LA PRIMA CABINA di Francesco Ricciardi – Numero 16 – Febbraio 2020

 

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LA PRIMA CABINA

 

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si andava diffondendo in molte città della nostra costa e Salerno non faceva eccezione.

 

Già sul finire dell’Ottocento i primi stabilimenti, con cabine montate su palafitte piantate direttamente in acqua, avevano fatto la loro comparsa, dapprima proprio di fronte alla città vecchia, sulla storica spiaggia di Santa Teresa, poi più ad occidente sull’arenile contiguo al porto.   

 

Sul versante opposto invece, oltre la foce del fiume Irno ad est dell’abitato, fino a quella del Sele e oltre, a Paestum e ai primi rilievi cilentani, un immenso e lunghissimo litorale sabbioso restava ancora deserto. Come lo era stato al tempo di greci ed etruschi, romani e longobardi, normanni, angioini, aragonesi… e via di seguito fino a 50 anni fa.

 

L’entroterra, d’altronde, allora scarsamente abitato e interamente vocato 

alle tradizionali attività agricole, non giustificava certo 

il sorgere sulla costa di iniziative di tipo turistico.


E a nessuno del luogo, salvo forse casi sporadici, veniva in mente di interrompere le attività agresti per trasformarsi in un bagnante nel senso corrente del termine.  Ma c’era qualche eccezione… tra queste quelle legate alle abitudini estive della famiglia dei conti Carrara e della nostra. Tutti a Salerno conoscono la Villa Carrara, un tempo suburbana, posta lungo la S.S. 18 delle Calabrie a un paio di chilometri dalla città e distante un centinaio di metri dal mare. Siamo nei pressi dell’allora villaggio di Pastena, oggi un popoloso quartiere della città. Poco oltre, superata Pastena e le sue poche case, proseguendo verso oriente, c’era la nostra villa, che sorgeva nel cuore di quello che un tempo, per la fertilità della terra, era chiamato

“il Paradiso di Pastena”; era un complesso di costruzioni di tipo misto, 

agricolo-padronale, la cui presenza aveva sempre rappresentato 

un punto “cospicuo” della zona, spesso riportato 

nelle cartografie d’epoca. 


Alla fine dell’Ottocento la proprietà comprendeva, oltre alle case, poco più di 10 ettari di agrumeto ed era nota come “Ospedale all’Argentera e al Mercatello”, nome dovuto alla posizione isolata (ospedale = ostello), alla vicinanza con il torrente Mercatello e ai riflessi argentei delle foglie delle essenze predominanti – i pioppi – che ne accompagnavano il corso al confine del fondo agricolo. 

Di certo i primi bagnanti regolari sul grande e deserto litorale furono dunque 

i miei nonni che, durante la “villeggiatura”, ogni mattina si muovevano da casa 

per raggiungere in pochi minuti a piedi quella che, allora, consideravano 

una sorta di spiaggia privata.  


Lo facevano percorrendo una stradina interpoderale sulla quale, nel tratto finale che attraversava la proprietà del barone Campolongo, godevano di una servitù di passaggio. La chiamavamo la stradina “del ponticello”, per la presenza di un piccolo ponte gettato su uno dei canali di irrigazione, e per un tratto, all’ombra dei pioppi di cui si è detto, essa costeggiava il corso del torrente.  Fin qui mi si potrebbe obiettare che questa è solo una delle tante storie che ci capita di ascoltare sui “bei tempi andati”; ognuno in fondo potrebbe averne una propria da raccontare (“Il ragazzo della Via Gluck” docet). La differenza sta nel fatto – e questa è la ragione di questo breve scritto – che in questo caso del racconto esiste anche una puntuale documentazione per immagini: mio nonno era un appassionato di fotografia… In una foto scattata verso la metà degli anni Dieci lo si vede, un poco discosto dal proprio capanno, guardare verso il mare. In seguito,

a partire dagli anni Venti, in luogo del capanno veniva allestita una regolare cabina 

in legno: la prima cabina di Mercatello, solitaria sullo sterminato arenile.


Nelle tante foto scattate in quegli anni (per lo più lastre fotografiche conservate nelle loro scatolette originali e fortunosamente giunte fino a noi), sullo sfondo di gruppi e momenti privati, si possono scorgere scorci e paesaggi di quel lembo di terra, testimonianze di un ambiente oggi del tutto cancellato dall’avanzare di ciò che veniva definito progresso. È qui che il racconto si fa immagine e una semplice storia familiare diventa documento.

Il punto del litorale eletto da quei pionieri della balneazione estiva 

sulle spiagge orientali di Salerno era presso la foce del Mercatello, 


più o meno dove la stradina terminava, attraversando un passaggio coperto da una volta a botte incorporato in un bel casale colonico intonacato di bianco di proprietà dei Galdo (altra storica famiglia di proprietari terrieri della zona). Al di là del grande portone ad arco passava la già citata Statale delle Calabrie, ai tempi ancora in terra battuta, lungo la quale il casale sorgeva. La si attraversava e si era in spiaggia.  

Negli anni Sessanta anche il Casale Galdo fu demolito


per fare posto agli anonimi edifici della Salerno moderna, ora affacciati sulla grande stazione di servizio che ancora esiste.

Di quella demolizione o di una analoga – non fa una gran differenza – 

parlò anche lo scrittore ungherese Sandor Màrai, il quale dal 1968 al 1980 

abitò, in solitaria riservatezza, a Mercatello, 

a pochi metri dal luogo descritto


Egli, ben prima dei salernitani, aveva avvertito (e non ci voleva molto…) i danni irreversibili dalla speculazione edilizia e nel 1968, in una sua nota di lacerante dolore, scriveva nel suo diario: 
«Mentre eravamo a Roma, nelle vicinanze del nostro appartamento hanno abbattuto una vecchia masseria campana del secolo scorso, era una casa a due piani con degli archi, i proprietari erano contadini-patrizi benestanti. Al suo posto si costruirà una scatola di cemento a sei piani, un casamento, misurato su utile-cubatura. Quando si abbatte una masseria così vecchia, qualcosa dell’Europa si rovina, più di quando demoliscono un edificio sfarzoso». 

Tornando sulla nostra stradina, mentre l’assalto della città e gli espropri degli anni Settanta andavano mutando radicalmente il volto dei luoghi, veniva cancellato per sempre anche quel piacevole itinerario campestre, rimasto in uso per qualche secolo e percorso innumerevoli volte anche da chi scrive.

Un brandello del passato è in verità sopravvissuto e un tratto
di quella stradina 
è oggi compreso all’interno del grande Parco Mercatello 

(realizzato alla fine degli anni Novanta) e ancora costeggia 

il lato destro del torrente da cui il parco prende il nome. 


La nostra villa, invece, è oggi “annegata” tra gli edifici INA Casa del Rione De Gasperi (anni Sessanta) e a quelli più alti ed invadenti del più recente Quartiere Europa (anni Settanta).  Riprendersi dallo shock fu difficile. Tuttavia, pur vivendo altrove ma intimamente legati a questi luoghi, nel corso degli anni vi siamo tornati regolarmente per trascorrere qualche giorno nella nostra vecchia casa di vacanza.

 

«Succede: andando, si torna – per dirla con Beppe Severgnini 

(“Touring”, febbraio 2003) – […] in luoghi dove siamo già stati, 

e la cosa non ci annoia, anzi: ci piace e ci consola. 

Per questo […] torniamo nella città dove abbiamo vissuto, 

o nel posto dove siamo stati bambini». 


Anche noi abbiamo continuato a farlo e poco alla volta quella ferita, pur così dolorosa e sanguinante, anno dopo anno riuscì in qualche modo a rimarginarsi; e se, in senso metaforico, si era passati da un paradiso all’inferno, per me fu di ideale conforto adattare al nostro particolare, la seguente riflessione di Italo Calvino (“Le città invisibili”): 
«Ci sono due modi per non soffrire nell’inferno. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:   

cercare e saper riconoscere che cosa, in mezzo all’inferno, 

non è inferno e farlo durare e dargli spazio».


Forse, senza accorgercene, è proprio nello spirito della seconda alternativa offertaci da Calvino che abbiamo continuato ad abitare la nostra vecchia casa. 

 

 

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA di Gaia Bay Rossi – Numero 16 – Febbraio 2020

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA

 

 

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“La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia […] il resto mi par soltanto un gambo posto a sorregger un simil fiore”.

Hessemer, come tanti giovani aristocratici che si cimentarono nel Grand Tour, da Goethe a Tocqueville, da Dumas a Ruskin a Maupassant, rimase incantato da questa terra unica, straordinario insieme dei lasciti delle tante popolazioni che qui si stanziarono nell’arco dei secoli: fenici, greci, romani, ostrogoti, bizantini, arabi e normanni, francesi e spagnoli, tanto per citarne alcuni.

Possedere o perdere la Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo,
ha sempre rappresentato l’affermazione o la fine degli imperi
e delle civiltà che si sono incontrate con lei.


Grazie a questa preziosa miscellanea, la Sicilia può vantare di essere stata il primo Stato al mondo ad avere un Parlamento, istituito nel 1129 dal normanno Ruggero II (quando l’Inghilterra ne vide la creazione solo nel 1264).

 

Un Parlamento che non aveva le rappresentanze solo di clero e nobiltà, 

ma anche quelle delle città libere e che permise la piena collaborazione 

tra le varie etnie e fedi religiose.  

 

Non dimentichiamoci che la Cappella Palatina a Palermo è l’unico luogo di culto che mette insieme due religioni: la cristiana (nei due riti, cattolico e ortodosso) e l’islamica. Uno spirito di tolleranza religiosa e civile che nel resto d’Europa sarà riconosciuta solamente nel 1598 con l’editto di Nantes di Enrico IV di Francia. Si può tranquillamente affermare che il regno normanno-svevo in Sicilia ha posto le basi dello Stato moderno nell’isola.

In Sicilia è nata la letteratura italiana per mezzo della scuola siciliana.  

 

Dante fu un estimatore della lirica siciliana e del volgare con cui si esprimeva, tanto da commentare nel De Vulgari Eloquentia: “Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. La poesia lirica della scuola siciliana ebbe anche il merito di aver introdotto il sonetto (inventato da Jacopo da Lentini nella prima metà del Duecento).

Sempre in Sicilia si è avuto il più importante moto popolare europeo, quello dei Vespri del 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola  

 

(va segnalato che Dante, che in quella data aveva solo diciassette anni, nell’VIII canto del Paradiso indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia). Quindi, oltre alla capacità di crescita e assimilazione, la Sicilia esprimeva anche forza, carattere e ribellione. 

 

La più arguta e precisa definizione della Sicilia mi è stata data, in un’occasione culturale e conviviale, dal Governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che mi ha spiegato che “la Sicilia è l’esagerazione dell’Italia. Nel bene e nel male. Se l’Italia ha la criminalità, la Sicilia ha la mafia; se l’Italia ha bellezze artistiche, la Sicilia ha capolavori straordinari di tutte le epoche, sia in terra sia sotto il mare; se l’Italia ha ottimi cibi, la Sicilia sorprende con tutte le sue variegate specialità.” 

 

La Sicilia è una terra antropologicamente complessa, storicamente e culturalmente divisa in due.

Da oriente a occidente si trovano due Sicilie uguali e contrarie, caratterizzate 

da usi e costumi diversi, ma anche da colori e sapori alternativi 

che pure riportano sempre alla medesima “sicilianità”  

 

fatta di tradizioni, orgoglio, accoglienza, attaccamento alla terra, e di tutto ciò che spinse Giovanni Falcone a dire: “Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio”. 

 

La Sicilia orientale, fu la parte maggiormente influenzata dalla civiltà greca, che ebbe inizio nel 756 a. C. con la fondazione della prima colonia, Zancle, l’odierna Messina. Seguirono Naxos, a lungo considerata la prima colonia greca, Siracusa, Catania, Megara Hyblaea, Gela, Selinunte, Akragas (Agrigento). L’80% di questi territori si trova

nella Sicilia orientale, dove i greci imposero la loro cultura raffinata, 

la loro architettura, le loro abitudini: fu la prima, vera, 

grande rivoluzione culturale del Mediterraneo.  

 

La Sicilia greca ha contribuito a formare dei siciliani lavoratori e imprenditori: se a Catania di notte c’è il terremoto e tutti scendono in piazza, subito dopo arriva l’uomo a vendere i palloncini!  

 

Non dimentichiamo che grandi filosofi e scienziati greci, come Archimede e Pitagora, nacquero in Sicilia e qui diffusero i loro insegnamenti. Mi piace ricordare, e non in tono polemico, la risposta di un siciliano con spiccato senso dell’umorismo ad un noto imprenditore che ha affermato: “Se voglio la cultura vado a Parigi, in Sicilia ci si va solo per il mare e il cibo”. La risposta è stata: “Volevo solo ricordarle che quando io, a Siracusa, discutevo di matematica, geometria, fisica, ottica, idraulica e meccanica, a Parigi vivevano sugli alberi. Distinti saluti. Archimede”.

Tutto questo mentre la Sicilia occidentale era, come dice l’antropologo e scrittore palermitano Franco La Cecla, “tutta presa dagli almeno quindici secoli 

di presenza africana, punica, cartaginese”.  

 

Gli arabi arrivarono in Sicilia nel IX secolo e la loro presenza fu stabile fino al 1492, quando Ferdinando II Il Cattolico, re di Spagna, stabilì l’espulsione per chiunque non fosse di religione cristiana, quindi musulmani ed ebrei. Al contrario, come abbiamo visto,

durante il regno degli Altavilla prima e di Federico II poi, cristiani ed arabi avevano convissuto tranquillamente in un clima fertile e creativo, che aveva arricchito 

e migliorato la Sicilia intera e, in particolar modo, la parte occidentale.  

 

Testimonianze di quella convivenza sono termini linguistici come il nome di alcune località: Alcamo (al-qamah, terra fertile), Marsala (marsa Allāh, porto di Dio), Salemi (salam, pace) ma anche in centinaia di parole siciliane: bagghiu: cortile (da bahah), cassata: il dolce di ricotta (da qashata), mischinu: poverino (da miskīn), taliàri: guardare, osservare (da ṭalaʿa), zaffarana: zafferano (da zaʿfarān) ecc. 

 

Per non parlare degli edifici con la cupola, denominati ‘cuba’, o delle località che iniziano con il toponimo ‘Cal’ (in arabo qalʾat castello o fortezza) come Calascibetta, Calatabiano, Calatafimi, Caltabellotta, Caltagirone, Caltanissetta, Caltavuturo. 

 

A Palermo c’è il palazzo della Zisa (dall’arabo al-ʿAzīza, la splendida) all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (sempre dall’arabo Jannat al-arḍh ovvero “paradiso della terra”), che rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna e decorazioni e ingegnerie arabe, tanto da essere stato riconosciuto nel 2015 Patrimonio dell’umanità Unesco nell’ambito dell’ “Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale”.

Nei rapporti tra Sicilia e mondo arabo, lo scrittore, saggista e giornalista siciliano Vincenzo Consolo così si è espresso: “Vengo dalla Sicilia, la regione 

più araba d’Italia e una terra fra le più arabe al mondo […]  

 

Con la civilizzazione araba, durata due secoli e mezzo, la Sicilia attraversò una sorta di rinascimento: scoprì le tecniche dell’agricoltura, vide fiorire le arti e la scienze e diffondersi princìpi di uguaglianza e tolleranza”.  

 

Ma c’è ancora un’ulteriore caratteristica da toccare sui risultati delle diverse dominazioni in Sicilia, e riguarda la gastronomia: i grani (oggi qui se ne coltivano ben 52 tipi) sono arrivati grazie agli spagnoli, il cuscus è arrivato dal nord Africa intorno al 1300 (oggi il particolare cuscus trapanese è inserito tra i “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani”), la pesca del tonno con la mattanza è stata introdotta da un Rais, persona di origine araba, la pasta con le sarde è l’invenzione di un cuoco arabo del generale Eufemio da Messina, il vino siciliano ha oggi la sua fortuna perché gli antichi greci spiegarono ai siciliani la coltivazione della vite nel VIII sec. a.C., e la cassata, nata in un convento nel 1400, nei secoli fu integrata dagli ingredienti introdotti dalle varie dominazioni: frutta candita dagli arabi, cioccolato dagli spagnoli e pasta di mandorle dai normanni.  

 

Resta un’ultima fondamentale questione ancora irrisolta nel confronto tra le varie parti della Sicilia: si dice arancino o arancina? 

 

 

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DAI TAPPETI QUASI VOLANTI AL FASHION di Michele Minisci – Numero 16 – Febbraio 2020

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DAI TAPPETI  QUASI VOLANTI AL FASHION 

 

Da piccolo sentivo parlare di un’azienda che fabbricava tappeti e coperte a Longobucco, in provincia di Cosenza, un centro poco lontano dal mio paesino calabrese. E nella mia infinita fantasia ogni tanto immaginavo questi “tappeti volanti” solcare il cielo sopra la piana di Sibari, sfiorando appena le cime degli ulivi centenari o accarezzando le profumate foglie degli aranci…  

 

Sapevo bene come nascevano queste stoffe, questi tappeti, queste tovaglie, queste coperte, perché nel mio paesino c’erano molte donne che avevano un telaio in casa, per i propri bisogni familiari (ma forse lavoravano anche per conto dell’azienda Celestino) e

mi fermavo spesso a guardare, ammirato e stupito, quelle mani velocissime 

e quei gesti quasi magici, come novelle Penelopi, che facevano scivolare 

le spole e i cannelli tra quel labirinto di fili


filati, trame labirintiche che trovavano alla fine sempre la loro via d’uscita per compiere il passo successivo, fino alla fine del percorso a cui dovevano arrivare: la tovaglia da tavola, il lenzuolo, l’asciugamano, le coperte.  

 

E tutto questo nel comune intreccio di trama ed ordito che andavano ad incontrare poi un altro filo, quello del coloratissimo disegno che attraversava orizzontalmente gli altri svariati fili che

davano infine origine, magicamente, al prezioso tessuto.


Ma  questo  l’ho  capito  solo  da grande,  quando ho intervistato per la nostra rivista l’avvocato Caterina Celestino, il deus ex machina dell’omonima azienda che affonda la sua esperienza in secoli di storia.  

 

Come ho immaginato, ancora, ritornando ad interessarmi delle eccellenze calabresi, che

quei timbri e ritmi degli antichi telai che facevano parte dell’antico laboratorio – … tracchete, tricchete, tracchete… – potevano benissimo 

rapportarsi ai ritmi del blues,

 

che io conosco molto bene perché frequentatore di quella musica, quelli che alle origini accompagnavano i canti gospel dei raccoglitori di cotone della Louisiana, con le sue 12 battute, il giro del blues! Come 12 erano le assi che formavano i vecchi telai. Accostamento forse fantasioso e azzardato!  

 

Comunque, con questo particolare background ho avuto il mio primo impatto col mondo dei Celestino. Poi, con la richiesta di una mia intervista, la signora Caterina mi ha preso per mano e nello showroom di Rossano, stupenda città bizantina e rinomata in tutto il mondo per il suo Codice Purpureo, riconosciuto dall’Unesco come bene universale, culla culturale della famiglia Celestino che adotta, anche nel logo, la cicogna, in omaggio al Mito di Antigone, mi ha fatto attraversare tutta la storia della tessitura calabrese e quindi della sua azienda.  

 

E mi ha parlato del nonno Eugenio, che all’inizio degli anni ’20 ha impresso una svolta epocale alla tessitura calabrese arricchendo la varietà e la qualità dei singoli manufatti, i cui prodotti sono realizzati con

filati pregiati in lino, cotone, canapa, lana, ginestra, seta altamente selezionati, impreziositi dagli originali disegni riprodotti sui vari tessuti 

che portano nomi che si richiamano alla storia, alla tradizione, 

alla terra, alle leggende arcaiche della Magna Grecia,


a cui questo territorio continua a fare riferimento, come “Toro cozzante”, da un antico reperto archeologico ritrovato nel sito di Sibari, oppure “Krités”, il giudice, suggestivo disegno di ispirazione bizantina, oppure “Ginestra”, “Liquirizia”, “Spiga”. Ancora il territorio, la terra, le radici!  

 

Eccellenze nella tessitura artistica

che sono valse all’azienda calabrese riconoscimenti da parte del mondo 

dello spettacolo e dell’arte e onorificenze istituzionali 

a livello nazionale ed internazionale:


alla Fiera di Parigi, all’Esposizione di Londra, di Chicago, di Milano, di Firenze, senza dimenticare le numerose ed illustri collaborazioni con i grandi ateliers e con le più rinomate Case di Alta Moda Nazionali, tra le quali Gattinoni, le Sorelle Fontana, ecc. Memorabile il grande poster che campeggia nello showroom di Rossano Calabro con la foto di Ava Gardner con un vestito realizzato dalla Bottega d’arte Celestino e una delle sorelle Fontana che dà gli ultimi ritocchi alle pieghe, che mi ha rapito e “costretto” ad ammirarlo per diversi minuti!   

 

Ma Caterina Celestino mi ricorda che i suoi

tessuti, che accuratamente elaborati da abili stilisti dell’Alta Moda Italiana 

hanno dato vita a confezioni destinate alle Case Reali, alla Città del Vaticano 

ed a Musei di tutto il mondo, oggi si incontrano con lo spirito innovativo 

delle nuove generazioni.


Ma il lavoro a cui la signora Caterina tiene di più è sicuramente Katherina, of course, un’originale collezione della Maison Celestino, che è stata presentata negli anni scorsi in svariate location prestigiose, riscuotendo grande successo. Atmosfere d’altri tempi accompagnano lo straordinario omaggio alla donna contemporanea attraverso le creazioni ideate ancora dalla designer Flavia Putignano ed inneggianti alle grandi donne con questo nome, come Caterina d’Aragona, Caterina Cornaro, Caterina de’ Medici, Caterina La Grande, Katharine Jeffert Schori, Caterina Ferrucci, Katherine Hepburn, Catherine Deneuve, Caterina Caselli (con una imperdonabile dimenticanza: Caterina Sforza, la leonessa di Forlì, la città in cui vivo!).

 

Questi i miti ispiratori per la nostra Caterina: indiscusse protagoniste di un omaggio alla donna che la Maison Celestino propone oltre il tempo e la storia.

Oggi l’azienda Celestino coinvolge decine e decine di lavoratrici in conto terzi,  

una folta schiera di sarte, tessitrici, esperte ricamatrici, non solo 

per tutta una serie di prodotti per la casa riferiti ad uso quotidiano (tovaglie, coperte, soprammobili, biancheria varia, ecc.), 

ma anche per l’alta moda,


avendo però di fronte un mercato nazionale con alcune aziende che propongono per alcuni prodotti prezzi altissimi, realizzati però con materiale non eccelso, mentre le produzioni Celestino di alta qualità hanno dei prezzi molto più accessibili. Disfunzioni del mercato, complice una martellante pubblicità con budget stratosferici!  

 

Sarebbe necessario ampliare questo discorso facendo rete, proponendo sinergie, coinvolgendo altre forze, altre associazioni, altre istituzioni. Problematiche che però in Calabria fanno ancora fatica a svilupparsi. Possiamo dire oggi con certezza che Caterina Celestino ha preso in mano la sua Storia e … l’ha gettata oltre l’ostacolo. Ma non è che l’inizio. 

L’arte della tessitura calabrese strizza l’occhio ormai anche all’Alta Moda Italiana e ha un nome ben preciso: Celestino.  

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UNA VIA ORIGINALE ALLO SVILUPPO DEL SUD di Agostino Picicco – Numero 16 – Febbraio 2020

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UNA VIA ORIGINALE   ALLO SVILUPPO DEL SUD 

 

Il binomio lavoro-emigrazione è oggetto di continuo esame da parte di autorità ed esperti. Un dato di fatto ormai certo, comunque, è che la disoccupazione dell’Italia meridionale è quasi tripla rispetto a quella del Centro-Nord. Quali soluzioni allora configurare a questo proposito?

Un punto fermo ormai raggiunto e comunemente condiviso dai più 

è che la rinascita del Mezzogiorno è affidata alla gente del Sud.


I meridionali hanno finalmente capito di dover essere artefici della propria crescita civile: soggetto e non oggetto di sviluppo. Il Sud dice un no secco all’assistenzialismo statale, che ha prodotto guasti non inferiori a quelli causati dalla criminalità organizzata, che ha espropriato i giovani della cultura della imprenditorialità, che ha generato clientelismi e corruzione.

Già don Sturzo parecchi anni fa ribadiva con forza l’esistenza 

di una “originale via meridionale” allo sviluppo.


Come si sostanzia questa via allo sviluppo dell’area meridionale? Innanzitutto, credo che occorra considerare le risorse specifiche esistenti nel Mezzogiorno, valorizzandole anche con l’impiego di tecnologie industriali avanzate. Si tengano presenti, ad esempio, sia le risorse agro-alimentari e dell’industria del mare (dal turismo alla pesca) sia l’artigianato, che costituisce una ricchezza tuttora non ben sfruttata commercialmente, sia le imprese a dimensioni medie e familiari, più rispondenti al costume e alla creatività delle popolazioni del Sud. 

Non deve mancare anche un occhio di riguardo allo stretto legame tra Sud Italia e futuro dell’intera area mediterranea, dove il Sud viene a trovarsi in posizione chiave. Come il Settentrione d’Italia ha allargato la sua zone d’influenza e di comunicazione verso l’Europa centrale, così  

il Mezzogiorno d’Italia – crocevia geografico e storico degli interessi 

e degli scambi economici e culturali tra Europa, Africa e Asia – 

gode come risorsa di una posizione geografica unica.


In tal modo potrebbe aspirare con successo a diventare “il Nord del Sud”.  Parlare di via originale allo sviluppo del Sud significa anche essere coscienti che la crescita civile del Meridione non può ridursi al solo sviluppo economico, per quanto ovviamente utile e necessario.

È necessario anche insistere sulla priorità di una formazione culturale e di un serio sforzo di preparazione professionale.


Lo smarrimento di certi valori ha prodotto la perdita del senso della socialità e della legalità. Una seria formazione morale e culturale contrasta l’atteggiamento di rassegnazione e di passività, quel senso di vittimismo che finisce poi per favorire la tendenza alla devianza. 

Affermare che l’elemento culturale e formativo occupa un posto importante per la crescita civile della nostra terra significa, inoltre, riconoscere che

la nostra gente è fornita di straordinarie doti creative e intellettive,

come di notevoli risorse umane.


Ciò è dimostrato anche dai nostri concittadini emigranti (in Italia e all’estero) che si sono affermati ai livelli più alti quando hanno trovato strutture adeguate. 

La valorizzazione di risorse finanziarie ed umane, insieme a qualche infrastruttura in più, la soluzione del problema della legalità, premessa indispensabile per lo sviluppo, l’esempio di chi scommette sull’idea di impresa, magari nella forma della cooperativa per competere meglio con il mercato, esprimono la speranza che, eliminate le varie fasi di assistenzialismo, di conflittualità tra le parti, di mediazioni politiche non trasparenti, si realizzi un’esperienza di crescita per tutto il Paese, nella convinzione che soprattutto sulle frontiere del lavoro si giocherà la permanenza dell’Italia in Europa. 

 

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ di Giorgio Salvatori – Numero 15 – Dicembre 2019

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ

 

Giorgio-Salvatori

Cari amici di Myrrha, si cambia. In questo numero i “doni del Sud’’ vengono letti non più, soltanto, estrapolandoli dal loro contesto e messi a fuoco nella loro eccellenza o unicità, ma anche nella cornice, contraddittoria, della storica complessità del Meridione.  

In altre parole ci addentriamo consapevolmente in un’analisi più articolata della realtà del nostro Sud per descriverne anche chiusure corporative e rigidità consolidate. Stiamo parlando di quei comparti immobili, da sempre refrattari ad ogni forma di cambiamento nonché di quelle azioni di contrasto messe in atto da forze storicamente ostili all’evoluzione sociale, economica e culturale delle popolazioni meridionali.

 

In questa nuova prospettiva, Myrrha si apre ad un orizzonte più ampio, 

grazie all’esperienza provvida e illuminante dell’istituzione 

che più e meglio conosce forze e debolezze storiche 

del Meridione: la Svimez,


l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che studia e analizza i dati che caratterizzano il complesso processo delle dinamiche sociali ed economiche del Sud.

 

È, questa, l’occasione per 

riflettere, con severità, su quali e quanti blocchi strutturali rallentino il lungo processo di integrazione e di fusione reale tra Settentrione e Meridione della Penisola,

 

su quanto e come la mafia, le mafie, riescano a distrarre, a proprio vantaggio, risorse vitali e produttive del Sud e del Nord del Paese e, infine, su quanto l’assenza di un’azione forte e costante, da parte delle istituzioni, contribuisca a comprimere il coraggio e le occasionali esplosioni di protesta, di reazione civile, della stragrande maggioranza delle genti meridionali contro i soprusi delle mafie. 

 

Tra questi due poli, non bisogna dimenticarlo, non c’è soltanto la complicità, l’ignavia o il colpevole cinismo di alcuni politici. C’è anche quell’azione mai compiutamente indagata, ma sottilmente nefasta, dispiegata dai rappresentanti di strati consistenti delle amministrazioni centrali e periferiche che, per non perdere i benefici della propria condizione di intermediari di risorse, fondamentali per il progresso di un territorio, restano arroccati nei propri fortilizi burocratici, elargendo servizi come satrapi che abusano quotidianamente dei propri poteri verso cittadini trattati come sudditi.

In queste pagine leggerete interventi di giornalisti, analisti e studiosi del problema meridionale. Cercheranno di far luce sulle cause delle contraddizioni

 

e degli ostacoli che impediscono al Sud di decollare nonostante le grandi potenzialità, le eccellenze, i “doni’’ particolari, la voglia di “volare” (preferibilmente restando nei cieli meridionali) dei maltrattati giovani del Sud.  

 

In questa specifica circostanza, il mosaico meridionale verrà esposto e interpretato alla luce degli ultimi elementi emersi dagli studi degli esperti della Svimez.

Si parte dall’approfondita analisi dello stato generale della situazione meridionale

 

di Giuseppe Soriero, autorevole membro della Presidenza dell’Istituto. Soriero evidenzia i punti fondamentali del divario Nord-Sud in base ai dati aggiornati del rapporto Svimez 2019 e ne mette in risalto due aspetti fondamentali: non si esce dalla crisi meridionale accentuando lo scontro, dialettico e politico, tra gli assertori della “rapina del Nord a danno del Sud” e quelli del “fardello del Sud sulle spalle del Nord’’ e neppure sottovalutando l’arretramento del più opulento Settentrione rispetto ai sorprendenti traguardi del PIL conseguiti da alcuni Paesi europei.

A questa analisi circostanziata si aggiungono anche le vivaci interpretazioni e le “variazioni sul tema” di due firme note di Myrrha:

 

Carmen Lasorella e Roberta Lucchini. Lavorando sui dati Svimez, la prima ci guiderà a conoscere meglio le valenze soffocate del Sud, in primis la compressa risorsa femminile, e lancerà una sfida a chi, nelle istituzioni, sia finalmente in grado di raccoglierla vincendo una colpevole indolenza. La seconda si tufferà nei numeri e nelle analisi evidenziando criticità, punti di forza, possibili vie di uscita dalla paralisi forzata in cui le forze ostili al cambiamento hanno finora ostacolato il pieno sviluppo delle intelligenze e della creatività dei migliori figli del nostro Meridione. Uno stallo che, di fatto, punisce non solo il Sud, ma l’intero Paese e che dovrebbe rafforzare, all’opposto delle logore polemiche nordiste o delle nostalgie neoborboniche, la volontà di chi si batte per consolidare finalmente l’unità nazionale offrendo ad ogni cittadino dello Stivale pari opportunità e occasioni di sviluppo.

Certamente non ci rallegra il raffronto, spietato, tra la supposta qualità della vita, 

nelle varie città italiane, recentemente stilata dal Sole 24 Ore.

 

Una sfilza di primi posti assegnati, da Milano a Como, per ben 40 posizioni, a città del Nord, e una valanga di ultimi posti, salvo pochissime eccezioni, a decine di città meridionali. In questa classifica Napoli risulta ottantunesima, Crotone e Caltanissetta chiudono l’elenco addirittura alla centoseiesima e alla centosettesima posizione. Opinabile o obiettiva che sia, questa classifica suona comunque come una clamorosa batosta mediatica di cui non si può sminuire l’impatto sociale e psicologico che essa dispiega sulle legittime aspettative di riscatto della società civile meridionale.  

 

Non ignorare, non offendersi, non sottovalutare.

Il Sud può e deve reagire, ma le istituzioni non possono restare a guardare né attendere oltre.

 

Non bastano riconoscimenti di merito individuali né, tantomeno, celebrazioni ufficiali e targhe alla memoria. La rinascita della Nazione ha bisogno del concorso operoso e coraggioso di tutti, cittadini e istituzioni, dal Nord al Sud del Paese

Nessuno si illuda. Non abbiamo un’alternativa.
La disfatta del Sud sarebbe la sconfitta di tutti. 

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L’UNICA VIA POSSIBILE? di Roberta Lucchini – Numero 15 – Dicembre 2019

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L’UNICA  VIA POSSIBILE?*

 

La storia di Anna – non di fantasia – è una delle tante, note vicende che affollano sempre più insistentemente le rubriche dei media dedicate al mondo dell’occupazione, in special modo giovanile.  

Nata ad Adelfia, in provincia di Bari, studi classici, poi laurea con il massimo dei voti in discipline economiche, ottima conoscenza della lingua inglese, tanta voglia di affermarsi e far fruttare i sacrifici suoi e dei suoi genitori, Anna, finisce, a 25 anni per rientrare nel novero di quelle 19,6 mila unità che nel 2017 hanno lasciato la Puglia con destinazione Centro-Nord della Penisola. Cifra che è quota parte del bilancio di 110 mila persone le quali, sempre nel 2017, si sono spostate dal Mezzogiorno verso la più prospera e allettante Italia centro-settentrionale. Come ci ricorda puntualmente il rapporto Svimez 2019,

 

nello stesso 2017 si sono cancellate dai Registri anagrafici meridionali

circa 132.000 persone

 

e, a fronte di tutto ciò, il saldo migratorio è rimasto fortemente negativo, sia considerando l’anno in questione (-68.602 unità) che un periodo più lungo, vale a dire un quindicennio (2002-2017, -852.113); ciò soprattutto senza che si sia potuto compensare il forte drenaggio di soggetti giovani e/o con titolo di studio superiore (i laureati, per intenderci) con una immigrazione di qualità equivalente. E’ un trend tristemente noto, sebbene a leggere questi numeri non si smetta di stupirsi, rabbrividendo: 

dall’inizio del nuovo secolo – ci ricorda la Svimez – ben 2 milioni 15 mila residenti hanno lasciato il Mezzogiorno, la metà di questi con età compresa

fra i 15 e i 34 anni, un quinto con titolo di studio superiore.


Una perdita inestimabile di capitale umano, di forza lavoro, di spinta propulsiva che va ad arricchire tessuti socio-economici distanti, senza un effettivo ritorno di natura finanziaria verso i luoghi d’origine. Questo progressivo dissanguamento confluisce ad alimentare la tendenza, anch’essa ormai riconosciuta, tuttavia non per questo meno allarmante, rappresentata dal progressivo spopolamento, sì, delle Regioni meridionali, ma pure dell’intero Paese, secondo una dinamica chiaramente evidenziata negli studi di organismi dal respiro globale: il Dipartimento degli Affari Sociali delle Nazioni Unite, ad esempio, nel suo World Population Prospects 2019, stima che la popolazione a livello mondiale raggiungerà, nel 2100, oltre 10 miliardi di individui. Il trend di crescita è sostenuto in tutti i Continenti, l’Africa da sola triplicherà i propri abitanti. Tutti avanzeranno. Tuttavia, nella nostra cara, vecchia Europa, pur con qualche significativa eccezione (Francia e Regno Unito, ad esempio), si assisterà ad un importante calo demografico, segnatamente nei Paesi mediterranei e, fra questi, segnatamente in Italia (un inquietante -30%) e, al suo interno, segnatamente nel Meridione… 
 

Anche dal punto di vista demografico, dunque, si verifica quello che la Svimez stessa ha definito come “doppio divario”: la distanza fra Meridione in difficoltà 

nei confronti del Centro-Nord leva produttiva è diventata 

quella del Paese-Italia nei confronti del resto d’Europa, 

se non del mondo.


Tuttavia questo andamento non è certo consolatorio. Stretto nella morsa asfissiante del combinato disposto di emigrazione, invecchiamento della popolazione (anche lavorativa) e calo della natalità, il Mezzogiorno rischia di implodere.  

 

D’altronde, immaginare di poter imbrigliare al Sud braccia e cervelli alle condizioni date è esercizio di pura fantasia. Anna e i suoi colleghi coetanei ne sono la prova tangibile. Con una spesa della Pubblica Amministrazione in costante decrescita dal 2000 in avanti (con maggiore penalizzazione al Sud: la spesa pubblica attualmente è pari a 14.000 Euro pro-capite per i cittadini centrosettentrionali, di 11.000 Euro per i meridionali);  

con un PIL in calo dello 0,2% al Sud rispetto ad un +0,3% del Centro-Nord nel 2019, che ha portato alla contrazione dei consumi dello 0,5% (come si può, d’altro canto, immaginare di produrre ricchezza se la forza lavoro viene a diminuire e, seppure vi siano indicazioni di una lieve ripresa dell’occupazione, la qualità degli impieghi offerti è scarsa, sia dal punto di vista retributivo che della stabilità?);  

con una persistente divergenza del livello dei servizi al cittadino, che senza ombra di dubbio può indurre a parlare di “diritti erosi-impoveriti-defraudati“ per chi vive al Sud rispetto agli altri;  

con tutto ciò premesso e con tutti gli ulteriori, omessi indicatori socio-economici che non fanno bene all’umore, è impossibile immaginare per il Mezzogiorno d’Italia un futuro diverso dalla desertificazione umana.

E’ necessario “rovesciare il paradigma”, secondo una formula
che a noi di Myrrha piace molto e nella quale ci riconosciamo:

 

non più concentrarsi sull’idea di trattenere, quasi che un territorio, piuttosto che luogo delle opportunità, rappresenti una sorta di prigione dalla quale l’evadere sia l’unico, prevedibile corollario; quanto invece favorirne l’attrattività, stimolare il desiderio non solo di restare per chi vi è nato, ma addirittura di trasferirvisi e scommettere su prospettive di benessere e appagamento futuri per coloro che sono alla ricerca di una soluzione.

Una via d’uscita esiste.

 

Tutte le nefaste previsioni di cui sopra e le tante altre qui non riportate hanno tutte un’appendice: accadrà quanto predetto “a politiche invariate”. Bisogna pertanto invertire la rotta, incidere sulle scelte, essendo chiaro che i meccanismi fin qui individuati si sono rivelati inidonei e non è il caso di nascondere responsabilità che risiedono nel Meridione stesso e nelle amministrazioni locali.  

 

Cosa fare, dunque?

Come suggeriscono esperti di ogni settore disciplinare, non esiste la panacea,


soprattutto considerando quanto sopra detto circa quella sorta di sgocciolamento alla rovescia che sta propagando le difficoltà del Meridione nel resto del Paese e che richiede dunque una risposta unitaria all’insegna della coesione, piuttosto che della spinta autonomistica. Fra i tanti possibili spunti di riflessione, quindi, se ne privilegiano qui un paio. Posto che senza lavoro non c’è speranza e neppure una Repubblica, azzardando una lettura a contrario del dettato costituzionale, si guardi anzitutto al buono che c’è e non lo si lasci al proprio destino, dando piuttosto piena attuazione all’art. 3, secondo comma, della nostra Costituzione. Si guardi a tutte le iniziative imprenditoriali che molti giovani e non solo stanno mettendo in atto per far fruttare idee e territorio (significativo, in questo ambito, il sostegno di Invitalia e del programma Resto al Sud, seguito da altre proposte analoghe da parte di Istituti bancari); oppure si considerino le imprese storiche, nei più disparati settori produttivi, dal tessile all’alimentare, che sono e vogliono restare eccellenze meridionali.

Si mettano anzitutto costoro nelle condizioni di promuovere la circolazione, il movimento, il flusso – secondo uno dei principi-cardine che regola la vita dell’Universo, ben prima della nostra Unione europea

 

– e, conseguentemente, di prendere vantaggio dallo scambio, che sia di merci o di persone o di idee o contenuti, operando finalmente con decisione sul sistema infrastrutturale, non solo stradale, ferroviario, aereo o portuale, quand’anche digitale, che, ancora una volta, penalizza il Sud. In questo senso, senza ripercorrere le annose questioni legate alla classificazione della rete viaria italiana, non si può ignorare l’iniziativa Rientro Strade, con la quale, a seguito del D.P.C.M. 20 febbraio 2018, l’ANAS sta riprendendo sotto la propria gestione 3500 km di strade ex statali e provinciali. Orbene: perché non approfittare di questa occasione per dare un segnale forte al Meridione ed alla sua esigenza di ben collegarsi e collegare, limitandosi invece ad interessare di questo provvedimento solo un 40% del chilometraggio complessivo (circa 1220 km), ripartito nelle 6 Regioni peninsulari meridionali, lasciando invece la parte del leone a 5 Regioni del Centro-Nord? Come se non bastasse, l’Anas “restituisce” alla gestione degli enti territoriali meridionali almeno 350 km di strade (non pervenuta la quota di Abruzzo e Molise, che va quindi sommata a tale cifra – cfr. www.stradeanas.it), mentre ciò non accade per le restanti Regioni (tranne che per l’Umbria, 45 km).

Non si dimentichi che il Sud rappresenta il 40% del territorio italiano 

e non si trascuri l’assoluta necessità di uno sforzo manutentorio significativo 

del sistema stradale secondario, in particolare nel Mezzogiorno.

 

Non va dimenticato, infatti, che un’altra ragione della progressiva perdita di popolazione, con altissima incidenza nelle aree interne – anche in questo ambito i problemi del Meridione sono comuni al resto d’Italia, sebbene lì maggiormente amplificati – risiede nel costante deperimento delle vie di comunicazione extraurbane, una delle più gravi conseguenze della riforma tronca avviata con la legge Delrio, che ha privato le Province delle sostanze per intervenire sui molti chilometri di strade di pertinenza. Il ritrovarsi nella difficoltà di circolare agevolmente per raggiungere i luoghi del produrre ha causato negli anni, e sempre di più provoca, un allontanamento dai centri minori, ove lo spopolamento equivale anche ad abbandono del patrimonio edilizio ed ambientale. Ciò assume valenza ancor più significativa nel caso dei piccoli abitati montani e dei magnifici borghi che punteggiano le pendici delle nostre colline e rilievi. A tal proposito, vale la pena di sottolineare come, in maniera crescente,

questi piccoli agglomerati, nei quali al Sud si concentra l’1,6% 

della popolazione, si stiano organizzando in una sorta 

di “resistenza per la sopravvivenza”

 

facendosi artefici di iniziative occupazionali (come le cooperative di paese) e culturali di tutto rispetto, le quali, con l’intento di valorizzare storia, tradizioni, produzioni agricole, costumi locali, personaggi più o meno noti, sono innesco di un fervore turistico e di attenzioni che, di per se stessi, rinfocolano le esigue economie locali.  

 

Secondo spunto di riflessione:

serve agire sul capitale umano, con un investimento di lungo periodo, 

il cui ritorno si godrà dopo un consistente arco temporale.

 

Serve, cioè, intervenire sul sistema di istruzione e formazione, perché sottovalutare o addirittura ignorare i dati sulla dispersione scolastica al Sud, sulla penuria di servizi offerti in questo settore, sui deludenti risultati delle prove Invalsi significa non avere un progetto di sviluppo che intervenga sulle persone. Non già quando esse abbiano raggiunto l’età da lavoro, bensì in una fase decisamente pregressa, in maniera da ridurre, fra l’altro, l’appeal della malavita su soggetti deboli anche culturalmente e fornendo invece strumenti cognitivi, spirito critico e competenze che stimolino un afflato costruttivo e non autolesionistico, consapevolezza di un patrimonio inestimabile e non atteggiamenti passivi se non addirittura ostili al progresso.  

 

Per concludere. Il problema demografico del Mezzogiorno, conseguenza delle tante storture endogene non sanate nel tempo, è esacerbato dalla crisi economica che ha interrotto una possibile convergenza con la zona geografica più avanzata del Paese, oltreché dalla concomitanza di altri elementi esogeni (si pensi, ad esempio, al grande impatto che nell’Unione europea è stato provocato dall’ingresso di Stati con vaste aree rurali e di povertà, bisognevoli di molto sostegno) che la classe politica, centrale e locale, non è stata così lungimirante da saper governare. Tuttavia, un consolidamento delle politiche occupazionali che tendano all’investimento e non al mero assistenzialismo, seppur imprescindibili, non sono sufficienti per colmare il gap, tornando almeno ai livelli economici pre-crisi. 

Ciò che serve davvero è ricordare che dietro le statistiche, 

i numeri, i bilanci, le previsioni ci sono esseri umani,

 

ci sono le tante Anna e i suoi colleghi che, stretti nel loro giovane bagaglio, guardano ad un futuro altrove con il cuore gonfio di tristezza e negli occhi la sconfitta: la partenza deve diventare una libera scelta e non l’unica via possibile. 

 

 

 

*Articolo aggiornato al 20 novembre 2019 

 

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD di Carmen Lasorella – Numero 15 – Dicembre 2019

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD

 

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Ogni anno, puntuali, arrivano i rapporti. In testa, quello Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno. Sarebbe stato meraviglioso, ma non ci sono state sorprese: il Sud continua inesorabilmente a scivolare verso il fondo di tutte le classifiche. 

E’ quella scena dei cartoons con il pupazzo baffuto, che usa le unghie e i denti, eppure va giù e poi ancora giù, perché la parete è di vetro ed è bagnata di sapone. Magari però si trattasse di vetro e di sapone! Ci sarebbero trasparenza e pulizia…invece sono l’opacità e la sporcizia, che pesano sul futuro del Sud, con la zavorra pesante di un sistema incapace di riconoscerlo – il futuro – già che non si vuole cambiare.

 

Eppure, qualcosa di nuovo nell’edizione 2019 c’è stata. 

 

Anzi, gli aspetti nuovi sono stati due: uno buono ed uno cattivo. Cominciamo dal secondo.  

 

L’Italia non ha più il tumore endemico del Mezzogiorno, o meglio, non ha più solo quello, perché la metastasi si è estesa all’intera nazione. Sul divario Nord/Sud si è innestato il divario Paese/Europa. C’è da stupirsi? Viviamo una crisi, che, almeno sotto il cielo italiano, dura da più di dieci anni.

Una crisi di valori, di principi; una crisi della politica, incapace di rigenerarsi; 

una crisi economica, che ci ha portato alla stagnazione e poi alla povertà; 

una crisi del sistema sociale, che non sa più includere, 

che non affianca, non sostiene. 

 

Una crisi sgarbata e sgrammaticata. C’è da meravigliarsi, sì, perché viene da chiedersi: come mai non è accaduto prima? Come può il corpo di un paese continuare a vivere con una parte malata? Bisogna curare l’intero corpo, in ogni sua parte, per stare bene. E’ logico! Invece, si è generato il paradosso, che perfino dinanzi all’ovvietà e al ragionamento, nell’evidenza dei numeri, dopo i silenzi dei politici per trent’anni e la rassegnazione dei meridionali per molti anni di più,

i sofisticatori seriali hanno perfezionato la materia condita 

con l’odio e la propaganda. 

 

“Il Nord deve stare per suo conto, viva l’autonomia dei ricchi!” “I poveri del Sud non saranno certo tutti ladri e mafiosi, ma sprecano risorse, non ci sanno fare… Brutti e sporchi, come sono, che subiscano il proprio destino, che si accompagnino agli immigrati, esseri inferiori come loro…”  

 

Hanno sparso veleno ai quattro venti, questi untori dei fatti, e

sono riusciti ad intossicare perfino l’anima di tanta brava gente, 

al Nord come al Sud, che ora pensa di vivere bene 

con un pezzo del corpo del Paese,

 

che con un pezzo naturalmente non potrà farcela e dunque rimarrà impotente ai piedi del patibolo dell’Italia tutta, che scivola giù, nonostante le unghie e i denti, come il pupazzo baffuto.  

 

La previsione degli analisti Svimez, sui livelli attuali di occupazione, produttività e saldo migratorio dicono che l’Italia perderà quasi un quarto del suo prodotto interno lordo e il Sud quasi un terzo in meno di 50 anni. Una previsione catastrofica, se non fosse che l’arco temporale di 50 anni di questi tempi è troppo lungo nel conto delle accelerazioni che segnano la nostra epoca. Ma al di là delle verosimiglianze, non possiamo negare le certezze.

Urge ragionare di soluzioni e soprattutto va evitato il rischio di un’Italia 

nelle mani degli untori, allontanando anche quelle dei criminali.


Veniamo alla buona notizia?  

 

Un fattore: facile, duttile, forte, inesauribile, decisivo, a buon prezzo, che potrebbe cambiare le previsioni disastrose appena accennate. 

 

Il fattore D probabilmente non avrà vita facile e incontrerà scetticismi e paranoie, come sempre è avvenuto in passato, ma la Svimez sul punto è tassativa:

a determinare il futuro del Mezzogiorno sarà l’occupazione femminile. 


Usando un felice acronimo, che mi ha suggerito proprio un recente contatto ravvicinato con il Sud, sarà finalmente   

 

“METODO” ovvero MEZZOGIORNO TOCCA alle DONNE.  

 

Non si tratta di rivincite o di battaglie, rievocando stagioni passate, la questione anche in questo caso risponderebbe solo alla logica e all’evidenza. E’ vero o no che il PIL diminuisce quando diminuisce la popolazione e dunque il lavoro che questa produce? E’ vero o no che scende anche quando questo lavoro non è qualificato ed aggiornato sui parametri correnti? Parlando di donne, cosa significa?

Nel Mezzogiorno, le donne dovranno poter sommare 

il proprio lavoro a quello degli uomini. 


Le donne occupate invece sono oggi in media appena il 30%, mentre in Europa quella media supera il 60; sono in troppe a fare il part-time, imposto e non volontario, che ritorna sul 30% del totale con una perdita evidente di potere contrattuale; bassissimo è il tasso di natalità e così l’abbandono del lavoro nel caso di un figlio; il grado d’istruzione rispetto al centro-nord d’Italia ed agli altri paesi UE è in sensibile ritardo. Allora? Se la percentuale di lavoro femminile cominciasse a salire verso il 60%, se ci fossero servizi per le donne (ausili, asili, ecc.) che favorissero la scelta di un figlio, senza abbandonare il lavoro, con un part-time scelto e non subito, se ci fosse la possibilità di studiare di più e meglio, come oramai non solo le più giovani, in maggioranza, vorrebbero poter fare, diventerebbe straordinaria la spinta al rilancio del Sud!  

 

METODO e aggiungerei tenacia, determinazione, organizzazione. Tutte prerogative femminili. E’ giunto dunque il tempo delle donne al Sud ed alle donne toccherà essere sulla scena, finalmente, da protagoniste.

Qualora gli uomini al potere nel Mezzogiorno e nel resto del Paese 

dovessero ostacolare questo percorso, con fermezza, 

vorrà dire che si cambierà il paradigma. 


Il sì deve essere forte e chiaro. Usando le piazze reali e virtuali, con il supporto convergente – almeno una volta – dei mezzi di informazione. Bisognerà dire basta! E bisognerà dirlo da subito. Le donne oramai devono andare avanti, senza ulteriori indugi, senza le donne la rivoluzione non si può fare e nel Mezzogiorno è diventata inevitabile. Serve uno choc! Non bastano più i passi, forse non basteranno neanche i salti. Ma servono fonti di energia nuova e pulita. Non solo in senso metaforico: è diventato indispensabile in termini letterali!

Al fattore D, considerata leva economica, si aggiungeranno allora altri due fattori: 

il Green Deal e l’Innovazione.  


Ovvero bisognerà puntare con decisione sull’opzione Bio: bioeconomia e biotecnologia. 

 

Il rapporto Svimez ci informa che il valore della bioeconomia meridionale si aggira tra i 50 e i 60 miliardi di euro, più o meno un quinto di quella nazionale. Che i modelli aziendali Nord/Sud nel tempo si sono avvicinati, che è aumentata la dimensione e la superficie media delle imprese agricole, che

si sta costruendo – benché a fatica – un modello di bioeconomia circolare, 

capace di coniugare economia, ecologia e società. 

 

In questo modello si è inserita anche la chimica verde e nell’ambito del cluster nazionale è nata SPRING. La  Primavera  ci  sta,  di  sicuro,  ma  SPRING  è  un  acronimo:  Sustainable Process and Resources for Innovation  and National Growth. SPRING  ha  oramai  5  anni  di  vita  ed  è  diventata  un’associazione no profit, che mette insieme imprese, università e fondazioni. 

 

L’obiettivo prioritario è quello di abbattere all’incirca del 50 per cento le emissioni di CO2 entro i prossimi anni e pare che ogni euro investito nel progetto ne stia restituendo 10, oltre ad avere offerto occasioni di lavoro ad almeno 2 milioni di addetti in tutta Italia.

La prossima tappa sarà quella di aumentare in modo sensibile la produzione, così come gli investimenti, e di migliorare il circuito della sostenibilità.


In Italia, e soprattutto nel Sud, infatti, i nuovi progetti incontrano difficoltà a radicarsi nel contesto meridionale, perché non sviluppano la coesione necessaria tra i vari protagonisti sulla scena, che non si cementano guardando agli obbiettivi, ma si frantumano nei litigi. La politica c’entra… e non solo quella.

Ancora più dinamico si presenta il settore bio-tecnologico. 


Nel Mezzogiorno, in meno di 10 anni, le imprese biotech sono cresciute di una volta e mezzo l’incremento rilevato al Centro Italia e il doppio rispetto al Nord. Viaggiavano su una percentuale addirittura del +70% nel 2016, rallentata però negli ultimi anni, nel solco della flessione economica nazionale. Sono biotech verdi, bianche e rosse, come la nostra bandiera. Ovvero studiate e applicate nei settori commerciali e industriali, in quelli della zootecnia e dell’agricoltura, nel campo medico.

 

Le imprese di questo comparto si avviano a rappresentare il 30 % del fatturato biotech generato nel Mezzogiorno, 

 

che ha trovato la sua punta di diamante in Campania, dove si coltivano progetti di ricerca all’Università Federico II di Napoli, nelle Academy finanziate dalle imprese ed anche nella Scuola Superiore Meridionale, sostenuta dallo Stato. E’ un bell’andare. Fa piacere parlarne… tuttavia ci riferiamo ad ambiti di eccellenza limitati. Sono attività che non fanno sistema. Le Reti della conoscenza e del trasferimento tecnologico potranno senz’altro rendere fertile il contesto territoriale, ma prima bisognerà smuovere la terra e dissodarla in profondità, coinvolgendo oltre le braccia, le teste e i cuori. Se serviranno i caterpillar, si useranno i caterpillar e alla guida ci saranno le donne …. una minaccia? Lo è, perché non se ne può fare più a meno. 

 

 

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QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

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QUESTO SUD

 

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“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

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PESCHICI LUOGO CELESTINIANO di Teresa Maria Rauzino – Numero 15 – Dicembre 2019

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PESCHICI  LUOGO  CELESTINIANO 

 

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Silone frusta le gerarchie affermando che l’utopia è il rimorso della Chiesa. 

 

Il potere non è mai salvifico, lo è la rinuncia ad esso, come affermazione di libertà e purezza della coscienza: “Servirsi del potere? Che perniciosa illusione! E’ il potere che si serve di noi”.  

 

Il messaggio siloniano sceglie la spoglia forma teatrale per attingere definitiva efficacia, esprimendo un protagonista con un’idea forte, coscienza che sovrasta la persona. Siamo in un’atmosfera francescana, tra echi gioachimiti; “serpeggia nell’aria l’offesa inferta all’eredità spirituale del poverello d’Assisi”. Si avvertono fermenti di rinnovamento. Pietro Angelerio scende dal regno dell’utopia lungo i sentieri del mondo, un mondo che non conosce, nel quale si muoverà con impaccio. Profetico e ammonitore era stato lacopone da Todi che, mettendolo in guardia dai cardinali, assetati di ricchezze per sé e per il parentato, esprimeva il suo dolore per l’accettazione del pontificato.

 

Celestino V, dopo tante ambasce e interiori tormenti, compie l’estremo atto di rinuncia al pontificato, destinato a rimanere l’unico nella storia bimillenaria della Chiesa. 

 

E. tornato fraticello, amato e seguito dai fedeli, viene braccato e incarcerato. In una buia torre soffoca la sua utopia; ma continuerà a brillare la luce della sua coscienza intollerante del compromesso, che ha additato nel potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso.  

 

Nel dramma di Silone una versione scenica efficace lascia a certi scorci abruzzesi il palpito dell’arte, unito al sentimento della antica terra madre. Un Abruzzo che non ha niente di turistico, di realistico e visibile in senso esteriore, in cui il seme della predicazione di San Francesco è ancora fecondo.

 

Si svolge una lotta impari tra i fraticelli spirituali, perseguitati dalle autorità 

perché chiedono il ritorno al modo di vivere cristiano, alla povertà 

e semplicità evangelica, e le ragioni della Chiesa. 

 

La notizia dell’abdicazione di Celestino V colpì in maniera dirompente proprio i francescani spirituali, provocando un disorientamento profondo che si risolse in un vero e proprio atteggiamento di rivolta. Costoro, che avevano trovato in lui l’appoggio nella lotta contro i conventuali, si trovarono spiazzati dal fatto eccezionale della sua rinuncia. Pietro da Fossombrone (Angelo Clareno) non accettò di rientrare nell’ordine francescano dopo la soppressione, ad opera di Bonifacio VIII, dei Pauperes Heremite Domini Celestini e con un gruppo di confratelli fuggì in Grecia, mentre Ubertino da Casale contestò la liceità dell’abdicazione, considerando la successione di Bonifacio un’usurpazione.

 

La presenza nel Gargano di “fraticelli” spirituali al seguito di Celestino V 

trova un’eco letteraria ne L’Avventura di un povero cristiano di Silone

Sarebbe stimolante vagliarne l’ipotesi storiografica. 

 

Analizziamo ora il testo della scena V del dramma siloniano. L’azione si svolge in una località impervia, raggiungibile solo in barca, tra Peschici a Vieste, sulla costa meridionale del Gargano. La scena rappresenta un’ampia semigrotta, incavata a mezza costa d’un promontorio roccioso, quasi a strapiombo sul mare. Attorno alla grotta crescono piante di fichidindia e qualche olivastro; davanti vi passa un sentiero che si allarga a forma di terrazzino. Alcuni grossi sassi fungono da sedili. Un fontanile è vicino.

 

Il tempo del racconto è un sereno pomeriggio del mese di maggio 1295. 

Sono passati sei mesi dall’abdicazione di papa Celestino e dall’inizio 

della sua fuga per sottrarsi alle ricerche degli agenti di Bonifacio VIII 

e dei loro concorrenti francesi.  

 

Pier Celestino riposa all’interno della grotta illuminata dal sole ponente; è seduto su un pagliericcio, con la schiena e la testa appoggiate alla roccia, gli occhi chiusi. Due giovani frati, per motivi di prudenza, in abiti civili, aspettano che si svegli per comunicargli le ultime novità: il priore di San Giovanni in Piano ha messo a disposizione una barca con un paio di pescatori per andare in Grecia, nell’isola di Acaia (golfo di Corinto), dove ritroveranno gli amici che li hanno preceduti. Aspettano, per partire, che il vento sia favorevole. Fra Tommaso da Sulmona è giù con i pescatori per definire le ultime questioni pratiche.  

 

Presa la decisione dell’esilio, Celestino ne spiega i motivi ai due fraticelli che gli sono rimasti accanto, dopo che gli altri sono stati imprigionati e pochi sono riusciti a riparare in Grecia: “Figli miei; guardate questa terra, queste pietre, il mare, il cielo; riempitevi l’anima di queste immagini; per ripensarle da lontano.

 

Bisogna amare la propria terra, ma, se essa diventa inabitabile per chi vuole conservare la propria dignità, è meglio andarsene. 

 

La nostra giustificazione non é spregevole poiché non ci viene suggerita dalla pigrizia, ma dalla missione che ci rimane.”  

 

Nel successivo dialogo fra Tommaso e Pier Celestino, c’è il riferimento alla località di Peschici, dove da parte di alcuni marinai si “mormorava” sul povero fuggiasco:  

 

Fra Tommaso: “Mi dispiace d’insistere, ma è meglio sbrigarsi: A Peschici qui vicino, si mormora su di voi Uno dei pescatori: che adesso è tornato di lí è stato interrogato da un gendarme.”  

 

Pier Celestino (rompe gli indugi): “Meglio evitare il rischio, partiamo subito.”  

 

L’azione riprende nel medesimo quadro, un mese più tardi. Vari particolari mettono in evidenza che la grotta è abitata e che è trascorso del tempo dalla scena precedente: alla primavera è succeduta l’estate. Sul sentiero che sale dalla costa, appaiono Matteo il tessitore e la figlia Concetta che, banditi dal Morrone per le loro idee religiose, finalmente, dopo innumerevoli disagi di viaggio, via mare hanno raggiunto i fraticelli di Celestino nell’impervia località garganica. All’improvviso arrivano dal sentiero grida di gioia: appaiono correndo fra Gioacchino e fra Clementino. L’incontro è molto affettuoso, con prolungate e ripetute strette di mano.   

 

Riportiamo alcuni stralci del dialogo:  

 

Concetta: “Sappiamo del naufragio. Dunque, vi eravate imbarcati per la Grecia, e il mare vi respinse. Poi?” Gioacchino: “Al ritorno fummo informati che a Peschici, qui vicino, era giunta una missione per catturare Pier Celestino.”  

 

Clementino: “Dovete sapere che ogni suo minimo spostamento veniva seguito e controllato. Era difficile per lui nascondersi Tuttavia le autorità locali non osavano mettergli la mano addosso per non sfidare la collera dei fedeli.”  

 

Gioacchino: “Per ultimo, però, un capitano della dogana delle pecore aveva avvertito i suoi superiori che Pier Celestino si era rifugiato qui nel Gargano. La denunzia arrivò fino al re che, a dire la verità, si preoccupò di togliere alla cattura ogni aspetto odioso. Ne diede l’incarico a un prelato che ha il titolo di patriarca di Gerusalemme e a vari gentiluomini con le loro famiglie. La delegazione doveva presentarsi a lui come per rendergli onore. Ma Pier Celestino rifiutò la finzione e si consegnò prigioniero.”  

 

Concetta: “Perché non fuggì? Perché voi non vi opponeste alla sua resa?”  

 

Clementino: “Discutemmo parecchio con lui. Ma non ci fu verso di persuaderlo ancora una volta alla fuga, benché i nostri amici di qui la presentassero come assai facile…”  

 

(…) Gioacchino: “Appena soli, ci siamo buttati a capofitto nel lavoro da lui indicatoci. Stiamo costituendo qui, nel Gargano, una base di scambi di messaggi e documenti con gli esuli rifugiati in Grecia e coi nostri amici delle varie province. Stiamo cercando di camuffare questa attività sotto apparenze non sospette, mercantili. Vari barcaioli ci aiutano. Il nostro Clementino è appunto tornato ieri dalla Grecia con scritti del Clareno e di Fra Ludovico. Stasera ve ne leggeremo dei brani: sono di una forza spirituale commovente. Abbiamo già cominciato a farne delle copie per gli amici delle province. (A Concetta): Per farli arrivare a destinazione, potreste approfittare dei prossimi grandi pellegrinaggi; ne discuteremo il modo…”

 

Dopo la rinuncia al pontificato, Celestino si era diretto verso il monastero 

di San Giovanni in Piano, presso Apricena, che seguiva il suo ordine religioso. 

Quattro settimane furono necessarie perché il priore gli procurasse 

un imbarco a Rodi Garganico, il porto più vicino. 

 

La costa a quel tempo appariva sufficientemente attiva nel piccolo cabotaggio per il trasporto delle merci, particolarmente derrate cerealicole e sale, dall’interno; scali abbastanza efficienti e attivi erano Rodi, Peschici e Vieste, che non trascuravano un traffico su più vasta scala con i porti dalmati e con Venezia. Il fuggitivo si imbarca per la Grecia, dove probabilmente intende raggiungere la comunità degli spirituali di Clareno, ma la nave naufraga a quindici miglia da Rodi e a cinque miglia da Vieste.  

 

La località dove egli trascorre nove giorni, prima di essere individuato e consegnato agli emissari di Bonifacio VIII, non è stata individuata precisamente dai biografi coevi (Analecta Bollandiana, Vita C). Due storici locali, Giuliani e Aliota, la localizzano rispettivamente nella spiaggia di S. Maria di Merino, presso Vieste e nell’Abbazia benedettina di Santa Maria di Càlena, a Peschici. 

 

Fonti orali , che si riflettono nella toponomastica dei luoghi, riferiscono 

che Celestino V si rifugia in una zona rupestre, la grotta dell’Abate, 

presso la spiaggia di Calalunga, tra Peschici e Vieste, ed è qui 

che sarebbe stato prelevato dal governatore di Vieste. 

 

Giuseppe Martella, appassionato cultore di storia garganica, riporta nei suoi appunti la seguente ipotesi: “…Papa Celestino trovò rifugio in una grotta di Peschici , quella che noi chiamiamo ‘a grott u papa’. Questa si trova nel bosco di pini a ridosso della punta di Calalunga che nella Carta Geografica dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Rizzi e Zannoni del 1806 è detta Cannalunga, forse per la sua forma che si allunga nel mare.” 

Un singolare toponimo ci indica di come sia diffusa l’eco della presenza 

di Celestino V nei luoghi suddetti: l’insenatura da cui si diparte il sentiero 

che conduce al complesso rupestre è denominato in dialetto peschiciano 

u’ lale d’ la Croce ( spiaggetta della Croce).

 

La Croce è tipica della simbologia legata al personaggio: il logo dello stemma celestiniano è una Croce con una S intrecciata, simbolo dello Spirito Santo.   Il sopralluogo nella “Grotta dell’Abate” da parte della dott.ssa Giovanna Pacilio della Sovrintendenza Archeologica di Bari, effettuato una ventina di anni fa per verificare la natura dell’insediamento, non ha dato particolari riscontri. Ma la ricerca continua… 

 

 

Scritta nel 1966-67 da Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano apparve nel marzo del 1968 nella collana “Narratori italiani” di Mondadori, con una dedica emblematica: “la solita storia”. Dopo un silenzio di secoli della letteratura, l’Autore rilegge in chiave evangelica, non difforme dal Petrarca, la storia di Celestino V, simbolo della inconciliabilità della santità con il potere, postulando un cristianesimo “demitizzato”, sciolto dai legami temporali. La Chiesa, incarnata in Bonifacio VIII, diventa l’esatto pendant ideologico del partito politico, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima. 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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