cambiamenti e continuità è durato fino al 1860 in quanto era chiaro il modello di società che rifletteva o che doveva riprodurre. 

 

1811: Murat perfeziona l’impianto ferdinandeo con un Decreto organico. 1816: il restaurato borbone lo assume con qualche modifica negli Statuti per i Reali Collegi e Licei. Viene così a configurarsi un sistema di educazione e istruzione in grado di reggere il confronto con altri apparati istruttivi europei e con quello del Lombardo-veneto, ritenuto il migliore. 

 

Un altro cammeo fu la Reale Scuola per gli ingegneri di Ponti e Strade, Acque, Foreste e Pesca diretta da Carlo Afan de Rivera. Nacque durante il Decennio francese; quindi, prima della milanese Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri (SIAM) sorta, nel 1838, per volontà di Enrico Mylius.

La Scuola napoletana si distinse in tutta Europa per il suo know-how scientifico 

e tecnologico; per la buona pratica didattica di inviare in Francia, Inghilterra, Germania, Russia propri studenti e docenti a fare esperienze. 

Valeva anche il cammino inverso.


Numerosi furono docenti e studenti europei che vennero nel Regno, per esempio, a studiare il ponte di ferro a catene sospese sul fiume Garigliano e poi quello sul fiume Calore progettati dall’ing. lucano Luigi Giura e ancora funzionanti. 

 

Nel decennio 1830-40, le Società economiche, in specie quelle di Basilicata, Salerno, Terra di Lavoro, svolsero una meritoria azione di: divulgazione di nuovi criteri di coltivazione, diffusione dell’istruzione agraria, inviti all’associazionismo. 

 

Nei decenni preunitari l’istruzione nell’arte del mare, di antica tradizione, pur tra difficoltà finanziarie e organizzative, dette vita a un prestigioso sistema formativo. I due convitti di San Giuseppe a Chiaia e del Carminiello al Mercato, istituiti per ospitare gli orfani dei marinai, affrontando un cammino non semplice, riuscirono, nel 1818, a trasformarsi in collegio dei Pilotini e poi a trasferirsi a Meta di Sorrento. Ciò che ne aveva promosso il successo era una doppia convinzione: la formazione unitaria degli addetti alla marina militare e a quella mercantile; la considerazione del mare, il Mediterraneo, come asse centrale dell’economia del Regno. 

 

Con quanto detto non si intende esaurire il vasto panorama istituzionale del Mezzogiorno preunitario. Tutto ciò non comporta una rappresentazione autoconsolatoria ora per allora; né mette capo a una beatitudo temporum. Al contrario. Quelle istituzioni sono gli indici che invitano a una diversa interpretazione. Sono un universo di saperi. Il loro tratto di modernità consiste nell’essere una risorsa unitaria e immateriale con riflessi sullo sviluppo complessivo. La Scuola di Ponti e Strade aveva una visione olistica della natura. I licei avevano un doppio percorso istruttivo. Gli studenti imparavano le materie comuni e anche quelle di indirizzo: agraria, giurisprudenza, medicina.

La sintesi tra saperi di cui quel sistema era depositario dette vita all’unità tra storia 

e natura, tra civiltà e cultura. Solo una facile propaganda, a la lord Gladestone, 

o una storiografia interessata, hanno potuto svillaneggiare o passare sotto silenzio questo corredo di lunga durata portato in dote alla nuova Italia.


L’andamento del divario non è mai stato lineare. Comincia a crescere negli ultimi decenni tra ‘800 e ‘900. Continua negli anni della grande guerra. Aumenta durante il fascismo con la crisi del ’29 e la politica autarchica. Non accenna a diminuire negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto. La risalita comincerà negli anni della ricostruzione e del boom economico, quando lo Stato col suo intervento avvierà un circolo virtuoso. 

 

Già agli inizi del ‘900, con la legislazione d’emergenza (1904-06), lo Stato intervenne in alcune regioni meridionali. La mancanza però di una idea di pianificazione delle risorse rese quell’intervento parziale.

 

Anche il progetto elettro-irriguo di Nitti affidava allo Stato un ruolo centrale. 

 

Bisognerà attendere il secondo dopo guerra quando un gruppo di tecnocrati di formazione nittiana, passati indenni dal fascismo alla Repubblica, muterà la direzione dell’intervento nel Mezzogiorno. Le risorse saranno finalizzate all’infrastrutturazione come primo passo per l’industrializzazione in una logica di complementarietà e di unificazione del mercato. Le due parti del Paese dovevano unificarsi con un piano di sviluppo generale raccolto in una grande produzione legislativa: il piano INA-CASE, la Cassa per il Mezzogiorno, la riforma stralcio con l’intento di costruire il “sistema Italia”: almeno nelle intenzioni. Lo Stato aveva una funzione regolativa non sostitutiva del mercato. Anche i grandi flussi migratori parteciparono, a loro modo, a questo progetto di unificazione. Questa stagione irripetibile,1947-1952, dispiegherà i suoi effetti positivi fin verso il 1964 dando tangibili segnali di diminuzione del divario.

Gli anni ’50, inoltre, fanno registrare nel Mezzogiorno una interessante fioritura: 

case editrici, giornali, riviste, circoli culturali. In una parola: da un lato gli intellettuali riscoprono la loro funzione civile nel conio di una nuova mediazione fra gruppi sociali e Stato e fra questo e la comunità locali; dall’altro lato la vivacità di quegli anni 

vive senza contributi pubblici ma sull’entusiasmo e sulla passione civile 

che era riuscita a suscitare.


Il decennio 1950-60 costituisce, dunque, un momento alto nella vita del Mezzogiorno durante il quale questa parte del Paese ripropone la sua offerta immateriale alla direzione dello Stato con figure giuridiche, amministrative, direttive come era stato in precedenza. Tutto ciò necessita della riemersione critica di vecchi e nuovi contenuti, noti o meno, e di una diversa interpretazione pena un divario irrecuperabile. Non solo economico.

 

 

 

 

Del divario nord sud
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  Bibliografia 

 

Daniele, V.-Malanima, P. Il divario Nord-Sud in Italia 1861-2011, Rubettino, 2011 

 

De Matteo, L. Una “economia “alle strette” nel Mediterraneo. Modelli di sviluppo, imprese e imprenditori a Napoli e nel Mezzogiorno nell’Ottocento, ESI, 2013 

 

Felice, E. Perché il Sud è rimasto indietro, Il Mulino, 2013 

 

Galasso, G. (a c. di) Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia Centro-Settentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100-1350), Rubettino, 2014 

 

Giannola, A. Mezzogiorno oggi: una sfida italiana, in Cassese, S. (a c.di), Lezioni sul meridionalismo, Il Mulino, 2016.