IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte III di Francesco Avolio – Maggio 2019

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

Parte III

 

 

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio, 

la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?


Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.

2 – Il “ponte” calabrese


Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1): 

1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filënévë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u

2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H); 

3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G); 

4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F); 

5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D); 

6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E); 

7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C); 

8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A). 

Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.

 

3 – Il “tacco d’Italia”


La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.

 

Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave 

di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni 

della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci, 

Corigliano d’Otranto, Sternatìa);

 

qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.

4 – Le parlate siciliane

 

E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che

 

i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni 

vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,


conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse. 

Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso 

Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto 

dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,


per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –– da – originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’). 

Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’. 

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar. 

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.

 

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Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144. 

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 Correlato parte IV

 

ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA di Fernando Popoli – Numero 14 – Maggio 2019

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ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA

 

ma quello che viene ricordato come il più grande interprete in assoluto è Antonio Petito, un attore e commediografo che fu attivo nell’ottocento e conseguì un successo strepitoso per la sua recitazione.

Antonio, detto Totonno o’ pazzo per la sua esuberanza, era figlio d’arte, il padre Salvatore e la madre Donna Peppa, al secolo Maria Giuseppa Errico, avevano aperto un teatro in una baracca dove rappresentavano i Reali di Francia per il divertimento del popolo napoletano che accorreva numeroso per il gran divertimento. 
 

Il giovane Antonio debuttò all’età di nove anni e gli fu ceduta la maschera di Pulcinella dal padre in giovane età nel teatro San Carlino dove recitava in quegli anni. Modificò le caratteristiche del personaggio che, da popolano, diventò borghese, quasi aristocratico, indossando sulla veste bianca una redingote e un cappello a cilindro, come i veri signori, mettendo da parte il coppolone, quel lungo e morbido copricapo tipico di tutti i suoi predecessori.

 

Totonno o’ pazzo non parla solo in dialetto ma inserisce nelle sue battute 

frasi italiane e francesi ostentando una possibile aristocrazia, 

modifica il personaggio elevandolo di rango 

per dargli una dimensione accettabile 

da tutte le classi sociali.


È umano e non solo buffone, a volte triste e non sempre allegro, sentimentale e anche cialtrone, ha un repertorio vastissimo di battute che incantano il pubblico, pronto a ridere e a commuoversi alle sue performance. La grande tradizione della Maschera viene trasformata e rielaborata. Le sue origini, come si sa, sono antichissime, c’è chi le fa risalire addirittura alle atellane e al personaggio di Maccus, altri lo datano nel Seicento ad opera dell’attore Silvio Fiorillo ma quella che è rimasta maggiormente nella storia del teatro napoletano è di Petito. Totonno o’pazzo non fu solo attore ma anche brillante commediografo,

i suoi copioni sono pieni di errori, sono scritti male sotto l’aspetto grammaticale 
ma sono efficienti, hanno il senso del teatro, della recitazione, della battuta 
e riscuotono successo, applausi a scena aperta, ovazioni.

Un consenso unanime del pubblico che li considera divertentissimi. Tra le sue opere vanno ricordate soprattutto quelle di sfondo sociale:
La lotteria alfabetica, Tre banche a ‘o treciento pe mille, Nu studio ‘e spiritismo pe fa turnà li muorte ‘a l’atu munno. Petito è senz’altro una delle figure più importanti del teatro napoletano dell’Ottocento. Le sue commedie, considerate da molti dopo la sua morte solo dei canovacci, furono in seguito rivalutate e capite da Raffaele Viviani, un altro grande della commedia napoletana, che le riscoprì mettendo in scena So’ muorto e m’hanno fatto turna’ a nascere con il titolo di Siamo Tutti fratelli.
 

Anche Eduardo Scarpetta come Eduardo De Filippo presero spunti e suggerimenti dal Pulcinella di Petito proponendo il personaggio di Felice Sciosciammocca.

Dopo l’interpretazione magistrale di un Pulcinella diverso, ad un certo punto della sua carriera di attore, Petito acquisì un’altra veste: si tolse la maschera per affrontare un nuovo personaggio, tutto suo, quello di
Pascariello col quale continuò a recitare sino alla fine dei suoi giorni alternando i due personaggi. Morì in teatro recitando, la sera del 24 marzo 1876, si sentì male dietro le quinte durante lo spettacolo e fu portato agonizzante sul palcoscenico dove esalò l’ultimo respiro tra gli applausi lunghissimi del suo pubblico che intese così tributargli un ultimo saluto.

È ricordato nella storia del teatro come il più grande interprete di Pulecenella, 
mai eguagliato nel tempo.

Nel 1982 la RAI gli dedicò uno sceneggiato televisivo in sette puntate:
Petito story scritto e sceneggiato da Gennaro Magliulo ed Ettore Massarese.
 
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DONNE E TRADIZIONE MUSICALE ORALE di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 14 – Maggio 2019

LE DONNE E LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA

PARTE I

 

 

La musica e i canti tradizionali delle, con e per le donne calabresi e lucane, troppo spesso relegate nel ruolo di «madre e angelo del focolare domestico», in un panorama sonoro considerato, evidentemente, «muto» e «immobile»1.     

La ricchezza culturale nel complesso mosaico di popoli, calabrese e lucano, ha determinato profonde diversificazioni nelle espressioni musicali e coreutiche. Attraverso i canti d’amore, come nel caso citato delle comunità ellenofone, o nella danza, ad esempio, si percepisce, la differenza dei ruoli di genere all’interno della specifica comunità. 

 

Siamo in presenza, infatti, di culture aurali fra le più copiose del Mediterraneo, che si tramandano da bocca a orecchio, mediante complessi e impalpabili meccanismi, ricorrendo alla ri-elaborazione creativa di codici e grammatiche superindividuali. Tali codici si esprimono anche al femminile in tutto il ciclo della vita: nelle ninnenanne, nei canti d’amore e di sdegno2, nelle raffinate pratiche di canto polivocale, nei repertori paraliturgici della festa e della fede, nelle danze e nei canti della (e sulla) emigrazione; nelle rapsodie epiche e, persino, nel pianto rituale. 1Magrini T., 1986.

 

In questo variegato e ricco panorama, le donne si stagliano 

quali protagoniste straordinarie della Sapienza popolare. 


Nel seguire l’articolazione ciclica dei canti che accompagnano la vita, invadiamo lo spazio domestico più intimo, già richiamato. Al suo interno risuona, con la sua melopea ipnotica di versi, suoni e movimento, la figura materna, che conserva e trasmette valori e Saperi. 

 

Le ninnenanne, così come le filastrocche e altri giochi e rime infantili, sono componimenti a gestione prevalentemente femminile. Spesso fondati sulle tecniche del nonsense, dell’onomatopeia, sono adattati (e ri-composti) nella specifica performance, con le tecniche dell’oralità: stereotipie e cellule-tipo; brevi incisi o persino interi schemi-traccia con epiteti formulaici, rielaborati secondo esigenze di rima e di ritmo, accompagnati dal moto iterativo del corpo, che placa e sviluppa anche il senso della coordinazione motoria.

Le Prefiche/Reputatrici in Calabria e Basilicata 


“Bene fu osservato […], che la donna fin dai tempi remotissimi dell’antichità, ebbe la parte principale nella pietà verso i defunti”
3. Le prefiche non si estinsero col paganesimo, ma perdurarono nel medioevo, col nome di reputantes, reputatrices, cantatrices o computatrices, nonostante i divieti nelle persecuzioni delle autorità civili ed ecclesiastiche, poiché bollate quali sopravvivenze di pagana empietà.

Occorre dire che i modi della crisi del cordoglio nel mondo rurale calabrese 

e lucano si avvicinano sensibilmente ai modi spettacolari 

riscontrabili nel mondo antico,


serbandone con assoluta fedeltà alcuni tratti, compresi i momenti performativi, che vedono donne vestite di nero strapparsi i capelli ed intonare lamenti funebri per e sul defunto, con la premura di farlo per bene, di saper piangere, poiché non è meno importante il modo in cui è eseguito.

 

Il caso di Longobucco 


Ancora oggi, nel versante jonico della Provincia di Cosenza, è molto diffuso l’antico adagio: “Chi ti vuonn’ c̣hiàngere quaṭtru lannivucchise”4: le prefiche/reputatrici per antonomasia! Tale fama è giustificata dalla constatazione che, in passato, tale attività aveva raggiunto livelli particolarmente raffinati nella comunità di Longobucco, per quel che concerne tecniche esecutive e performative. L’intonazione si sviluppava secondo una forma canonica, iniziando dal grave, per poi muoversi verso l’acuto, seppur in un ambitus melodico piuttosto ridotto, cromaticamente o in glissando, per poi ritornare verso il grave.

 

In ultimo, un gemito più acuto: un urlo lacerato, di disperazione assoluta.


Il corpo era ripiegato su stesso e si abbandonava ad un dondolio cadenzato (come per le ninnenanne), accompagnando col movimento il canto/nenia; i capelli erano sciolti, per poter dissimulare l’atto di strapparli per la disperazione (anche se, in taluni casi, ciò avveniva veramente). 

 

Oggi, mentre scrivo queste poche righe, il rintocco di campane a morto m’informa del passaggio di un corteo funebre. Probabilmente suggestionato dalle recenti letture di saggi e testi afferenti a questo tema, non posso fare a meno di concentrarmi sul panorama sonoro che mi circonda. Il corteo è di tipo tradizionale: banda, corone di fiori e lamentazioni meste e a mezza voce, lungo tutto il tragitto, che si snoda, partendo dalla casa dell’estinto, verso la chiesa.

Prima dell’ingresso, un urlo disperato della vedova del de cuis 

squarcia il silenzio del piccolo borgo nel quale vivo e lavoro.


Il pianto rituale, almeno in Calabria, non è del tutto scomparso! 

Il nero è il suo colore. Il lamento la sua voce. L’urlo lacerato/lacerante il suo sfogo.

 

 

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1 «Soggetto desiderante e oggetto desiderato […] da una parte l’esibizione narcisistica dell’uomo, che canta, si qualifica e qualifica, e, dall’altra parte, il nascondimento uditivo della donna, che è esclusa dal canto, non si qualifica, ma è qualificata» Crupi, P. 1982, a proposito delle donne grecaniche.

 

2 Magrini T., 1986.

 

3 Lumini A., Rist. Anastatica, 1989.

 

«Possano piangerti quattro donne longobucchesi». Quattro perché, nella “scena” del funerale, queste si posizionavano, a coppie, alla testa e ai piedi del defunto.

 

Bibliografia 

 

Accattatis L., Vocabolario del dialetto calabrese (s.v.), Cosenza, Nigro, 1895. 

 

Altimari F., G Nanci, La ballata del fratello morto e la cavalcata fantastica, in Giséle Vanhese (a cura di), Eminescu plutonico: Poetica del fantastico Arcavacata di Rende (CS), Università della Calabria, Centro Editoriale e Librario, 2007. 

 

Angelini P., Ernesto de Martino, Roma, Carocci, 2008. 

 

Barrio G., Antichità e luoghi della Calabria, rist., Cosenza, Brenner, 1979. 

 

Brienza R., (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1975. 

 

Casolo F., Melica S., Il corpo che parla: Comunicazione ed espressività nel movimento umano, Milano. Vita e Pensiero, 2005. 

 

Crupi P., Roghudi, un’isola grecanica asportata, Pellegrini, Cosenza, 1982.  

 

de Martino E., Sud e magia, Roma, Donzelli, 2015. 

 

de Martino E., Morte e pianto rituale: Dal lamento funebre antico al pianto di Mari,. Torino, Universale Bollati Boringhieri, 2008. 

 

De Simone R., Il gesto somatico ritualizzato, in De Simone R., Rossi A. (a cura di), Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca, 1977. 

 

Del Giudice L., Ninna-nanna-nonsense? Fears, Dreams, and Falling in the Italian Lullaby, in Oral Tradition, 3/3, 1988, 270-29. 

 

Durante R., La donna nel canto popolare. La ninna nanna, Napoli, Editoriale Scientifica, 2002.

Lumini A., Studi Calabresi, Cosenza, Brenner, Rist. 1989. 

 

Magrini T., Canti d’amore e di sdegno. Funzioni e dinamiche psichiche della cultura orale, Milano, Franco Angeli, 1986. 

 

Saffioti T. (a cura di), Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione, Milano, Emme, 1981. 

 

Zumthor P., La presenza della voce: Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino, 1984.

 

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TRENT’ANNI DI TRATTURO di Pierluigi Giorgio – Numero 14 – Maggio 2019

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TRENT’ANNI DI TRATTURO 

 

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Chi dice loro che stanno arrivando? Chi agli uccelli migratori ricorda il tempo di andare? E chi il percorso da seguire?

Eppure c’è un fermento da giorni in attesa dell’uomo che apra i cancelli: il segnale è nell’aria e preme sugli zoccoli, stimola i muggiti, morde l’impazienza…

 

Cent’ottanta chilometri da macinare di buona lena, recuperare di notte in quel tempo che resta e ripartire al mattino più baldanzose di prima nonostante la strada alle spalle:

molta strada, poco tratturo purtroppo! Ma a buon conto la meta s’avvicina, 

la si riconosce dai profumi nell’aria, dal clima più temperato, adeguato, 

dal giallo abbagliante e fragrante delle ginestre, dal rosso prorompente 

dei papaveri, dalla grassa verde erba a portata di bocca: ogni giorno 

che passa, la Puglia s’allontana, gli alpeggi della Montagnola 

di Frosolone sono sempre più a vista


Così è per gli uomini – ma quanto dormono in fondo? – Alzarsi più stanchi di prima, riunire la mandria, avviarla, contenerla nel percorso sempre più sminuzzato, proteggerla dalle auto in agguato, raccattarne qualcuna all’indietro quando si perdono, contare i giorni e le ore, i passi dietro passi, buttare giù in fretta un boccone – idea di una cena – crollare a terra ma solo a metà, con un occhio vigile al bestiame, “il capitale”, un fischio ai cani e sognare al ritorno di tuffarsi in quel tenero, agognato conforto di un abbraccio… padri, madri, figli, mogli: lande di terra e terra a dividerli per sei lunghi mesi all’anno, con gli occhi al tratturo, la lunga scia verde da seguire, finché si può, con lo sguardo all’orizzonte sin lì dove scompare, dove smarrisce nel cielo. La lunga via del cuore, simbolico cordone ombelicale da recidere mai, che unisce anime, emozioni, malinconie, desideri. Almeno lo si pensa, lo si deve pensare, per lenire la mancanza. 

 

Una volta scrissi: “Gli uomini dei Colantuono sono gente dura, determinata, forgiata ad ogni sforzo… da quando masticarono pane duro, patimento, sacrificio e un’infinità imprecisata di passi. Hanno nel petto sangue sannita e nel sangue il latte dei pascoli.

Sono avari di parole, parole non dette: contano le bestie, ne conoscono i nomi; contano i secchietti di latte, i formaggi, le albe e i tramonti; contano i passi più lenti 

e malinconici in autunno, più spediti e cadenzati in primavera 

a ritmo allegro come il battito dei loro cuori.


Ascoltano il vento e ne traggono auspici. Guardano le stelle e si perdono negli spazi, in quelle infinite notti d’addiaccio dei bivacchi… Gli occhi dei Colantuono scrutano il tratturo, quel filo infinito che li lega al passato, da sempre. E così si spera possa esser per sempre; anche se poi non sai se più ci credono… Negli spazi coltivati vedono il presente; nei risvolti incatramati dei dossi, nelle scie asfaltate che rubano il tracciato, nelle poste in Puglia svanite, leggono malinconici il futuro. Gli uomini dei Colantuono sono caparbi, testardi, tenaci, un po’ incoscienti e un po’ poeti.

La sanno la storia che le donne raccontano ai bimbi nelle lunghe notti d’autunno, quando i rami scricchiolano al vento e gli esseri migratori s’involano per altri lidi. Storia di Dio che creò i tratturi per far migrare le bestie, che altrimenti 

sarebbero morte di fame, freddo e stenti… 


Le donne…. Sì, le donne dei Colantuono, sono donne forti, da quando i loro uomini, gambe agili su per tratturi e quattro stracci in spalla ai primi freddi autunnali raccolsero la mandria e dal Molise, la guidarono in Puglia a svernare nei fertili pianori del Tavoliere Le donne della famiglia Colantuono sono donne sagge. A loro restò l’organizzazione della casa, la cura dei piccoli, le decisioni da prendere senza il conforto di consultar mariti. Sono pazienti, sanno attendere, centellinare i mesi, giorni, gli attimi che li dividono, che li separano dal ritorno dei cari – padri, sposi, figli, quelli più grandi. Guardano l’antica pista verde, la lunga, larga via del cuore, e sanno che l’altra parte di sé è al di là di quella scia: da sempre.”

Storia del passato. Questa era la transumanza di allora, quella che ebbi il privilegio 

di vivere con la famiglia dei Colantuono nel 1989 e di portarla a conoscenza 

dei più (Maurizio Costanzo compreso) in racconti zeppi 

di cuore e parole, articoli su pagine nazionali,


il primo servizio fotografico completo su di loro e ben quattro documentari: “Mal di Tratturo”, “La Lunga Via Verde”, “Artegiani: con le mani dell’Uomo”, “La Lunga Via del Cuore”. Sino a conferir loro il “Premio Internazionale La Traglia – Etnie e Comunità” nel 2016 a Jelsi. Conoscenza e visibilità che hanno spinto tanta gente da allora – a volte convinti assertori della difesa dei tratturi, stranieri, giornalisti, film-maker da tutto il mondo – ad incontrare i Colantuono, a condividere annualmente, almeno in parte, un’esperienza che almeno una volta nella vita andrebbe fatta – che i politici dovrebbero fare per toccare con mano le miserande condizioni tratturali e le fatiche dei transumanti; e non solo “presenziando agli arrivi” e benedicendo con affettata compiacenza! 

 

Carmelina Colantuono, l’ormai citata e con merito “cowgirl” in Italia, Europa ed oltreoceano, nipote di zì Felice Colantuono, il patriarca, era una giovanissima donna quando la conobbi, ancora con un futuro da decifrare, al pari dei fratelli e cugini allora adolescenti o comunque giovanissimi: continuare o fermarsi per sempre? Forse neppure l’anziano nonno avrebbe mai potuto immaginare che proprio una donna, questa intraprendente nipote – che da ragazza con malinconia e senso d’ingiustizia vedeva partire solo gli uomini della famiglia – si sarebbe un giorno rimboccata le maniche e da lì a poco avrebbe raccolto e tirato le redini di un cotal “carrozzone”.

Oggi la transumanza dei Colantuono non è più quella d’allora, pur sempre faticosa 

e impegnativa nonostante il tragitto non più a piedi ma a cavallo, i supporti logistici,

 i cellulari. Ma che non svanisca la magia, che non muoia mai il sogno! 

La transumanza è un sentimento. La transumanza per me è poesia!


Una volta Vittorio Savini scrisse, in riferimento agli Indiani d’America: “Quando un sogno muore, non è sconfitto chi sognava, ma chi ha ucciso quel sogno: è il sogno di una vita diversa, che non è il rifiuto del frigorifero o della penicillina, ma di quel modo di pensare che non ci fa mai sentire parte di qualcosa, che ci fa agire senza la dignità e l’orgoglio, perché si tratta di due impicci lungo la strada della carriera e del denaro”.

 

In merito all’andamento odierno, va dato inoltre atto a Nicola Di Niro, Direttore dell’Agenzia per lo Sviluppo Rurale e responsabile Moligal del progetto di cooperazione transnazionale, di aver saputo accogliere alla grande il testimone di quel mio inizio, di quell’intuito, con capacità organizzativa e visione ampia e concreta, di proiezione e “gemellaggio” europeo verso altre realtà internazionali consimili,

sino all’auspicabile approvazione iniziata con la candidatura della transumanza 

quale “patrimonio culturale Unesco”.


Un passo importante, un riconoscimento decisivo, che dovrà necessariamente e di conseguenza portare al recupero e riutilizzo di una buona parte dei tratturi molisani (turismo, nuove occasioni d’impegno lavorativo…) dando la sveglia agli Enti locali preposti, in realtà tutt’ora – nonostante i proclami – mellifluamente dormienti. Il tratturo, è un unicum ormai solo molisano! C’è necessità di megafoni e trombe per farlo capire?

Dunque eccomi qui! Trent’anni dopo ho voluto rivivere quell’esperienza 

con i Colantuono, con me sempre affettuosa riconoscente famiglia;


constatare tutta la loro tenacia e pacatezza, l’accoglienza nei riguardi di gente che ti arriva anno per anno sempre più numerosa ma, molto sovente, creando disagio, all’improvviso – a volte maldestramente senza preavviso: centinaia!- e a cui bisogna offrire una branda, fornirla di cibo, dedicar loro del tempo, nonostante la fatica, le preoccupazioni, la concentrazione sui compiti precipui.

 

Ed io? Perché l’ho fatto? Perché continuo ad esserci? Perché a piedi, nonostante non sia affatto facile appaiarsi e sostenere il ritmo dei cavalli e della mandria? E’ forse un omaggio agli avi, una ricerca di simbiosi con la terra, con quelle antiche tracce, con quell’antica storia. E poi è un viaggio dentro di me che porta a comprendere quanto è rimasto nelle pieghe del cuore, quanto è cambiato. Una sorta di appuntamento empatico; un movimento che parte da un’invisibile centro interiore: un pellegrinaggio – al di là dell’accezione religiosa – ove sacralità, devozione e ritualità sussistono all’interno e all’esterno del proprio intimo, segreto scrigno.

Alla fine del quarto giorno, alla fine del viaggio, il contrasto emotivo è palpabile: 

alle spalle il ricordo, felicità dell’arrivo; domani, fra qualche giorno, 

malinconia del termine…


Rammento -trent’anni fa, appena giunti a destinazione – di aver “fotografato”, con parole vergate di getto, l’emozione del vecchio capostipite, zì Felice Colantuono, la cui baldanza verbale si stemperava sempre più in prossimità della meta: “Sarebbe stato l’ultimo tuo tratturo?.. Sì, certo la tua casa era lì nel tuo paese, ma anche lì, sotto le stelle. E’ proprio vero che quando uno ha fatto il tratturo, non sa più camminare su altre strade?” 

 

Nelle frasi dedicatemi dai Colantuono, che mi hanno donato la sorpresa all’arrivo, di una festa con tanto di torta e spumante per i miei trent’anni di frequentazione (1989/2019), come negli sguardi, i sorrisi, i gesti dei componenti della famiglia, ho avvertito tutto l’affetto, la riconoscenza, la gratitudine, la familiarità..

Grazie di cuore. Un cuore verde, come i nostri meravigliosi, unici tratturi!


Ed ora, chiedo a me stesso, di tutto ciò, Pierluigi, che ne farai?… “Ora mi cerco un angolo di cielo, mi siedo e gli racconto tutto…”

 

 

 

 

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GRAGNANO CITTÀ DELLA PASTA di Stafania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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GRAGNANO CITTÀ DELLA PASTA 

 

Ma la pasta ci identifica di più. Basta pensare agli “spaghetti western” o – in senso negativo – alla pistola posata su un piatto di spaghetti nella copertina di Der Spiegel. Senza citare il “macaroni” dispregiativo con cui venivano chiamati gli emigranti italiani. Ma, bisogna dirlo, almeno in questo siamo stati bravi e abbiamo capovolto quel disprezzo in una eccellenza e se oggi si dice pasta si pensa, sì, agli italiani, ma con l’acquolina in bocca e la certezza che, se è tricolore, vale di più. Grande merito di questo successo è dovuto alla pasta artigianale, quella prodotta col grano duro. Sul mercato nazionale registra un costante aumento dei volumi di vendita, ma non da meno è il trend delle esportazioni. 

 

Secondo i dati Istat, tra il 2017 e i primi mesi del 2018 l’export è cresciuto di quasi 18.000 tonnellate. Andiamo alla grande in Europa – più di 103.000 tonnellate –  e cresce di quasi 8.000 persino nei paesi terzi.

C’è un piccolo distretto, in Campania, quello di Gragnano, 

dedicato da oltre 500 anni alla produzione del maccherone.


Qui se ne fabbrica uno speciale, di grano duro, essiccato lentamente a bassa temperatura. Grazie a questa sua leggendaria tradizione, è diventato la patria della pasta celebrata da scrittori, storici e poeti. Talmente tanto dedicato alla pasta, che nel XIX secolo l’architettura del paese venne riprogettata in modo tale che la luce del sole giungesse a ogni ora sugli spaghetti messi a essiccare.

La zona fa parte del distretto agroalimentare più ampio, 

quello di Nocera-Gragnano.


Si tratta di un’area, compresa tra il cono vulcanico del Vesuvio e le montagne di Sarno a Nord ed i Monti Lattari a Sud, composta da 20 comuni. Molte sono le produzioni di eccellenza. Dalla trasformazione del pomodoro – sposo ideale di ogni spaghetto – alla realizzazione di conserve, alla pasta (Gragnano), al vino DOC (Lettere e Gragnano), al cipollotto Nocerino (DOP), all’olio (DOP), alla melannurca (IGP). Il prodotto più noto ai consumatori è il pomodoro di San Marzano, l’“oro rosso” che ha ricevuto la Denominazione di Origine Protetta.

Inoltre, i pastifici, qui, hanno creato un discreto indotto: la manodopera 

è quasi tutta locale, altrimenti gli operai arrivano da una raggio 

che non supera i 30 chilometri.


Insomma, una realtà economicamente vivace, che – come si diceva – molto deve all’esportazione. Nella città della pasta, per esempio c’è una azienda che esporta perfino in Mongolia. È un’impresa familiare che si tramanda di generazione in generazione, perché – spiega Ciro Moccia, imprenditore – “la pasta ci è entrata nel sangue”. E per quasi tutte le altre è così: di padre in figlio, da anni e anni. Del resto, il secolo d’oro per la pasta, nel regno delle Due Sicilie, è stato l’Ottocento, quando con le carestie divenne un alimento fondamentale grazie alle sue qualità nutritive. Tanto che,

nel 1845, Ferdinando II di Borbone concesse ai gragnanesi il privilegio 

di fornire la corte e così, per tutti, Gragnano diventò la città della pasta.


Ormai è famosa in tutto il mondo e ha ottenuto il riconoscimento di Indicazione Geografica Protetta. Il segreto dei 20 pastifici locali è che utilizzano solo grano di alta qualità e trafile di bronzo, come una volta. Il resto lo fa la natura. L’acqua che sgorga dai monti lattari, la fertile terra vulcanica, il microclima umido, ideale per l’asciugatura lenta. E poi c’è l’enorme varietà dei formati creati nei secoli: spaghetti, farfalle, maccheroni, penne, bucatini, torciglioni, fusilli, paccheri e chi più ne ha più ne metta. 

 

Certo, non sempre la Campania riesce a custodire la sua miniera d’oro. Alcuni marchi storici della pasta, nel tempo, sono stati inglobati da multinazionali. E poi – come per moltissimi altri settori dell’industria alimentare italiana – c’è il problema delle imitazioni. Ci sono spaghetti stranieri con nomi italianeggianti o con il Colosseo sulla confezione. Per questo si è costituito un consorzio per difendere l’antica produzione. Tutte le aziende che ne fanno parte devono rispettare un rigido disciplinare Igp del 2010, che detta non solo come deve essere fatta la pasta, ma anche altri particolari: un particolare profumo di grano maturo e un sapore sapido, dal gusto deciso. Deve avere un aspetto rugoso, tipico della trafilatura a bronzo e la cottura deve avere un’ottima tenuta.    Perché solo l’alta qualità può salvarci.

 

 

 

 

 

 

 

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L’INDIANO CHE AMAVA IL NOSTRO SUD di Giorgio Salvatori – Numero 14 – Maggio 2019

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L’INDIANO    CHE AMAVA      IL NOSTRO SUD

 

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quando giunse, per la seconda volta, in Italia fu recarsi sulle rive del lago d’Averno, a Pozzuoli. Era affascinato dalla leggenda della Sibilla Cumana e dai miti e dalle leggende dei popoli italici.

 

Gli piaceva l’Italia, ma amava, in particolare, il Sud,

 

per il calore delle relazioni interpersonali, per il legame tra gli uomini e la terra, per la concezione dilatata della famiglia, così simile, affermava, al tyospaye, la famiglia allargata della sua cultura atavica e tradizionale, in cui ogni bambino può contare su una o più madri e su diversi padri o nonni se i genitori biologici vengono a mancare per sempre o anche temporaneamente. “Cerco ciò che unisce le nostre culture e le nostre tradizioni”, diceva, “non ciò che ci separa”.

 

Sarebbe tornato più volte in Italia, dedicando al Sud un’attenzione speciale.

 

Austero, sobrio, capelli sciolti lunghi fino alle spalle, cappellone calato sulla fronte, Birgil era parco nel parlare, a meno che non trovasse una platea disposta ad ascoltare le narrazioni mitopoietiche del suo sfortunato popolo, quei Lakota delle grandi praterie nordamericane che noi conosciamo come i famosi e bellicosi Sioux, “Serpenti” secondo il nome improprio datogli dai primi pionieri e missionari bianchi che, a loro volta, avevano appreso, storpiandolo, dagli indiani Chippewa. Avevo conosciuto Birgil nel rigido inverno del 1990, durante una cavalcata che si richiamava ad un episodio storico e doloroso della sua gente e che ha assunto, nel ricordo di chi vi ha partecipato, il sapore della leggenda. Ne parlerò più avanti.

 

Era nato a Kyle, Birgil, nella riserva di Pine Ridge, nel South Dakota, la terra, 

per intenderci, di Nuvola Rossa e di Cavallo Pazzo. Una volta il cuore 

del vastissimo territorio dei Lakota Sioux,

 

oggi ridotto ad un’isola di un arcipelago di terre selvagge, ancora vaste, agli occhi di un europeo, ma malignamente ritagliate, dal governo federale, negli ambienti meno ospitali e climaticamente difficili del West, in altre parole: una ghiacciaia d’inverno e un forno rovente d’estate. Non a caso, la più estesa porzione delle sette riserve Sioux, ha un nome illuminante, Bad Lands, Terre Cattive, Maledette, nomen omen. “Il sud del mondo”, mi disse una volta, “è quasi sempre uguale, qui come in Italia, meno ricco materialmente, meno fortunato, ma non disposto ad accettare, in cambio della rinuncia alle proprie usanze e memorie storiche, la mela avvelenata dell’opulenza materiale”. Birgil, però, guardava avanti, pur invitando il suo popolo a non dimenticare la propria lingua e a non tradire lo spirito e la cultura degli antenati.

Non malediceva Cristoforo Colombo, non lanciava anatemi sugli invasori whasp 

e mostrava di non condividere fino in fondo neppure gli eccessi delle proteste 

che, sulla scia dei black panters, avevano caratterizzato, negli anni Settanta, 

la politica delle frange più radicali dell’American Indian Movement.

 

Considerava ogni contaminazione ideologica moderna un tradimento della tradizionale visione del mondo degli indiani delle praterie. Una visione solo apparentemente anarco-individualista, in realtà una concezione del mondo ordinata e dotata di una straordinaria forza centripeta, “pan monoteista”, imperniata sulle regole della natura, della madre terra e dell’universo, con una gerarchia di valori che poneva al primo posto la vita spirituale, seguita dal coraggio, quindi dalla tutela dei più deboli e dalla difesa delle tradizioni. Un sistema di valori che era, ed è, ben rappresentato dalla loro cerimonia più importante, la Danza del Sole, che i tradizionalisti hanno ripreso a celebrare, intorno al solstizio d’estate, dopo la fine del divieto imposto, fino ad anni recenti, dal governo federale. Chi non è più giovane ricorderà sicuramente un film crudo, ma realistico, Un uomo chiamato cavallo, in cui la cerimonia religiosa, che si svolge intorno ad un palo e prevede il digiuno totale, veniva descritta nei minimi dettagli. Basta rileggersi autori quali Mircea Eliade, René Guenon o Frithjof Schuon, per comprendere che si è di fronte allo stesso principio, lo stesso simbolo rappresentato, nelle tradizioni religiose dell’emisfero settentrionale, e non solo, dall’Axis Mundi, l’albero cosmico, l’asse, cioè, che collega la Terra al Cielo. Il significato ultimo della vita raggiunto attraverso il coraggio e il sacrificio. Si tratta, insomma, di una visione del mondo completamente opposta allo stile di vita contemporaneo, ispirato ad una libertina ed egotistica tavola di valori. La visione tradizionale del mondo Lakota è però altrettanto lontana dal furore iconoclasta e radicale che soffia nei ghetti metropolitani americani, nelle periferie degradate dove abita chi, a torto o a ragione, si sente escluso dall’american dream

Gli indiani tradizionalisti, di cui Birgil Kills Straight resta una figura di riferimento, 

non chiedono di partecipare al sogno americano, non rivendicano sindacalmente paghe più alte, non vogliono vivere nelle periferie urbane. Cercano, tra immense difficoltà e diverse contraddizioni, di restare, semplicemente, indiani,

 

vivendo nei territori ancestrali, vicini alla natura e alle ossa e agli spiriti dei loro antenati. Perfino nelle recenti proteste contro il progetto per la costruzione di un oleodotto che taglierebbe in due il residuo territorio Sioux i tradizionalisti hanno mantenuto un atteggiamento saggio: fermo, ma pacifico. L’obiettivo centrale non è contestare le politiche energetiche di Trump, ma difendere la natura e i luoghi sacri, a costo di restare poveri. Impossibile? Probabilmente sì, ma Birgil credeva in questa terza via. Per questo non amava  seguire  la strada delle violente contestazioni anti americane, per questo, come molti altri nativi, aveva servito la bandiera a stelle e a strisce indossando, da giovane, la divisa militare senza vergogna o complessi di colpa;

 

per questo era stato ospite di diverse trasmissioni radiofoniche e televisive, 

negli Stati Uniti, in Europa, in Italia, per parlare della cultura tradizionale 

del suo popolo, per questo aveva pubblicato libri e aveva incontrato, 

a Roma, perfino Papa Wojtyla,

 

per favorire il dialogo della sua gente con la Chiesa di Roma e chiedere il definitivo riconoscimento del diritto dei popoli nativi di seguire, ciascuno, il proprio destino e le proprie tradizioni. 

 

A chi è affascinato dalla cultura degli indiani delle praterie, però, Birgil Kills Straight era noto soprattutto perché fu uno dei primi e più seguiti animatori della storica Cavalcata in Memoria di Piede Grosso, un evento che, nell’inverno del 1990, vide confluire centinaia di pellirosse nei territori che vanno dal Nord Dakota fino al confine con il Nebraska. Qui, dopo un lungo viaggio a cavallo e con temperature polari, che toccarono l’ultimo giorno i 40 gradi sotto zero, si svolse la cerimonia in ricordo delle vittime della strage di Wounded Knee, avvenuta esattamente cento anni prima: trecento indiani Lakota inermi, tra i quali donne e bambini, massacrati dal settimo cavalleria.

 

Una troupe del Tg2, insieme con una della CNN e un’altra della BBC, seguì 

quella cerimonia. Io c’ero. Intervistando Birgil per il TG2 gli chiesi se avesse sentimenti di rivalsa nei confronti dei bianchi. “No”, mi rispose. 

“Non cerchiamo vendette. Noi tradizionalisti non crediamo 

che i bianchi siano peggiori o migliori di noi.

 

È la nostra visione del mondo che era e resta diversa, perciò chiediamo che questa diversità venga riconosciuta e rispettata. Non c’interessa avere maggiori opportunità di affermazione economica e sociale nella melting pot americana, noi vogliamo soltanto restare fedeli ai nostri antenati e ricomporre quello che noi chiamiamo il Cerchio Sacro, il Changleska Wakan, questo è stato l’obiettivo centrale della nostra cavalcata commemorativa. Il Cerchio Sacro rappresenta l’equilibrio, l’armonia dell’uomo nel mondo. Si è interrotto durante il massacro del nostro popolo. Dobbiamo ricostruirlo insieme, perché, se ci pensate bene, quel cerchio è anche vostro”. L’importanza di ricomporre il Cerchio Sacro fu anche il fulcro di un emozionante discorso che Birgil tenne di fronte ad una platea, ammirata e stupita, nel remoto centro molisano di Ielsi. A Ielsi era stato invitato dal promotore del Premio internazionale collegato alla stagionale Festa del Grano, il regista e documentarista Pierluigi Giorgio, uno degli storici autori di Myrrha.

 

Qui gli fu assegnato un riconoscimento speciale diretto a suggellare, 

con la cerimonia della piantumazione di un albero simbolico, 

il legame tra due meridioni solo geograficamente lontani, 

il Molise e il Sud Dakota,

 

tra il popolo italiano e il popolo Lakota. Fu emozionante vedere questo “pellerossa” circondato da giovani e meno giovani che, dopo una iniziale timidezza, lo inondarono di domande sulla vita che si svolge oggi nelle riserve indiane e Birgil interessarsi alle nuove opportunità di lavoro agricolo per i giovani molisani. Accadeva nell’estate del 2008. Birgil si dichiarò commosso e onorato del gemellaggio e affermò che il Sud del Bel Paese è ancora talmente ricco di tradizioni, suggestioni, analogie con la storia e la cultura del suo popolo, che varrebbe la pena di difenderne meglio i valori fondamentali e assicurarne la continuità con le giovani generazioni.

 

“Qui, in Molise, mi sento a casa”, disse ricevendo il premio, e aggiunse 

“mi riconosco nelle motivazioni con cui mi è stato assegnato 

il riconoscimento: difendere la dignità e l’identità culturale 

delle piccole comunità e delle etnie diverse”.

 

Birgil Kills Straight non è più tra noi, ha raggiunto i suoi antenati durante “la luna in cui i rami degli alberi si spezzano per la neve”, ovvero lo scorso febbraio. Le sue speranze e i suoi insegnamenti, però, restano, sono ancora vivi e, soprattutto, pieni di vigore.

 

 

 

 

 

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MARE NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE di Giusto Puri Purini – Numero 14 – Maggio 2019

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MARE  NOSTRUM. RIFLESSI DI ARCHITETTURE

 

All’inizio degli anni Settanta, girando gli States in Greyhound, mi capitò in una libreria dell’Università di Berkeley, in California, il libro intitolato The Whole Earth Catalogue.

Leggendolo, mi resi conto di aver compiuto, attraverso l’architettura “spontanea”, capanne, palafitte, geodesiche, trulli, nuraghi, yurte ed un’infinità di habitat simboli della diversità del vivere, un viaggio nel tempo, in una società così complessa ed avanzata come quella americana, e che non avrei più dimenticato quelle sensazioni. 

 

Ricordavo trucchi, specchi, false prospettive, architetture di un giorno, impermanenza continua lungo il filo di un racconto.

Queste costruzioni effimere, montate la mattina e smontate la sera, 

che Leonardo da Vinci, nel passato, aveva chiamato 

“Architettura da Festa”,


svilupparono in me quel desiderio di trasparenza tra la prima, “il costruito”, e la seconda pelle, “il traforato”, come l’essere ed il non essere di una rappresentazione architettonica, cercandone la matrice, immerso in qualche viaggio. 

 

Fu così che negli anni Settanta, con Maurizio Mariani, entrambi divenuti Architetti, iniziammo un lavoro di ricerca, progettando giardini per i Vivai del Sud,

nel bel mezzo del “Cratere Mediterraneo”, ed entrammo nelle case, 

portandovi dentro l’esterno.


Passando dalla luce, dalle ombre dei patii agli interni, sentivamo di procedere all’incontrario, ma ci sembrò più “giusto” e fu l’inizio di tante scoperte. Con i Vivai del Sud, divenuta una multinazionale del verde, si operava con un occhio alla tradizione locale:

le sedie pieghevoli dei cammellieri del deserto, le ombre delle serre siciliane, 

lo stile “Mckintosh”, i cestari romani. Si corteggiava e si ribagnava 

nel Mediterraneo la tradizione americana dell'”House and Garden”, 

i mobili Mc Guire, i “Winter Gardens”…


E mentre la “canna d’India” in Italia diventava design, scoprivamo che la “matrice” era unica: la cultura europea emigrata in Colonia aveva scoperto le palme e…reinventato l’eccelso, rischiando nei territori lontani sperimentazioni ardite e seducenti… Pensavo al French Quarter ed a St. Charles Avenue a New Orleans, regina negli U.S.A. della musica, luogo d’ incontro di tante culture, città entertainment per eccellenza. 

 

La “città della festa” mi fu evidente, quel mardi gras 1972. Mi trovavo a New Orleans per caso e di passaggio. Mi immersi in una realtà vorticosa, trascendentale. Tutto fluiva, tutto pareva vi fosse permesso, la musica ed il contorno architettonico risuonavano nelle strade. Mi trovai come per caso in una libreria, vi cercai testimonianze di ciò che andavo vedendo. Un città traforata, piena di merletti, un’impermanenza sfacciata, edifici, natura, verande, patii, tutti gli elementi della seduzione, esposti ai sensi, mutevoli come le ombre, con lo scorrere delle ore. 

Pensai nuovamente ad “Architettura di un giorno”! 

 

Poi tra le mani mi trovai un libro, disegni e fotografie di una strada famosa di New Orleans, Esplanade, che avrebbe dovuto essere inaugurata da Napoleone Bonaparte, in un viaggio da lui sognato e mai realizzato, all’inizio del 1800. Sotto l’80% delle immagini che andavo scorrendo vi era scritto:

“This is an example of an Italianate Architecture”.


L’italianata, l’“Italianate”, mi rimbalzava nella mente e, nella convinzione di avere in mano una chiave di lettura che mi riguardasse da vicino, pensavo alla nostra cultura formativa: Blue Jeans, Chewing gum, Frank Lloyd Wright, J Dean, Il giovane Holden, Easy Ryder e tutte le “Americanate” che noi europei ci siamo portati appresso nei roaring Fifties and Sixties, e – perché no? – pensavo ai Western spaghetti, i famosi western italiani girati tra i cartoni di Cinecittà e le praterie di Ostia Antica. Clint Eastwood, Sergio Leone: Giù la testa!

Vi era, laggiù, a New Orleans, il sapore di un altro Mediterraneo 

come origine degli eventi…


Palladio, il grande architetto veneto, ed i suoi pronipoti, emigrati in Colonia, mi apparvero come gli unici artefici di questa “italianata” eversiva, dal neoclassicismo appena sfiorato, quasi irriverente. Sul restante 20% delle illustrazioni, la didascalia riportava

“This is an example of a Greek Architecture”!


Ebbi la sensazione che, attraverso queste trasparenze, queste ombre, attraverso un filo di Arianna luminoso, sarei stato trasportato nella storia, come in un ascensore, verso il passato e viceversa, in luoghi dove tutto si ritrova e si riscopre.

Storia che ci racconta le mutazioni nel “Nostro Mare”, dall’austerità al vezzo


(penso alle colombaie delle torri di Mikonos, merletti a definire i contorni delle architetture, o a quello che noi italiani abbiamo fatto nelle isole del Dodecaneso, vestendo le architetture che nascevano ispirate alla Bauhaus, e alla neo-razionalista Sabaudia, con i veli delle Mille e una notte). 

Architettura italiana (da festa!) in Colonia! 

Rodi, Simi, Patmos, Koos… 

E perché no, i vetri colorati delle finestre di Tangeri, il tufo giallo di Noto in Sicilia, dove una città è scolpita come una statua, i pergolati a vigna di Sorrento, le cupole dei damusi a Pantelleria, le bianche colonne delle case, nelle Isole Eolie.

Tutto ciò ci ha fatto pensare ad una raccolta di queste sensazioni, 

di queste “architetture da festa”… sparse un po’ ovunque.


Un Whole Earth Catalogue, quindi, trent’anni dopo, più patinato, sotto forma di un “viaggio”, nell’habitat, integrato dai vezzi, quali moda, costume, design, stili… 

 

Nasce così l’idea di “Oltre il 7”, il percorso ideale della nostra avventura tra architetture e culture, ed il suo peregrinare attento, curioso, ironico e ricettivo, tra mode, usi, costumi, etnie, abitudini che si esportano, si reinventano e si ritrovano, da un lato all’altro dell’emisfero.

Ci rendemmo conto, in sintesi, che il primitivo approccio alla “cultura europea 

che emigrava in Colonia” altro non era, se non il seme 

di un lungo viaggio del conoscere.


Viaggio condotto a ritroso, verso le probabili origini delle “cose”, dove anche le “case” degli uomini apparissero come frutto di spontaneità e di progettazione.

 

 

 

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SALE, SALINE, MULINI A VENTO A TRAPANI di Gaia Bay Rossi – Numero 14 – Maggio 2019

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SALE, SALINE, MULINI A VENTO A TRAPANI

 

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scriveva Plinio il Vecchio nella sua Naturalis Historia (XXXI, 102) osservando la pelle sana e resistente dei marinai.

Il sale è sempre stato considerato un bene preziosissimo, basti pensare che in epoca romana veniva dato, insieme a olio e grano, come parte dello stipendio (il salario) ai soldati romani e a coloro che viaggiavano per affari pubblici, e giungeva a Roma dal mare Adriatico attraverso la Via Salaria che porta il suo nome; era inoltre utilizzato nelle offerte votive agli dei e offerto agli ospiti in segno di amicizia.

Cicerone stesso nel suo trattato De Amicitia (XIX, 67) scriveva: “Bisogna mangiare insieme molti moggi di sale perché il dono dell’amicizia sia completo”. 


Sempre sotto il segno del sale sono sorte importanti città come Salisburgo, si sono scatenate guerre, come la cosiddetta “Guerra del sale” (diversi eventi bellici che hanno riguardato vari Stati nella penisola italiana lungo i secoli) e la famosa “Marcia del sale” con cui Gandhi condusse nel 1930 il popolo indiano verso l’indipendenza dalla Gran Bretagna, ribellandosi in maniera non violenta contro l’imposta vessatoria sul sale voluta dal governo britannico e gravante su tutti i sudditi dell’India. 

 

Molti secoli prima, Dante fece riferimento al sale nel canto XVII del Paradiso: “Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui”, laddove il trisavolo Cacciaguida gli profetizzava l’esilio con tutte le sue pesanti conseguenze.

Senza dimenticare che il sale è stato per secoli uno dei pochi metodi 

di conservazione degli alimenti


(fino al 1700 la salagione è stato il metodo principale per conservare carne e pesce) e che, grazie alla sua composizione, veniva utilizzato anche come integratore di magnesio e potassio. 

 

Quindi, data la sua grande importanza bisognava averne cura e non andava sprecato. Da qui è nata la superstizione che rovesciare il sale a tavola sia di cattivo auspicio. Il sale, secondo la stessa superstizione, non va passato ma va appoggiato sul tavolo, dove ognuno poi lo prende con la propria mano per evitare che nel passaggio possa rovesciarsi. Questa superstizione deve essere piuttosto antica se persino

Leonardo da Vinci ne “L’ultima cena” dipinge del sale rovesciato sulla tovaglia 

davanti alla figura di Giuda, quando il giorno dopo Gesù 

proprio da costui viene tradito.


Oltre a rappresentare cattiva sorte, si ritiene che Leonardo faccia anche riferimento al Discorso della Montagna (Mt 5,13), dove Gesù definisce i propri discepoli “sale della terra”, per l’importanza della loro missione come suoi messaggeri, cosa che non era evidentemente Giuda. 

 

Il sale non è solo proverbio e superstizione ma è soprattutto storia, se è vero che Omero lo chiamava la sostanza divina, mentre i romani lo definivano oro bianco, e se è vero che l’origine delle saline di Trapani risale addirittura ai Fenici, oltre tremila anni fa; ed è anche geografia, se è vero che la sua storia ha superato fiumi e deserti, facendo da collante ad interi continenti.

Le saline della “Riserva naturale orientata di Trapani e Paceco” 

sono tra le più antiche, importanti e ammirate della Sicilia


così come, secondo la rubrica “In viaggio nel mondo” dell’Ansa, i mulini a vento a sei pale che circondano queste saline sono considerati tra i dieci più belli d’Europa. 

 

La storia della Sicilia ha cadenzato le varie vicissitudini del sale e delle saline: dal “monopolio di Stato” della produzione del sale che si aveva sotto il regno di Federico II di Svevia e anche sotto la successiva occupazione angioina, si è arrivati alla “proprietà privata” con la Corona d’Aragona. Il massimo splendore della produzione salina si è avuto sotto la reggenza spagnola, tanto che il porto di Trapani era divenuto il centro più importante in Europa per il commercio dell’oro bianco. 

 

L’Unità d’Italia non diminuì il lavoro nelle saline e i veri problemi iniziarono nel Novecento, per più ordini di motivi: le due guerre mondiali, la concorrenza delle saline industrializzate di Cagliari e quella del salgemma, nonché a causa dei costi elevati del trasporto del sale e dell’alluvione del 1965 a Trapani, che riempì di detriti le vasche rovinando impianti e macchinari. Tutto questo portò alla dismissione e all’abbandono di molte saline.

 

Nel 1995 è stata ufficialmente istituita la Riserva, affidata dalla Regione siciliana 

alla gestione del WWF Italia, e si è dato un nuovo impulso alla produzione 

e alla commercializzazione del sale, recuperando 

i vecchi impianti dismessi.


Oggi “Sale marino di Trapani” è la denominazione di un prodotto IGP, riconosciuto nel 2011, ed è inserito nell’elenco dei “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani” riconosciuti dal Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali. Oltretutto è anche un Presidio Slow Food, grazie alle sue proprietà dovute al differente metodo di coltivazione e di lavorazione rispetto al sale industriale, che fanno sì che questo sale sia un prodotto integrale, quindi più umido e grigiastro, senza aggiunta di altri elementi nella fase di lavorazione, e sia più ricco di potassio, magnesio e meno di cloruro di sodio. Sempre nel 2011 la “zona umida” delle saline di Trapani e Paceco ha ottenuto il riconoscimento di “sito di importanza internazionale” dal Ministero dell’Ambiente ai sensi della Convenzione di Ramsar.

Ma l’espressione più bella e romantica delle saline è riservata agli occhi 

e all’osservazione: immense vasche artificiali che riflettono 

il colore del cielo e del sole,


e ci permettono di ammirare decine di fenicotteri rosa, aironi, spatole, avocette, garzette, falchi, martin pescatori, cavalieri d’Italia e tanti altri uccelli in tutto il loro splendore (208 le specie finora censite). Fra questi, gli uccelli che migrano verso l’Africa sono visibili in autunno e in primavera quando, stanchi e spossati, trovano nelle saline un ambiente sicuro e ricco di nutrimento dove poter ricostituire il grasso consumato durante la migrazione. Ma la vita nelle saline non finisce qui: a costoro fanno compagnia anche numerosi insetti, alcuni dei quali piuttosto rari, e un piccolo e rarissimo crostaceo chiamato Artemia salina, oggi al centro di numerose ricerche scientifiche. 

 

Per ultimo, ma non ultimo, c’è un elemento particolare e pittoresco che cattura lo sguardo e gli obiettivi delle macchine fotografiche: i mulini a vento delle saline trapanesi.

Fino agli anni Sessanta erano decine e decine i mulini a vento utilizzati 

dai salinai per sfruttare la forza del vento.


I mulini avevano due funzioni: da un lato facevano salire l’acqua tramite la spirale d’Archimede dalla cosiddetta vasca “fridda” a quelle di acqua “cruda” per catturare il sale, dall’altro muovevano le ruote di pietra che macinavano il sale riducendolo in polvere. Il mulino classico era di tipo olandese, aveva sei pale di circa quattro metri che mettevano in funzione la pompa a vite di Archimede. Poi negli anni Cinquanta venne introdotto il mulino “all’americana” con ventiquattro piccole pale metalliche di un metro e venti, più facile da gestire perché si autoregolava con il vento. 

 

Oggi rimangono pochissimi mulini a vento integri nella provincia di Trapani: i due mulini della Salina S. Cusumano (ora Baia dei Mulini sul litorale Nord), il mulino Maria Stella sulla Via del Sale di Trapani, i due mulini della Salina Calcara, il mulino del Museo del Sale di Nubia, il mulino Uccello Pio a Salinagrande. A questi si aggiungono i tre mulini della salina Ettore a Marsala e il Mulino della Salina Infersa sempre a Marsala.

 

 

 

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MUSEO NAZIONALE FERROVIARIO DI PIETRARSA di Stefano Benazzo – Numero 14 – Maggio 2019

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MUSEO NAZIONALE FERROVIARIO DI PIETRARSA 

 

luogo fondante della storia ferroviaria italiana, le officine di Pietrarsa – costruite nel 1853 – custodiscono più di 50 locomotive, numerosi vagoni e innumerevoli reperti.

Il Museo ferroviario nazionale di Pietrarsa – affidato dal 2013 a Fondazione FS Italiane – sorge nel punto di arrivo della prima strada ferrata costruita in Italia nell’ottobre 1839, lunga 7.411 metri, fra Napoli e Portici. Le antiche officine borboniche, risalenti al 1840, sono una vera gloria del Regno delle Due Sicilie, ma costituiscono anche un esempio di edilizia industriale.

 

Le 25 locomotive a vapore – la più antica delle quali risalente al 1882 – sono una completa rappresentazione delle motrici in servizio per decenni in tutta Italia. Con esse, e con la serie di locomotive diesel e elettriche, le automotrici leggere, e numerose carrozze,

rivive l’era in cui la ferrovia era IL mezzo di trasporto terrestre. 

La fantasia ci fa tornare senza esitazioni ai rumori, agli odori 

e ai ritmi del vapore, delle sue stazioni, delle officine.


Il Museo è destinato a tutti: profani ed esperti, giovani e anziani, ma uno dei godimenti maggiori per il visitatore adulto consiste nel vedere i giovanissimi – ben condotti da guide appositamente addestrate – scoprire un mondo sconosciuto e mai visto se non nei film; salire su una locomotiva o un vagone Centoporte o ammirare il gigantesco plastico funzionante permette loro di rendersi conto della vita di generazioni dei loro antenati, a tutte le latitudini. Increduli, ammirano la riproduzione della locomotiva Bayard, gemella di quella che nel 1839 trainò il convoglio inaugurale della Napoli-Portici: le sue parti dipinte in colori diversi consentono ai giovani di capire senza difficoltà la complessa meccanica del vapore.

 

Gli appassionati di storia ferroviaria provano l’emozione di sostare ai piedi di macchine gigantesche, perfettamente lucidate e oliate, nonché il piacere di leggere didascalie plurilingue che descrivono le caratteristiche tecniche, la storia e le curiosità relative ad ogni singolo pezzo esposto.

Difficile non immedesimarsi negli accudienti, nei fuochisti, negli operai 

che riparavano le macchine. Molti visitatori rimangono stupefatti 

scoprendo quanto l’industria ferroviaria italiana ha saputo creare, 

e quando ciò è iniziato.


La particolarità che rende Pietrarsa unica nel mondo consiste nel fatto che il Museo sorge lì dove le macchine venivano costruite e sottoposte alla manutenzione. Questi elementi rappresentano altrettante tessere di un luogo d’eccellenza, dove le FS hanno saputo coniugare in maniera superba la storia industriale e i ricordi, restaurare gli edifici e i mezzi esposti, curare la presentazione al pubblico con sopraffina arte museale, e perfino facilitarne l’accesso. La stazione ferroviaria di Pietrarsa (sulla linea Napoli-Salerno) è infatti situata dentro il Museo e ne rende facilissimo l’accesso, evitando l’accesso via strada e la ricerca del parcheggio: un piacere ormai rarissimo, per non dire inesistente in Italia e all’estero. 

 

Al centro del Reale Opificio meccanico, pirotecnico e per le locomotive, all’estremità del Giardino Mediterraneo, si staglia la statua in ghisa – a suo tempo fusa nell’Opificio medesimo – di Ferdinando II di Borbone, l’ideatore della struttura, deciso ad affrancare il suo regno dalla supremazia tecnologica di Francia e Inghilterra nel campo meccanico, navale e ferroviario.

Al momento del suo completamento nel 1853, la struttura di Pietrarsa 

era il primo complesso industriale italiano, precedente di 44 anni 

la fondazione della Breda e di 57 quella della Fiat.


Vi lavoravano quasi 700 addetti. Centinaia di locomotive costruite a Pietrarsa viaggiarono per decenni su tutte le linee italiane, così come innumerevoli carri e vetture ferroviarie. Numerose “grandi riparazioni” di materiale rotabile vennero compiute a Pietrarsa. Le officine furono attive fino al 1975, mentre il Museo fu inaugurato nel 1989, nel 150° anniversario della Napoli-Portici. L’Opificio è stato anche un esempio: lo Zar Nicola I decise infatti nel 1845 di riprodurlo identico nel nuovo complesso industriale di Kronstadt. 

 

Lo spazio manca per descrivere compiutamente il contenuto dei sei padiglioni – ben divisi e superbamente illustrati – che compongono il complesso. Gli esperti di architettura possono ammirare la loro struttura in muratura o in carpenteria metallica.

In particolare, il padiglione dei macchinari d’officina restituisce perfettamente 

la maestria degli uomini che vi operavano, e la difficoltà, il pericolo di lavorare 

accanto a torni, presse, alesatrici, calandre e magli giganteschi


Quanto alle motrici a vapore, diesel o elettriche, chi scrive commetterebbe un’ingiustizia se volesse dedicarsi ad una piuttosto che all’altra. E che dire delle mitiche Littorine e della carrozza Salone del Treno reale? In realtà, almeno per chi scrive (Fotografo di Relitti navali spiaggiati), il piacere profondo della visita a Pietrarsa non è solo nell’ammirazione delle strutture e dei manufatti, ma nella consapevolezza che questi ultimi – come le navi ora diventate Relitti – erano parte integrante della vita degli uomini. Gli architetti, gli ingegneri, le maestranze, gli operai, gli addetti alla conduzione delle macchine: centinaia di migliaia di uomini che hanno dedicato la loro vita (spesso senza avere facoltà di scelta) ad un lavoro pesante, stancante, pericoloso, e comunque poco apprezzato. Come in molti paesi, il mestiere di Operaio o di Ferroviere non costituiva la massima aspirazione per un giovane. Ecco perché – come per i Relitti – è essenziale il concetto del Dovere di Memoria nei confronti di quegli uomini.

Tutto ciò è offerto al visitatore nello scenario incantato – il termine 

non è di maniera: si tratta realmente di un incanto – del Golfo di Napoli, 

con Capri, Ischia e Procida all’orizzonte, la penisola sorrentina a sinistra, 

il Vesuvio che incombe.


Chi volesse sostare e godersi il paesaggio può usufruire di un’antica pensilina ferroviaria (proveniente da Fiorenzuola d’Arda), in sintonia con il luogo e che non può non suscitare memorie di antichi viaggi in treno. Esiste la possibilità di effettuare visite private nei giorni di chiusura del Museo, ed affittare spazi per eventi privati. 

 

Visitate il Museo di Pietrarsa: l’emozione è garantita, anche per chi non avesse la passione che spinge verso locomotive a vapore e Relitti spiaggiati. 

 

L’Autore ringrazia Ferrovie dello Stato Italiane SpA, Fondazione FS Italiane, Edizioni La Freccia, Museo Nazionale ferroviario di Pietrarsa per le informazioni fornite e per l’autorizzazione alle riprese.

 

 

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Credit photo © Stefano Benazzo

 

ADRIANO OLIVETTI A MATERA di Tommaso Russo – Numero 14 – Maggio 2019

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ADRIANO OLIVETTI a MATERA

 

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Preceduta da un glamour costruito intorno a lei e diffuso dalle riviste “Life”, “Fortune”, “Time” di proprietà del marito, l’editore Henry Robinson Luce, Claire Booth (1903-1987) giunse in Italia alla vigilia delle elezioni del 1953 che segnarono la fine del centrismo DC con la sconfitta della legge truffa.

8 - Adriano Olivetti 1925

Aveva 50 anni quando arrivò come ambasciatrice USA per restare fino al 1956. Nel triennio romano si circondò di personaggi come Vittorio Cini, Dino Grandi, Leo Longanesi, Indro Montanelli, Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno che, pronti a tutto, facevano da sponda al suo viscerale anticomunismo e integralismo cattolico. Narrano, in proposito, le cronache diplomatiche che al termine di una udienza in Vaticano durante la quale aveva tenuto un discorso di fuoco sull’obbligo di essere cattolici, cristiani e credenti, Pio XII la congedasse dicendo “Signora cara, si ricordi che anche io sono cattolico e non ho bisogno di essere convertito”. 

 

Altri desideri quali mettere fuorilegge il PCI, organizzare con Montanelli strutture paramilitari, bloccare le commesse a quelle aziende in cui era forte la CGIL, rivelano il suo piano per condizionare la vita politica italiana. Anche Adriano Olivetti, ritenuto a torto un comunista, ne pagò le conseguenze. Su pressioni della signora, Angelo Costa, allora capo di Confindustria, inviò una lettera a tutti gli associati in cui consigliava di non acquistare macchine da scrivere Olivetti. Un nome fra quanti ubbidirono: Montecatini.

Da quel delicato microcosmo degli affetti che è Lessico famigliare di Natalia Ginsburg, affiora un giovanile ritratto di Olivetti. Aveva “una barba incolta e ricciuta, di colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo-fulvi”. Giuseppe Levi, docente universitario, padre di Natalia e Camillo, padre di Adriano, a loro volta, 

“Avevano in comune il socialismo, e l’amicizia con Turati”, 

di qui la simpatia di entrambi per quel particolare 

riformismo meneghino pragmatico e razionale.


Camillo, di origini ebraiche, e la moglie Luisa Revel, figlia di un itinerante pastore valdese, erano orgogliosi di appartenere a due minoranze religiose. Di questa condizione ne fecero una ragione esistenziale, un costume civile, educando i loro figli al senso di responsabilità, al rispetto quasi religioso per i diritti e i doveri di sé e degli altri, al gusto per il rischio. In Adriano la saldatura tra etica protestante e spirito del capitalismo fu un tratto distintivo ma non unico. 

 

Poco più che quarantenne, con alle spalle il suo antifascismo, è membro dell’UNRRA (United Nation Relief Rehabilitation Administration); magna pars nel CASAS (Centro Autonomo di Soccorso ai Senza Tetto); membro autorevole della Commissione economica per la Costituente. A coronamento del suo impegno per il Movimento di Comunità diventa deputato nella III legislatura repubblicana. Nei due anni di attività parlamentare, prima che la morte lo cogliesse, nel febbraio 1960, a soli 59 anni, firmò con altri colleghi un progetto di legge abrogativo delle norme che consentivano il tiro al piccione ma anche al passero, allo storno, alla tortora. Era il 31 luglio1958. 

 

Nella relazione al progetto si sottolineava come quella pratica non fosse “popolare e sportiva” ma un’attività ristretta a pochi che “traggono divertimento in un ambiente di lusso e di mondanità (…). Lo sterminio di questi animali per lo spasso di pochi facoltosi è veramente ingente”. Solo molto dopo le Olimpiadi romane del 1960 il piattello sostituì i volatili nei club e nei circoli esclusivi. 

 

Un anno dopo presentò da solo la sua seconda proposta di legge. Si trattava di abolire l’art. 12 della LUN (Legge urbanistica Nazionale) del 1942. Quell’articolo consentiva ai Comuni consorziati di approvare un PRG intercomunale. Bastava però il veto di un solo sindaco per bloccare tutto.

Olivetti ebbe sempre a cuore le questioni legate allo sviluppo urbano, all’edilizia e non solo perché Presidente dell’INU. Era convinto che sul regime dei suoli e sulla loro destinazione che si risolveva il conflitto tra interessi della rendita speculativa, bisogni collettivi, razionalità e ordine dello sviluppo edilizio di una città.

 

Il 5 aprile 1960 Franco Ferrarotti “deputato del Movimento di Comunità”, padre nobile della sociologia italiana, nella sua appassionata commemorazione di Olivetti alla Camera ne evidenzia alcuni tratti. Dice come l’industriale eporediese si collocasse molto al di sopra della “miserabile prospettiva del paternalismo padronale corrente”; come fosse convinto della necessità di introdurre novità, ricerca e sperimentazione nel ciclo produttivo. E proseguendo ricorda lo sguardo particolare di Olivetti per il Mezzogiorno che gli appariva “il banco di prova della democrazia italiana” e per il quale “aveva elaborato un piano organico di sviluppo industriale”. Ne costituivano l’essenza più intima: il rispetto per il territorio comunitario, la partecipazione diretta dei cittadini alle decisioni più importanti che li riguardavano, la programmazione. Pozzuoli e Matera che alludevano rispettivamente all’industria e all’agricoltura ne erano la filigrana. 

 

Nel suo “Viaggio in Italia”, effettuato per conto della RAI tra il 1953 e il 1956, Guido Piovene giunge anche a Matera. Ne tratteggia lo sviluppo urbano tra il moderno e i Sassi e scrive che lì, insieme con altri abitanti, vivono “oltre 1200 protestanti (…) che appartengono alle sette più popolari e visionarie quali i battisti e soprattutto i pentecostali”. Lo scrittore vicentino si sofferma sul clima culturale in città nel quale scorge un certo “radicalismo politico negli ambienti cattolici”, anche se in misura maggiore “La funzione critica è esercitata soprattutto da un gruppetto di giovani legati al Movimento di Comunità (…). Le loro idee compaiono in un settimanale, “Basilicata” ”.

Si può scorgere in questo accenno l’esistenza di un rapporto tra Olivetti e Matera che nel corso degli anni ’50 diventerà sempre più stretto e fecondo.

 

Se oggi quel nesso è riemerso, nel dibattito storiografico, non è certo per l’evento Matera 2019 frutto, come sostengono giustamente taluni, di una potente negoziazione tra potere politico e risorse naturali del territorio regionale. Ripensare quel legame e la stagione a cui dette vita torna utile per uno sguardo sulle miserie del presente appena velato dalla spettacolarizzazione mediatica dei Sassi; e per misurare l’incidenza che quel torno di anni ebbe nell’introdurre elementi di cambiamento e di modernità nel tessuto cittadino. 

 

Leonardo Sacco, uno dei giovani critici intravisti da Piovene, in un commosso ricordo in morte di Olivetti, apparso su “Basilicata” 3/1960, racconta che nel marzo 1946 acquistò in un’edicola a Matera un “giornale di tipo insolito”. Era “Comunità”. Dalla lettura di quella rivista ne ricavò la convinzione che per uscire “dal caos” di allora occorresse “veder chiaro e veder nuovo”. Vale a dire guardare alle novità e non alle permanenze, alle fratture e non alle continuità del ‘900 italiano.

La presenza degli olivettiani è segnalata da una lunga relazione
del prefetto 
di Matera del 25 maggio 1957 al Ministero degli Interni 

dove da poco si era insediato Fernando Tambroni.

 

Scrive che i Circoli di Comunità erano nati prima del 1954 quando invece era comparso il Movimento di Comunità. Presenti “con finalità esclusivamente culturali”, in breve tempo erano riusciti ad animare un dibattito su quali mezzi fossero necessari “per la risoluzione dei problemi sociali, riguardanti in particolare il basso tenore di vita delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia rispetto a quelle del Nord”. Molto attivi nel Circolo materano erano alcuni giovani. Pietro Ricciardi insegnante “distaccato presso il Provveditorato agli studi” è descritto “elemento piuttosto fazioso” nella preoccupata nota prefettizia. Ricciardi girava nei Comuni del materano col suo Bibliobus per avvicinare adulti, vecchi, bambini alla lettura convinto che la cultura fosse un forte strumento di emancipazione. Attivi erano anche Francesco P. Nitti e Nicola Strammiello, entrambi docenti. E Sacco, naturalmente, che in una riunione a Milano del Movimento era stato eletto “membro della direzione politica centrale del detto Partito”. 

 

Da altra fonte archivistica si apprende che nel 1958 in Basilicata esistevano 56 Circoli (23 nel materano, 33 nel potentino); in quell’anno essi costavano a Olivetti 1.107.000 lire. Saranno ridotti a 14: 2 nel potentino, 2 nel materano, quasi a segnare una migliore efficienza culturale e operativa di questi ultimi. Le cause del ridimensionamento vanno ricercate nella crisi del Movimento e nelle decisioni del gruppo aziendale di operare tagli e finanziamenti.

 

I Circoli possedevano un patrimonio inestimabile in libri e riviste: sociologia, psicologia motivazionale, management, economia, antropologia;

 

l’abbonamento a tante riviste fra cui “Casabella”, “Comunità”, “Il Ponte”, “Lo Spettatore italiano”, “Nord e Sud”, “Paragone”. Era un universo di saperi nuovi, sperimentali, scientifici, tecnici su cui si esercitava la censura delle culture comunista, cattolica, crociana. Matera fece da cavia per la diffusione di questi contenuti culturali in tutto il Mezzogiorno subendone per prima l’influenza e il lascito successivo.

Ruotavano intorno ai Circoli studenti universitari, insegnanti, avvocati, medici, ingegneri, eruditi locali. Non si creda che quelle figure sociali segnassero il carattere elitario e aristocratico degli olivettiani. Suggeriscono, ancora oggi, l’esistenza 

di processi di mobilità sociale che nel tessuto regionale tendevano a superare 

la bipolarità braccianti-agrari, con cui era rappresentata la regione.

 

Nelle contrade lucane, in specie materane, di quegli anni, la presenza e le attività culturali degli olivettiani fecondarono un processo di educazione alla democrazia, alla cultura politica, alle curiosità culturali che guardava alle nuove generazioni nella convinzione che la modernità avesse bisogno anche di un côté critico, etico e libero nel pensiero. In seguito non si è avuto nulla di simile. 

 

A partire dal 1949 Olivetti fa giungere a Matera un gruppo di scienziati sociali, di tecnici, di urbanisti, di esperti nel management delle risorse e della progettazione. Bastano alcuni nomi per cogliere nel loro profilo un forte èthos pubblico, per misurare competenze specifiche, spessore culturale, qualità intellettuali. Si va da Ludovico Quaroni a Giovan Battista Martoglio, da Guido Mazzucchelli-Nazdo a Riccardo Musatti, a Rigo Innocenti; da Lidia De Rita a Tullio Tentori, a Eleonora Bracco. Saranno essi, con i materani Nitti, Ricciardi, Sacco ed altri, che attraverso la volontaria presenza sul campo, col metodo dell’inchiesta partecipata tenuta a battesimo proprio a Matera, con grandi idealità, tenteranno di dare corpo al sogno olivettiano. Membri della “Commissione di studio sull’agro e la città di Matera”, voluta nel 1951 dall’UNRRA-CASAS Prima Giunta, quindi da Olivetti, essi contribuirono a gettare le basi per la legge sullo sfollamento dei Sassi, a sostenere per Matera la necessità del PRG, a pianificare la costruzione del borgo rurale “La Martella”.

Con le dovute cautele e le differenze di spazio e tempo, i borghi rurali olivettiani rinviano all’esperienza dei villaggi operai.

 

Per questi, per esempio, si pensi ai Crespi di Canonica d’Adda, ai Marzotto di Valdagno, ai Rossi di Schio. Sono tutti industriali tessili, cotonieri, ossia il settore più forte del capitalismo italiano tra fine ‘800 e ‘900 ineunte. Il loro paternalismo, però, s’interrompeva sul tema della libertà individuale. Se un operaio veniva sorpreso fuori dal villaggio a frequentare la sede sindacale della FIOT (Fed. Ind. Operai Tessili) o la sez. socialista veniva subito cacciato. In ossequio a questo stile la FIAT schederà più di 100.000 operai nel secondo dopoguerra. Non così nelle fabbriche Olivetti, dove libertà individuale, dignità del lavoratore, alti salari, investimenti in ricerca, elevato tasso di innovazione, erano a base della produttività e della commercializzazione dei manufatti. 

 

Pur ripetendo alcuni criteri ispiratori del villaggio operaio, “La Martella” aveva fattori di diversità ideale e progettuale. Il borgo doveva avere tutti i servizi, dalla farmacia alla scuola, ospitare non più di 2/300 famiglie per dare l’immagine di una struttura comunitaria e non di un alveare. Doveva essere al centro dei terreni dati in proprietà in modo da ridurre il viaggio da casa al lavoro. Il tempo così liberato era destinato a una sociabilità alta: letture, biblioteca, cinema, viaggi culturali, corsi di formazione per introdurre innovazioni nelle tecniche colturali. Ciò nonostante, il trasferimento di abitanti dai Sassi a “La Martella” andò a rilento e subì forme di ostruzionismo. 

 

I primi a spostarsi, è il caso di ricordarlo, furono molti di quei battisti e pentecostali di cui Piovene aveva segnalato la visionarietà. La loro numerosa presenza a Matera deriva dall’apostolato religioso e laico del Monaco Bianco che agli inizi del ‘900, in concomitanza con la nascita del sindacalismo rivoluzionario nel Mezzogiorno, aveva guidato le lotte bracciantili, contro gli agrari materani, per il diritto di spigolatura, le otto ore, salari più dignitosi.

Interessata da un visibile processo di mobilità sociale, Matera visse in quel decennio uno sviluppo edilizio pubblico e privato all’altezza del mutamento. In mancanza 

di una pianificazione urbanistica il rischio era la costruzione di una città-mostro. Nell’immaginario olivettiano, invece, gli interessi della comunità, i suoi bisogni 

e i desideri dovevano trovare nella pianificazione, nella classificazione 

delle aree e dei suoli una rispettosa e armonica realizzazione 

con l’intero territorio comunitario.

 

Si pensi a Pozzuoli. Nel suo discorso del 1955 ai lavoratori, Olivetti sosteneva come la fabbrica costruita “di fronte al golfo più singolare del mondo (…) si è elevata all’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno”. Fu Luigi Cosenza l’architetto realizzatore di quell’armonia. 

 

I comunitari materani utilizzarono “Basilicata” come strumento di lotta, di denunzia degli scempi edilizi ottenendo risultati favorevoli più a Matera che a Potenza. Si batterono per anni perché il conflitto tra disordine e irrazionalità della rendita speculativa non travolgesse del tutto l’armonia comunitaria. Gli alterni risultati ottenuti per effetto della potenza delle controparti (in primis Emilio Colombo) non scoraggiarono gli olivettiani. La loro resistenza può considerarsi frutto di una triplice azione: percepirsi portatori di saperi tecnici e scientifici con cui sostenere il conflitto; sentirsi parte di un più ampio disegno modernizzatore; riconoscersi sintesi tra l’alta tradizione di impegno civile propria degli intellettuali meridionali e le novità dei tempi.

Il capitalismo comunitario, ovvero l’idea che “il capitale azionario delle grandi 

e medie imprese deve appartenere in parte alla comunità” locale 

e che alla gestione e proprietà devono partecipare insieme 

“i lavoratori, la Comunità e lo Stato regionale”, fu sconfitta.

 

Concorsero a ciò l’ostilità pregiudiziale e ideologica di Claire Booth Luce e la miopia di Confindustria. L’associazione, infatti, ritenne preferibile la scorciatoia dei finanziamenti pubblici, la distribuzione dei dividendi anziché il loro reimpiego in ricerca, sviluppo, innovazione. Nonostante la politica di alti salari, Olivetti si trovò a fare i conti anche con l’opposizione della CISL, più che della CGIL. 

 

Lo schema teorico del federalismo olivettiano (Comunità e Stato regionale) non incrinava né l’Unità del Paese, né la solidarietà reale. Nel 1952-54 il gruppo aveva deciso “di trasferire al Sud il suo potenziale di incremento produttivo”. A causa di una ennesima crisi che aveva investito il Canavese, la politica di riassorbimento dei disoccupati negli stabilimenti di Ivrea non poteva avvenire come era accaduto in precedenti situazioni. Pur tuttavia, ricorda Olivetti agli operai di Pozzuoli, nessuno “ebbe a lamentarsi (…). Perché nella coscienza dei nostri operai del Canavese è vivo il senso di solidarietà con i fratelli della Campania, della Calabria, della Lucania”. 

 

L’abbandono del Mezzogiorno, le scorribande leghiste e neoborboniche (che lo stanno attraversando), l’autonomia differenziata costituiscono un pericolo per la democrazia italiana. La lotta contro questo scenario è il lascito migliore dello “sguardo” di Olivetti e va mantenuto vivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NOTA

 

Le fonti archivistiche e bibliografiche sono qui elencate per documentare il virgolettato presente nel testo. 

 

Archivio centrale dello Stato, Roma: Min. Int. Partiti politici 1944-1964 b.113. 

 

Archivio storico Olivetti, Ivrea: Seg. del Movimento di Comunità Lucania, bb.1-9. 

 

Camera dei Deputati Atti Parlamentari. 

 

G. Baglieri, M. Fabbri, L. Sacco, Cronache dei tempi lunghi, Lacaita, 1965. 

 

F. Bilò, E. Vadini, Matera e Adriano Olivetti. Ed. di Comunità, 2013. 

 

R. Giura Longo, Per Matera si cambia, pref. di Angelo R. Bianchi, Ed. Giannatelli, 2018. 

 

R. Musatti et alii, Matera 1955, Ed. Giannatelli, 1996. 

 

A. Olivetti, Ai lavoratori, Ed. di Comunità, 2012. 

 

Id. Città dell’uomo, Ed. di Comunità, 2015.

 

 

FOTO

 

“Courtesy Archivio Fondazione Adriano Olivetti” www.fondazioneadrianolivetti.it

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