MYRRHA INCONTRA SVIMEZ di Giorgio Salvatori – Numero 15 – Dicembre 2019

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ

 

Giorgio-Salvatori

Cari amici di Myrrha, si cambia. In questo numero i “doni del Sud’’ vengono letti non più, soltanto, estrapolandoli dal loro contesto e messi a fuoco nella loro eccellenza o unicità, ma anche nella cornice, contraddittoria, della storica complessità del Meridione.  

In altre parole ci addentriamo consapevolmente in un’analisi più articolata della realtà del nostro Sud per descriverne anche chiusure corporative e rigidità consolidate. Stiamo parlando di quei comparti immobili, da sempre refrattari ad ogni forma di cambiamento nonché di quelle azioni di contrasto messe in atto da forze storicamente ostili all’evoluzione sociale, economica e culturale delle popolazioni meridionali.

 

In questa nuova prospettiva, Myrrha si apre ad un orizzonte più ampio, 

grazie all’esperienza provvida e illuminante dell’istituzione 

che più e meglio conosce forze e debolezze storiche 

del Meridione: la Svimez,


l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che studia e analizza i dati che caratterizzano il complesso processo delle dinamiche sociali ed economiche del Sud.

 

È, questa, l’occasione per 

riflettere, con severità, su quali e quanti blocchi strutturali rallentino il lungo processo di integrazione e di fusione reale tra Settentrione e Meridione della Penisola,

 

su quanto e come la mafia, le mafie, riescano a distrarre, a proprio vantaggio, risorse vitali e produttive del Sud e del Nord del Paese e, infine, su quanto l’assenza di un’azione forte e costante, da parte delle istituzioni, contribuisca a comprimere il coraggio e le occasionali esplosioni di protesta, di reazione civile, della stragrande maggioranza delle genti meridionali contro i soprusi delle mafie. 

 

Tra questi due poli, non bisogna dimenticarlo, non c’è soltanto la complicità, l’ignavia o il colpevole cinismo di alcuni politici. C’è anche quell’azione mai compiutamente indagata, ma sottilmente nefasta, dispiegata dai rappresentanti di strati consistenti delle amministrazioni centrali e periferiche che, per non perdere i benefici della propria condizione di intermediari di risorse, fondamentali per il progresso di un territorio, restano arroccati nei propri fortilizi burocratici, elargendo servizi come satrapi che abusano quotidianamente dei propri poteri verso cittadini trattati come sudditi.

In queste pagine leggerete interventi di giornalisti, analisti e studiosi del problema meridionale. Cercheranno di far luce sulle cause delle contraddizioni

 

e degli ostacoli che impediscono al Sud di decollare nonostante le grandi potenzialità, le eccellenze, i “doni’’ particolari, la voglia di “volare” (preferibilmente restando nei cieli meridionali) dei maltrattati giovani del Sud.  

 

In questa specifica circostanza, il mosaico meridionale verrà esposto e interpretato alla luce degli ultimi elementi emersi dagli studi degli esperti della Svimez.

Si parte dall’approfondita analisi dello stato generale della situazione meridionale

 

di Giuseppe Soriero, autorevole membro della Presidenza dell’Istituto. Soriero evidenzia i punti fondamentali del divario Nord-Sud in base ai dati aggiornati del rapporto Svimez 2019 e ne mette in risalto due aspetti fondamentali: non si esce dalla crisi meridionale accentuando lo scontro, dialettico e politico, tra gli assertori della “rapina del Nord a danno del Sud” e quelli del “fardello del Sud sulle spalle del Nord’’ e neppure sottovalutando l’arretramento del più opulento Settentrione rispetto ai sorprendenti traguardi del PIL conseguiti da alcuni Paesi europei.

A questa analisi circostanziata si aggiungono anche le vivaci interpretazioni e le “variazioni sul tema” di due firme note di Myrrha:

 

Carmen Lasorella e Roberta Lucchini. Lavorando sui dati Svimez, la prima ci guiderà a conoscere meglio le valenze soffocate del Sud, in primis la compressa risorsa femminile, e lancerà una sfida a chi, nelle istituzioni, sia finalmente in grado di raccoglierla vincendo una colpevole indolenza. La seconda si tufferà nei numeri e nelle analisi evidenziando criticità, punti di forza, possibili vie di uscita dalla paralisi forzata in cui le forze ostili al cambiamento hanno finora ostacolato il pieno sviluppo delle intelligenze e della creatività dei migliori figli del nostro Meridione. Uno stallo che, di fatto, punisce non solo il Sud, ma l’intero Paese e che dovrebbe rafforzare, all’opposto delle logore polemiche nordiste o delle nostalgie neoborboniche, la volontà di chi si batte per consolidare finalmente l’unità nazionale offrendo ad ogni cittadino dello Stivale pari opportunità e occasioni di sviluppo.

Certamente non ci rallegra il raffronto, spietato, tra la supposta qualità della vita, 

nelle varie città italiane, recentemente stilata dal Sole 24 Ore.

 

Una sfilza di primi posti assegnati, da Milano a Como, per ben 40 posizioni, a città del Nord, e una valanga di ultimi posti, salvo pochissime eccezioni, a decine di città meridionali. In questa classifica Napoli risulta ottantunesima, Crotone e Caltanissetta chiudono l’elenco addirittura alla centoseiesima e alla centosettesima posizione. Opinabile o obiettiva che sia, questa classifica suona comunque come una clamorosa batosta mediatica di cui non si può sminuire l’impatto sociale e psicologico che essa dispiega sulle legittime aspettative di riscatto della società civile meridionale.  

 

Non ignorare, non offendersi, non sottovalutare.

Il Sud può e deve reagire, ma le istituzioni non possono restare a guardare né attendere oltre.

 

Non bastano riconoscimenti di merito individuali né, tantomeno, celebrazioni ufficiali e targhe alla memoria. La rinascita della Nazione ha bisogno del concorso operoso e coraggioso di tutti, cittadini e istituzioni, dal Nord al Sud del Paese

Nessuno si illuda. Non abbiamo un’alternativa.
La disfatta del Sud sarebbe la sconfitta di tutti. 

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L’UNICA VIA POSSIBILE? di Roberta Lucchini – Numero 15 – Dicembre 2019

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L’UNICA  VIA POSSIBILE?*

 

La storia di Anna – non di fantasia – è una delle tante, note vicende che affollano sempre più insistentemente le rubriche dei media dedicate al mondo dell’occupazione, in special modo giovanile.  

Nata ad Adelfia, in provincia di Bari, studi classici, poi laurea con il massimo dei voti in discipline economiche, ottima conoscenza della lingua inglese, tanta voglia di affermarsi e far fruttare i sacrifici suoi e dei suoi genitori, Anna, finisce, a 25 anni per rientrare nel novero di quelle 19,6 mila unità che nel 2017 hanno lasciato la Puglia con destinazione Centro-Nord della Penisola. Cifra che è quota parte del bilancio di 110 mila persone le quali, sempre nel 2017, si sono spostate dal Mezzogiorno verso la più prospera e allettante Italia centro-settentrionale. Come ci ricorda puntualmente il rapporto Svimez 2019,

 

nello stesso 2017 si sono cancellate dai Registri anagrafici meridionali

circa 132.000 persone

 

e, a fronte di tutto ciò, il saldo migratorio è rimasto fortemente negativo, sia considerando l’anno in questione (-68.602 unità) che un periodo più lungo, vale a dire un quindicennio (2002-2017, -852.113); ciò soprattutto senza che si sia potuto compensare il forte drenaggio di soggetti giovani e/o con titolo di studio superiore (i laureati, per intenderci) con una immigrazione di qualità equivalente. E’ un trend tristemente noto, sebbene a leggere questi numeri non si smetta di stupirsi, rabbrividendo: 

dall’inizio del nuovo secolo – ci ricorda la Svimez – ben 2 milioni 15 mila residenti hanno lasciato il Mezzogiorno, la metà di questi con età compresa

fra i 15 e i 34 anni, un quinto con titolo di studio superiore.


Una perdita inestimabile di capitale umano, di forza lavoro, di spinta propulsiva che va ad arricchire tessuti socio-economici distanti, senza un effettivo ritorno di natura finanziaria verso i luoghi d’origine. Questo progressivo dissanguamento confluisce ad alimentare la tendenza, anch’essa ormai riconosciuta, tuttavia non per questo meno allarmante, rappresentata dal progressivo spopolamento, sì, delle Regioni meridionali, ma pure dell’intero Paese, secondo una dinamica chiaramente evidenziata negli studi di organismi dal respiro globale: il Dipartimento degli Affari Sociali delle Nazioni Unite, ad esempio, nel suo World Population Prospects 2019, stima che la popolazione a livello mondiale raggiungerà, nel 2100, oltre 10 miliardi di individui. Il trend di crescita è sostenuto in tutti i Continenti, l’Africa da sola triplicherà i propri abitanti. Tutti avanzeranno. Tuttavia, nella nostra cara, vecchia Europa, pur con qualche significativa eccezione (Francia e Regno Unito, ad esempio), si assisterà ad un importante calo demografico, segnatamente nei Paesi mediterranei e, fra questi, segnatamente in Italia (un inquietante -30%) e, al suo interno, segnatamente nel Meridione… 
 

Anche dal punto di vista demografico, dunque, si verifica quello che la Svimez stessa ha definito come “doppio divario”: la distanza fra Meridione in difficoltà 

nei confronti del Centro-Nord leva produttiva è diventata 

quella del Paese-Italia nei confronti del resto d’Europa, 

se non del mondo.


Tuttavia questo andamento non è certo consolatorio. Stretto nella morsa asfissiante del combinato disposto di emigrazione, invecchiamento della popolazione (anche lavorativa) e calo della natalità, il Mezzogiorno rischia di implodere.  

 

D’altronde, immaginare di poter imbrigliare al Sud braccia e cervelli alle condizioni date è esercizio di pura fantasia. Anna e i suoi colleghi coetanei ne sono la prova tangibile. Con una spesa della Pubblica Amministrazione in costante decrescita dal 2000 in avanti (con maggiore penalizzazione al Sud: la spesa pubblica attualmente è pari a 14.000 Euro pro-capite per i cittadini centrosettentrionali, di 11.000 Euro per i meridionali);  

con un PIL in calo dello 0,2% al Sud rispetto ad un +0,3% del Centro-Nord nel 2019, che ha portato alla contrazione dei consumi dello 0,5% (come si può, d’altro canto, immaginare di produrre ricchezza se la forza lavoro viene a diminuire e, seppure vi siano indicazioni di una lieve ripresa dell’occupazione, la qualità degli impieghi offerti è scarsa, sia dal punto di vista retributivo che della stabilità?);  

con una persistente divergenza del livello dei servizi al cittadino, che senza ombra di dubbio può indurre a parlare di “diritti erosi-impoveriti-defraudati“ per chi vive al Sud rispetto agli altri;  

con tutto ciò premesso e con tutti gli ulteriori, omessi indicatori socio-economici che non fanno bene all’umore, è impossibile immaginare per il Mezzogiorno d’Italia un futuro diverso dalla desertificazione umana.

E’ necessario “rovesciare il paradigma”, secondo una formula
che a noi di Myrrha piace molto e nella quale ci riconosciamo:

 

non più concentrarsi sull’idea di trattenere, quasi che un territorio, piuttosto che luogo delle opportunità, rappresenti una sorta di prigione dalla quale l’evadere sia l’unico, prevedibile corollario; quanto invece favorirne l’attrattività, stimolare il desiderio non solo di restare per chi vi è nato, ma addirittura di trasferirvisi e scommettere su prospettive di benessere e appagamento futuri per coloro che sono alla ricerca di una soluzione.

Una via d’uscita esiste.

 

Tutte le nefaste previsioni di cui sopra e le tante altre qui non riportate hanno tutte un’appendice: accadrà quanto predetto “a politiche invariate”. Bisogna pertanto invertire la rotta, incidere sulle scelte, essendo chiaro che i meccanismi fin qui individuati si sono rivelati inidonei e non è il caso di nascondere responsabilità che risiedono nel Meridione stesso e nelle amministrazioni locali.  

 

Cosa fare, dunque?

Come suggeriscono esperti di ogni settore disciplinare, non esiste la panacea,


soprattutto considerando quanto sopra detto circa quella sorta di sgocciolamento alla rovescia che sta propagando le difficoltà del Meridione nel resto del Paese e che richiede dunque una risposta unitaria all’insegna della coesione, piuttosto che della spinta autonomistica. Fra i tanti possibili spunti di riflessione, quindi, se ne privilegiano qui un paio. Posto che senza lavoro non c’è speranza e neppure una Repubblica, azzardando una lettura a contrario del dettato costituzionale, si guardi anzitutto al buono che c’è e non lo si lasci al proprio destino, dando piuttosto piena attuazione all’art. 3, secondo comma, della nostra Costituzione. Si guardi a tutte le iniziative imprenditoriali che molti giovani e non solo stanno mettendo in atto per far fruttare idee e territorio (significativo, in questo ambito, il sostegno di Invitalia e del programma Resto al Sud, seguito da altre proposte analoghe da parte di Istituti bancari); oppure si considerino le imprese storiche, nei più disparati settori produttivi, dal tessile all’alimentare, che sono e vogliono restare eccellenze meridionali.

Si mettano anzitutto costoro nelle condizioni di promuovere la circolazione, il movimento, il flusso – secondo uno dei principi-cardine che regola la vita dell’Universo, ben prima della nostra Unione europea

 

– e, conseguentemente, di prendere vantaggio dallo scambio, che sia di merci o di persone o di idee o contenuti, operando finalmente con decisione sul sistema infrastrutturale, non solo stradale, ferroviario, aereo o portuale, quand’anche digitale, che, ancora una volta, penalizza il Sud. In questo senso, senza ripercorrere le annose questioni legate alla classificazione della rete viaria italiana, non si può ignorare l’iniziativa Rientro Strade, con la quale, a seguito del D.P.C.M. 20 febbraio 2018, l’ANAS sta riprendendo sotto la propria gestione 3500 km di strade ex statali e provinciali. Orbene: perché non approfittare di questa occasione per dare un segnale forte al Meridione ed alla sua esigenza di ben collegarsi e collegare, limitandosi invece ad interessare di questo provvedimento solo un 40% del chilometraggio complessivo (circa 1220 km), ripartito nelle 6 Regioni peninsulari meridionali, lasciando invece la parte del leone a 5 Regioni del Centro-Nord? Come se non bastasse, l’Anas “restituisce” alla gestione degli enti territoriali meridionali almeno 350 km di strade (non pervenuta la quota di Abruzzo e Molise, che va quindi sommata a tale cifra – cfr. www.stradeanas.it), mentre ciò non accade per le restanti Regioni (tranne che per l’Umbria, 45 km).

Non si dimentichi che il Sud rappresenta il 40% del territorio italiano 

e non si trascuri l’assoluta necessità di uno sforzo manutentorio significativo 

del sistema stradale secondario, in particolare nel Mezzogiorno.

 

Non va dimenticato, infatti, che un’altra ragione della progressiva perdita di popolazione, con altissima incidenza nelle aree interne – anche in questo ambito i problemi del Meridione sono comuni al resto d’Italia, sebbene lì maggiormente amplificati – risiede nel costante deperimento delle vie di comunicazione extraurbane, una delle più gravi conseguenze della riforma tronca avviata con la legge Delrio, che ha privato le Province delle sostanze per intervenire sui molti chilometri di strade di pertinenza. Il ritrovarsi nella difficoltà di circolare agevolmente per raggiungere i luoghi del produrre ha causato negli anni, e sempre di più provoca, un allontanamento dai centri minori, ove lo spopolamento equivale anche ad abbandono del patrimonio edilizio ed ambientale. Ciò assume valenza ancor più significativa nel caso dei piccoli abitati montani e dei magnifici borghi che punteggiano le pendici delle nostre colline e rilievi. A tal proposito, vale la pena di sottolineare come, in maniera crescente,

questi piccoli agglomerati, nei quali al Sud si concentra l’1,6% 

della popolazione, si stiano organizzando in una sorta 

di “resistenza per la sopravvivenza”

 

facendosi artefici di iniziative occupazionali (come le cooperative di paese) e culturali di tutto rispetto, le quali, con l’intento di valorizzare storia, tradizioni, produzioni agricole, costumi locali, personaggi più o meno noti, sono innesco di un fervore turistico e di attenzioni che, di per se stessi, rinfocolano le esigue economie locali.  

 

Secondo spunto di riflessione:

serve agire sul capitale umano, con un investimento di lungo periodo, 

il cui ritorno si godrà dopo un consistente arco temporale.

 

Serve, cioè, intervenire sul sistema di istruzione e formazione, perché sottovalutare o addirittura ignorare i dati sulla dispersione scolastica al Sud, sulla penuria di servizi offerti in questo settore, sui deludenti risultati delle prove Invalsi significa non avere un progetto di sviluppo che intervenga sulle persone. Non già quando esse abbiano raggiunto l’età da lavoro, bensì in una fase decisamente pregressa, in maniera da ridurre, fra l’altro, l’appeal della malavita su soggetti deboli anche culturalmente e fornendo invece strumenti cognitivi, spirito critico e competenze che stimolino un afflato costruttivo e non autolesionistico, consapevolezza di un patrimonio inestimabile e non atteggiamenti passivi se non addirittura ostili al progresso.  

 

Per concludere. Il problema demografico del Mezzogiorno, conseguenza delle tante storture endogene non sanate nel tempo, è esacerbato dalla crisi economica che ha interrotto una possibile convergenza con la zona geografica più avanzata del Paese, oltreché dalla concomitanza di altri elementi esogeni (si pensi, ad esempio, al grande impatto che nell’Unione europea è stato provocato dall’ingresso di Stati con vaste aree rurali e di povertà, bisognevoli di molto sostegno) che la classe politica, centrale e locale, non è stata così lungimirante da saper governare. Tuttavia, un consolidamento delle politiche occupazionali che tendano all’investimento e non al mero assistenzialismo, seppur imprescindibili, non sono sufficienti per colmare il gap, tornando almeno ai livelli economici pre-crisi. 

Ciò che serve davvero è ricordare che dietro le statistiche, 

i numeri, i bilanci, le previsioni ci sono esseri umani,

 

ci sono le tante Anna e i suoi colleghi che, stretti nel loro giovane bagaglio, guardano ad un futuro altrove con il cuore gonfio di tristezza e negli occhi la sconfitta: la partenza deve diventare una libera scelta e non l’unica via possibile. 

 

 

 

*Articolo aggiornato al 20 novembre 2019 

 

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD di Carmen Lasorella – Numero 15 – Dicembre 2019

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD

 

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Ogni anno, puntuali, arrivano i rapporti. In testa, quello Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno. Sarebbe stato meraviglioso, ma non ci sono state sorprese: il Sud continua inesorabilmente a scivolare verso il fondo di tutte le classifiche. 

E’ quella scena dei cartoons con il pupazzo baffuto, che usa le unghie e i denti, eppure va giù e poi ancora giù, perché la parete è di vetro ed è bagnata di sapone. Magari però si trattasse di vetro e di sapone! Ci sarebbero trasparenza e pulizia…invece sono l’opacità e la sporcizia, che pesano sul futuro del Sud, con la zavorra pesante di un sistema incapace di riconoscerlo – il futuro – già che non si vuole cambiare.

 

Eppure, qualcosa di nuovo nell’edizione 2019 c’è stata. 

 

Anzi, gli aspetti nuovi sono stati due: uno buono ed uno cattivo. Cominciamo dal secondo.  

 

L’Italia non ha più il tumore endemico del Mezzogiorno, o meglio, non ha più solo quello, perché la metastasi si è estesa all’intera nazione. Sul divario Nord/Sud si è innestato il divario Paese/Europa. C’è da stupirsi? Viviamo una crisi, che, almeno sotto il cielo italiano, dura da più di dieci anni.

Una crisi di valori, di principi; una crisi della politica, incapace di rigenerarsi; 

una crisi economica, che ci ha portato alla stagnazione e poi alla povertà; 

una crisi del sistema sociale, che non sa più includere, 

che non affianca, non sostiene. 

 

Una crisi sgarbata e sgrammaticata. C’è da meravigliarsi, sì, perché viene da chiedersi: come mai non è accaduto prima? Come può il corpo di un paese continuare a vivere con una parte malata? Bisogna curare l’intero corpo, in ogni sua parte, per stare bene. E’ logico! Invece, si è generato il paradosso, che perfino dinanzi all’ovvietà e al ragionamento, nell’evidenza dei numeri, dopo i silenzi dei politici per trent’anni e la rassegnazione dei meridionali per molti anni di più,

i sofisticatori seriali hanno perfezionato la materia condita 

con l’odio e la propaganda. 

 

“Il Nord deve stare per suo conto, viva l’autonomia dei ricchi!” “I poveri del Sud non saranno certo tutti ladri e mafiosi, ma sprecano risorse, non ci sanno fare… Brutti e sporchi, come sono, che subiscano il proprio destino, che si accompagnino agli immigrati, esseri inferiori come loro…”  

 

Hanno sparso veleno ai quattro venti, questi untori dei fatti, e

sono riusciti ad intossicare perfino l’anima di tanta brava gente, 

al Nord come al Sud, che ora pensa di vivere bene 

con un pezzo del corpo del Paese,

 

che con un pezzo naturalmente non potrà farcela e dunque rimarrà impotente ai piedi del patibolo dell’Italia tutta, che scivola giù, nonostante le unghie e i denti, come il pupazzo baffuto.  

 

La previsione degli analisti Svimez, sui livelli attuali di occupazione, produttività e saldo migratorio dicono che l’Italia perderà quasi un quarto del suo prodotto interno lordo e il Sud quasi un terzo in meno di 50 anni. Una previsione catastrofica, se non fosse che l’arco temporale di 50 anni di questi tempi è troppo lungo nel conto delle accelerazioni che segnano la nostra epoca. Ma al di là delle verosimiglianze, non possiamo negare le certezze.

Urge ragionare di soluzioni e soprattutto va evitato il rischio di un’Italia 

nelle mani degli untori, allontanando anche quelle dei criminali.


Veniamo alla buona notizia?  

 

Un fattore: facile, duttile, forte, inesauribile, decisivo, a buon prezzo, che potrebbe cambiare le previsioni disastrose appena accennate. 

 

Il fattore D probabilmente non avrà vita facile e incontrerà scetticismi e paranoie, come sempre è avvenuto in passato, ma la Svimez sul punto è tassativa:

a determinare il futuro del Mezzogiorno sarà l’occupazione femminile. 


Usando un felice acronimo, che mi ha suggerito proprio un recente contatto ravvicinato con il Sud, sarà finalmente   

 

“METODO” ovvero MEZZOGIORNO TOCCA alle DONNE.  

 

Non si tratta di rivincite o di battaglie, rievocando stagioni passate, la questione anche in questo caso risponderebbe solo alla logica e all’evidenza. E’ vero o no che il PIL diminuisce quando diminuisce la popolazione e dunque il lavoro che questa produce? E’ vero o no che scende anche quando questo lavoro non è qualificato ed aggiornato sui parametri correnti? Parlando di donne, cosa significa?

Nel Mezzogiorno, le donne dovranno poter sommare 

il proprio lavoro a quello degli uomini. 


Le donne occupate invece sono oggi in media appena il 30%, mentre in Europa quella media supera il 60; sono in troppe a fare il part-time, imposto e non volontario, che ritorna sul 30% del totale con una perdita evidente di potere contrattuale; bassissimo è il tasso di natalità e così l’abbandono del lavoro nel caso di un figlio; il grado d’istruzione rispetto al centro-nord d’Italia ed agli altri paesi UE è in sensibile ritardo. Allora? Se la percentuale di lavoro femminile cominciasse a salire verso il 60%, se ci fossero servizi per le donne (ausili, asili, ecc.) che favorissero la scelta di un figlio, senza abbandonare il lavoro, con un part-time scelto e non subito, se ci fosse la possibilità di studiare di più e meglio, come oramai non solo le più giovani, in maggioranza, vorrebbero poter fare, diventerebbe straordinaria la spinta al rilancio del Sud!  

 

METODO e aggiungerei tenacia, determinazione, organizzazione. Tutte prerogative femminili. E’ giunto dunque il tempo delle donne al Sud ed alle donne toccherà essere sulla scena, finalmente, da protagoniste.

Qualora gli uomini al potere nel Mezzogiorno e nel resto del Paese 

dovessero ostacolare questo percorso, con fermezza, 

vorrà dire che si cambierà il paradigma. 


Il sì deve essere forte e chiaro. Usando le piazze reali e virtuali, con il supporto convergente – almeno una volta – dei mezzi di informazione. Bisognerà dire basta! E bisognerà dirlo da subito. Le donne oramai devono andare avanti, senza ulteriori indugi, senza le donne la rivoluzione non si può fare e nel Mezzogiorno è diventata inevitabile. Serve uno choc! Non bastano più i passi, forse non basteranno neanche i salti. Ma servono fonti di energia nuova e pulita. Non solo in senso metaforico: è diventato indispensabile in termini letterali!

Al fattore D, considerata leva economica, si aggiungeranno allora altri due fattori: 

il Green Deal e l’Innovazione.  


Ovvero bisognerà puntare con decisione sull’opzione Bio: bioeconomia e biotecnologia. 

 

Il rapporto Svimez ci informa che il valore della bioeconomia meridionale si aggira tra i 50 e i 60 miliardi di euro, più o meno un quinto di quella nazionale. Che i modelli aziendali Nord/Sud nel tempo si sono avvicinati, che è aumentata la dimensione e la superficie media delle imprese agricole, che

si sta costruendo – benché a fatica – un modello di bioeconomia circolare, 

capace di coniugare economia, ecologia e società. 

 

In questo modello si è inserita anche la chimica verde e nell’ambito del cluster nazionale è nata SPRING. La  Primavera  ci  sta,  di  sicuro,  ma  SPRING  è  un  acronimo:  Sustainable Process and Resources for Innovation  and National Growth. SPRING  ha  oramai  5  anni  di  vita  ed  è  diventata  un’associazione no profit, che mette insieme imprese, università e fondazioni. 

 

L’obiettivo prioritario è quello di abbattere all’incirca del 50 per cento le emissioni di CO2 entro i prossimi anni e pare che ogni euro investito nel progetto ne stia restituendo 10, oltre ad avere offerto occasioni di lavoro ad almeno 2 milioni di addetti in tutta Italia.

La prossima tappa sarà quella di aumentare in modo sensibile la produzione, così come gli investimenti, e di migliorare il circuito della sostenibilità.


In Italia, e soprattutto nel Sud, infatti, i nuovi progetti incontrano difficoltà a radicarsi nel contesto meridionale, perché non sviluppano la coesione necessaria tra i vari protagonisti sulla scena, che non si cementano guardando agli obbiettivi, ma si frantumano nei litigi. La politica c’entra… e non solo quella.

Ancora più dinamico si presenta il settore bio-tecnologico. 


Nel Mezzogiorno, in meno di 10 anni, le imprese biotech sono cresciute di una volta e mezzo l’incremento rilevato al Centro Italia e il doppio rispetto al Nord. Viaggiavano su una percentuale addirittura del +70% nel 2016, rallentata però negli ultimi anni, nel solco della flessione economica nazionale. Sono biotech verdi, bianche e rosse, come la nostra bandiera. Ovvero studiate e applicate nei settori commerciali e industriali, in quelli della zootecnia e dell’agricoltura, nel campo medico.

 

Le imprese di questo comparto si avviano a rappresentare il 30 % del fatturato biotech generato nel Mezzogiorno, 

 

che ha trovato la sua punta di diamante in Campania, dove si coltivano progetti di ricerca all’Università Federico II di Napoli, nelle Academy finanziate dalle imprese ed anche nella Scuola Superiore Meridionale, sostenuta dallo Stato. E’ un bell’andare. Fa piacere parlarne… tuttavia ci riferiamo ad ambiti di eccellenza limitati. Sono attività che non fanno sistema. Le Reti della conoscenza e del trasferimento tecnologico potranno senz’altro rendere fertile il contesto territoriale, ma prima bisognerà smuovere la terra e dissodarla in profondità, coinvolgendo oltre le braccia, le teste e i cuori. Se serviranno i caterpillar, si useranno i caterpillar e alla guida ci saranno le donne …. una minaccia? Lo è, perché non se ne può fare più a meno. 

 

 

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QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

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QUESTO SUD

 

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“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

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PESCHICI LUOGO CELESTINIANO di Teresa Maria Rauzino – Numero 15 – Dicembre 2019

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PESCHICI  LUOGO  CELESTINIANO 

 

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Silone frusta le gerarchie affermando che l’utopia è il rimorso della Chiesa. 

 

Il potere non è mai salvifico, lo è la rinuncia ad esso, come affermazione di libertà e purezza della coscienza: “Servirsi del potere? Che perniciosa illusione! E’ il potere che si serve di noi”.  

 

Il messaggio siloniano sceglie la spoglia forma teatrale per attingere definitiva efficacia, esprimendo un protagonista con un’idea forte, coscienza che sovrasta la persona. Siamo in un’atmosfera francescana, tra echi gioachimiti; “serpeggia nell’aria l’offesa inferta all’eredità spirituale del poverello d’Assisi”. Si avvertono fermenti di rinnovamento. Pietro Angelerio scende dal regno dell’utopia lungo i sentieri del mondo, un mondo che non conosce, nel quale si muoverà con impaccio. Profetico e ammonitore era stato lacopone da Todi che, mettendolo in guardia dai cardinali, assetati di ricchezze per sé e per il parentato, esprimeva il suo dolore per l’accettazione del pontificato.

 

Celestino V, dopo tante ambasce e interiori tormenti, compie l’estremo atto di rinuncia al pontificato, destinato a rimanere l’unico nella storia bimillenaria della Chiesa. 

 

E. tornato fraticello, amato e seguito dai fedeli, viene braccato e incarcerato. In una buia torre soffoca la sua utopia; ma continuerà a brillare la luce della sua coscienza intollerante del compromesso, che ha additato nel potere sotteso all’istituzione religiosa il nemico più pericoloso.  

 

Nel dramma di Silone una versione scenica efficace lascia a certi scorci abruzzesi il palpito dell’arte, unito al sentimento della antica terra madre. Un Abruzzo che non ha niente di turistico, di realistico e visibile in senso esteriore, in cui il seme della predicazione di San Francesco è ancora fecondo.

 

Si svolge una lotta impari tra i fraticelli spirituali, perseguitati dalle autorità 

perché chiedono il ritorno al modo di vivere cristiano, alla povertà 

e semplicità evangelica, e le ragioni della Chiesa. 

 

La notizia dell’abdicazione di Celestino V colpì in maniera dirompente proprio i francescani spirituali, provocando un disorientamento profondo che si risolse in un vero e proprio atteggiamento di rivolta. Costoro, che avevano trovato in lui l’appoggio nella lotta contro i conventuali, si trovarono spiazzati dal fatto eccezionale della sua rinuncia. Pietro da Fossombrone (Angelo Clareno) non accettò di rientrare nell’ordine francescano dopo la soppressione, ad opera di Bonifacio VIII, dei Pauperes Heremite Domini Celestini e con un gruppo di confratelli fuggì in Grecia, mentre Ubertino da Casale contestò la liceità dell’abdicazione, considerando la successione di Bonifacio un’usurpazione.

 

La presenza nel Gargano di “fraticelli” spirituali al seguito di Celestino V 

trova un’eco letteraria ne L’Avventura di un povero cristiano di Silone

Sarebbe stimolante vagliarne l’ipotesi storiografica. 

 

Analizziamo ora il testo della scena V del dramma siloniano. L’azione si svolge in una località impervia, raggiungibile solo in barca, tra Peschici a Vieste, sulla costa meridionale del Gargano. La scena rappresenta un’ampia semigrotta, incavata a mezza costa d’un promontorio roccioso, quasi a strapiombo sul mare. Attorno alla grotta crescono piante di fichidindia e qualche olivastro; davanti vi passa un sentiero che si allarga a forma di terrazzino. Alcuni grossi sassi fungono da sedili. Un fontanile è vicino.

 

Il tempo del racconto è un sereno pomeriggio del mese di maggio 1295. 

Sono passati sei mesi dall’abdicazione di papa Celestino e dall’inizio 

della sua fuga per sottrarsi alle ricerche degli agenti di Bonifacio VIII 

e dei loro concorrenti francesi.  

 

Pier Celestino riposa all’interno della grotta illuminata dal sole ponente; è seduto su un pagliericcio, con la schiena e la testa appoggiate alla roccia, gli occhi chiusi. Due giovani frati, per motivi di prudenza, in abiti civili, aspettano che si svegli per comunicargli le ultime novità: il priore di San Giovanni in Piano ha messo a disposizione una barca con un paio di pescatori per andare in Grecia, nell’isola di Acaia (golfo di Corinto), dove ritroveranno gli amici che li hanno preceduti. Aspettano, per partire, che il vento sia favorevole. Fra Tommaso da Sulmona è giù con i pescatori per definire le ultime questioni pratiche.  

 

Presa la decisione dell’esilio, Celestino ne spiega i motivi ai due fraticelli che gli sono rimasti accanto, dopo che gli altri sono stati imprigionati e pochi sono riusciti a riparare in Grecia: “Figli miei; guardate questa terra, queste pietre, il mare, il cielo; riempitevi l’anima di queste immagini; per ripensarle da lontano.

 

Bisogna amare la propria terra, ma, se essa diventa inabitabile per chi vuole conservare la propria dignità, è meglio andarsene. 

 

La nostra giustificazione non é spregevole poiché non ci viene suggerita dalla pigrizia, ma dalla missione che ci rimane.”  

 

Nel successivo dialogo fra Tommaso e Pier Celestino, c’è il riferimento alla località di Peschici, dove da parte di alcuni marinai si “mormorava” sul povero fuggiasco:  

 

Fra Tommaso: “Mi dispiace d’insistere, ma è meglio sbrigarsi: A Peschici qui vicino, si mormora su di voi Uno dei pescatori: che adesso è tornato di lí è stato interrogato da un gendarme.”  

 

Pier Celestino (rompe gli indugi): “Meglio evitare il rischio, partiamo subito.”  

 

L’azione riprende nel medesimo quadro, un mese più tardi. Vari particolari mettono in evidenza che la grotta è abitata e che è trascorso del tempo dalla scena precedente: alla primavera è succeduta l’estate. Sul sentiero che sale dalla costa, appaiono Matteo il tessitore e la figlia Concetta che, banditi dal Morrone per le loro idee religiose, finalmente, dopo innumerevoli disagi di viaggio, via mare hanno raggiunto i fraticelli di Celestino nell’impervia località garganica. All’improvviso arrivano dal sentiero grida di gioia: appaiono correndo fra Gioacchino e fra Clementino. L’incontro è molto affettuoso, con prolungate e ripetute strette di mano.   

 

Riportiamo alcuni stralci del dialogo:  

 

Concetta: “Sappiamo del naufragio. Dunque, vi eravate imbarcati per la Grecia, e il mare vi respinse. Poi?” Gioacchino: “Al ritorno fummo informati che a Peschici, qui vicino, era giunta una missione per catturare Pier Celestino.”  

 

Clementino: “Dovete sapere che ogni suo minimo spostamento veniva seguito e controllato. Era difficile per lui nascondersi Tuttavia le autorità locali non osavano mettergli la mano addosso per non sfidare la collera dei fedeli.”  

 

Gioacchino: “Per ultimo, però, un capitano della dogana delle pecore aveva avvertito i suoi superiori che Pier Celestino si era rifugiato qui nel Gargano. La denunzia arrivò fino al re che, a dire la verità, si preoccupò di togliere alla cattura ogni aspetto odioso. Ne diede l’incarico a un prelato che ha il titolo di patriarca di Gerusalemme e a vari gentiluomini con le loro famiglie. La delegazione doveva presentarsi a lui come per rendergli onore. Ma Pier Celestino rifiutò la finzione e si consegnò prigioniero.”  

 

Concetta: “Perché non fuggì? Perché voi non vi opponeste alla sua resa?”  

 

Clementino: “Discutemmo parecchio con lui. Ma non ci fu verso di persuaderlo ancora una volta alla fuga, benché i nostri amici di qui la presentassero come assai facile…”  

 

(…) Gioacchino: “Appena soli, ci siamo buttati a capofitto nel lavoro da lui indicatoci. Stiamo costituendo qui, nel Gargano, una base di scambi di messaggi e documenti con gli esuli rifugiati in Grecia e coi nostri amici delle varie province. Stiamo cercando di camuffare questa attività sotto apparenze non sospette, mercantili. Vari barcaioli ci aiutano. Il nostro Clementino è appunto tornato ieri dalla Grecia con scritti del Clareno e di Fra Ludovico. Stasera ve ne leggeremo dei brani: sono di una forza spirituale commovente. Abbiamo già cominciato a farne delle copie per gli amici delle province. (A Concetta): Per farli arrivare a destinazione, potreste approfittare dei prossimi grandi pellegrinaggi; ne discuteremo il modo…”

 

Dopo la rinuncia al pontificato, Celestino si era diretto verso il monastero 

di San Giovanni in Piano, presso Apricena, che seguiva il suo ordine religioso. 

Quattro settimane furono necessarie perché il priore gli procurasse 

un imbarco a Rodi Garganico, il porto più vicino. 

 

La costa a quel tempo appariva sufficientemente attiva nel piccolo cabotaggio per il trasporto delle merci, particolarmente derrate cerealicole e sale, dall’interno; scali abbastanza efficienti e attivi erano Rodi, Peschici e Vieste, che non trascuravano un traffico su più vasta scala con i porti dalmati e con Venezia. Il fuggitivo si imbarca per la Grecia, dove probabilmente intende raggiungere la comunità degli spirituali di Clareno, ma la nave naufraga a quindici miglia da Rodi e a cinque miglia da Vieste.  

 

La località dove egli trascorre nove giorni, prima di essere individuato e consegnato agli emissari di Bonifacio VIII, non è stata individuata precisamente dai biografi coevi (Analecta Bollandiana, Vita C). Due storici locali, Giuliani e Aliota, la localizzano rispettivamente nella spiaggia di S. Maria di Merino, presso Vieste e nell’Abbazia benedettina di Santa Maria di Càlena, a Peschici. 

 

Fonti orali , che si riflettono nella toponomastica dei luoghi, riferiscono 

che Celestino V si rifugia in una zona rupestre, la grotta dell’Abate, 

presso la spiaggia di Calalunga, tra Peschici e Vieste, ed è qui 

che sarebbe stato prelevato dal governatore di Vieste. 

 

Giuseppe Martella, appassionato cultore di storia garganica, riporta nei suoi appunti la seguente ipotesi: “…Papa Celestino trovò rifugio in una grotta di Peschici , quella che noi chiamiamo ‘a grott u papa’. Questa si trova nel bosco di pini a ridosso della punta di Calalunga che nella Carta Geografica dell’Atlante Geografico del Regno di Napoli di Rizzi e Zannoni del 1806 è detta Cannalunga, forse per la sua forma che si allunga nel mare.” 

Un singolare toponimo ci indica di come sia diffusa l’eco della presenza 

di Celestino V nei luoghi suddetti: l’insenatura da cui si diparte il sentiero 

che conduce al complesso rupestre è denominato in dialetto peschiciano 

u’ lale d’ la Croce ( spiaggetta della Croce).

 

La Croce è tipica della simbologia legata al personaggio: il logo dello stemma celestiniano è una Croce con una S intrecciata, simbolo dello Spirito Santo.   Il sopralluogo nella “Grotta dell’Abate” da parte della dott.ssa Giovanna Pacilio della Sovrintendenza Archeologica di Bari, effettuato una ventina di anni fa per verificare la natura dell’insediamento, non ha dato particolari riscontri. Ma la ricerca continua… 

 

 

Scritta nel 1966-67 da Ignazio Silone, L’avventura d’un povero cristiano apparve nel marzo del 1968 nella collana “Narratori italiani” di Mondadori, con una dedica emblematica: “la solita storia”. Dopo un silenzio di secoli della letteratura, l’Autore rilegge in chiave evangelica, non difforme dal Petrarca, la storia di Celestino V, simbolo della inconciliabilità della santità con il potere, postulando un cristianesimo “demitizzato”, sciolto dai legami temporali. La Chiesa, incarnata in Bonifacio VIII, diventa l’esatto pendant ideologico del partito politico, che chiede ai suoi seguaci il prezzo altissimo dell’anima. 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte IV di Francesco Avolio – Dicembre 2019

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

 

 Parte IV

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

 Correlato parte III

 

1 – Il lessico siciliano e i dialetti “galloitalici”


Raggiunto il 
Lilibeo, si può forse rimanere sorpresi nel ritrovare, un po’ ovunque in Sicilia, voci assai particolari come agugghia ‘ago’dumani ‘domani’, òrbu ‘cieco’, tuma tumàzzu ‘formaggio’, badagghiari ‘sbadigliare’, maritari ‘sposarsi, prender moglie’, scannari ‘uccidere’, tùnniri ‘tosare’, vùgghiri ‘bollire’ e altre ancora. Queste, infatti, oltre a individuare inattese concordanze con il Nord Italia (cfr., ad esempio, il piemontese tumatüma ‘formaggio’ o il ligure tùndar ‘tosare’), si oppongono con una certa evidenza alle corrispondenti voci calabresi settentrionali (e dell’alto Mezzogiorno) acucraicecàtucasualànźuràacciderecarosàvùlleresicuramente più arcaiche.

Il lessico siciliano (e calabrese meridionale), insomma, ci si mostra non di rado più innovatore e anche meno “tipico” di quello del Mezzogiorno continentale.


Come può spiegarsi una simile situazione? Nella testa di molti di noi, infatti, c’è l’immagine (o, se si vuole, lo stereotipo) di una Sicilia regione isolata e conservatrice. Sfrondando di molto un dibattito scientifico ormai annoso, possiamo dire che anche in questo caso c’entrano – sia pure indirettamente – gli Arabi, i quali, dopo la conquista normanna della Sicilia nell’XI secolo, furono spinti, a più riprese, ad abbandonare l’isola, lasciando dietro di sé ampie zone deserte. Per ripopolarle (e ricristianizzarle) alcuni feudatari, provenienti dal Monferrato ed imparentati con la nuova casa regnante, fecero venire coloni dai propri possedimenti (a quel tempo ritenuti generalmente parte della Lombardia), concedendo loro privilegi ed assegnando terre situate in maggioranza nelle zone più elevate, verdi e salubri dell’isola (le più simili a quelle d’origine).

Questi diedero così vita ad una (per noi, oggi) singolare e sconosciuta emigrazione 

dal Nord al Sud – vera anticipazione dell’unità d’Italia – 

e alla cosiddetta Lombardia siciliana;


i loro discendenti sono ancora lì, ad esempio a Novara di Sicilia e a San Fratello (ME), ad Aidone, Nicosìa, Piazza Armerina e Sperlinga (EN), ed hanno conservato, a volte per quasi 900 anni, lingua, costumi, e perfino specialità delle terre di provenienza. Ma un fatto altrettanto eccezionale è che i paesi citati sono solo, come si dice, la punta dell’iceberg: un tempo, infatti, essi – come dimostrano le ricerche storiche e linguistiche recenti svolte, fra gli altri, da Giovanni Tropea, Salvatore C. Trovato e Giovanni Ruffino – erano molti di più, e ciò spiega come mai il lessico siciliano sia stato profondamente permeato da voci di origine settentrionale, o, come dicono gli studiosi, “galloitalica”. Per dare un’idea più concreta della perdurante somiglianza tra i dialetti “galloitalici” di Sicilia e quelli attuali del Nord Italia, citiamo due versi di una filastrocca nella parlata di San Fratello: “Mi côc mi sti det, cu Maria sovra u pet” (mi corico in questo letto con Maria sopra il petto), in cui si osservano, ad esempio, la caduta sistematica delle vocali atone finali delle parole (tranne –a), la semplificazione delle consonanti intense (entrambi i fenomeni si vedono in det e pet) e il passaggio di -p- a -v- (in sovra), tratti assenti in Sicilia e in tutto il Sud, ma ancora oggi riconoscibilissimi dal Piemonte alla Lombardia e all’Emilia-Romagna (ma in det ‘letto’ troviamo anche una spia del contatto plurisecolare col siciliano, e cioè il passaggio della consonante -l-, originaria o ridotta da un precedente -ll-, fino a -d-; cfr. il siciliano bbèddu ‘bello’).

2 – Le radici della presenza greca in Calabria


Varcato di nuovo lo stretto di Messina, se ci spingiamo dopo Reggio Calabria, dapprima seguendo la litorale jonica verso Sud, e poi inoltrandoci lungo la strada che sale verso Bova superiore,

 

entriamo nella zona dove, come si è già accennato, è ancora parlata 

(ma forse, purtroppo, ancora non per molto) una varietà di greco 

(chiamata, sul posto, grico), e che comprende oggi solo gli isolatissimi 

e in parte abbandonati paesi aspromontani 

di Gallicianò e Chorìo di Roghùdi.  

 

Ancora qualche decennio fa, però, erano di parlata greca anche Bova e Roccaforte del Greco, Condofùri, Amendolèa e Roghùdi (paese evacuato nel 1970 in seguito a continue frane e smottamenti), ancora prima (sec. XIX) Cardeto e Montebello, nel XVIII secolo San Pantaleone, Pentedàttilo (che significa ‘cinque dita’), Bagalàdi, San Lorenzo, nel XVI secolo diversi altri centri posti a Nord dell’Aspromonte (Delianuova, Scido, Sinopoli; cfr. Figura 1), mentre ai tempi del Petrarca l’area grecofona includeva pressoché tutta la Calabria meridionale, fino a Squillace e Catanzaro (il suo maestro di greco, madrelingua, era infatti il monaco Barlaam, nativo di Seminara, RC).  

 

Una tale distribuzione, compatta, e indubbiamente diversa da quella, puntiforme, generata da tutte le immigrazioni tardomedievali e rinascimentali che hanno riguardato il Mezzogiorno (come quella albanese, croata, provenzale ecc.),

è stata uno degli elementi alla base dell’affascinante ipotesi di un collegamento

di questi dialetti ellenici – arcaici, ma privi di precisi riscontri nella 

Grecia continentale e insulare – con il greco 

delle antiche colonie della Magna Grecia


(lingua che, va detto, proprio nella Calabria meridionale si mantenne, a livello popolare, ben oltre l’epoca della conquista romana), ipotesi avanzata e sostenuta per decenni dal grande linguista tedesco Gerhard Rohlfs, con il consenso di quasi tutti i colleghi greci, ma avversato, al tempo stesso, da gran parte degli studiosi italiani, con i quali la polemica fu a tratti molto aspra.

3 – Tra Calabria e Lucania


Continuando a risalire la penisola, arriviamo in vista del massiccio del Pollino, tra Calabria e Lucania. Qui, e per l’esattezza a Mezzogiorno dei fiumi Sauro e Agri, e nella Calabria contigua a Nord del Lao e del Crati, si trovano alcuni fra i dialetti più conservativi del gruppo “meridionale”, dove sono rimasti sedimentati fenomeni rari anche nel resto del mondo neolatino o romanzo (i quali, però, è bene sottolinearlo, non danno luogo a drastiche rotture nei confronti delle parlate circostanti).

Questa zona è nota oggi agli specialisti come “area Lausberg”, dal nome 

dello studioso tedesco, allievo di Rohlfs, che la individuò nel 1939, 

descrivendola a fondo


(cfr. Figura 2). Tra le sue caratteristiche conservative ricordiamo un sistema di vocali accentate ancora molto vicino a quello del latino classico, e con precisi riscontri in Sardegna (filë ‘filo’ < FĪLUM, come nivë ‘neve’ < NĬVEM, stèllë ‘stella’ < STĒLLA, come bbèllë ‘bella’ < BĔLLAM, mòrtë ‘morta’ < MŎRTUAM come sòlë ‘sole’ < SŌLEM, crucë ‘croce’ < CRŬCEM come lunë ‘luna’ < LŪNAM), e il mantenimento delle consonanti finali latine -S e -T in alcuni modi, tempi e voci verbali, grazie allo sviluppo di una vocale finale d’appoggio: ad Aliano (MT) vìdësë ‘vedi’, a Teana (PZ) tènëdë na casë ‘ha una casa’, a Oriolo (CS) u sàpësë? ‘lo sai?’, a Maratea (PZ) tènisi ‘tieni, hai’, mi piàciti ‘mi piace’, cu ccapèrati ‘chi capirebbe’ ecc. La conservazione è tanto più rilevante se si fa caso al fatto che la caduta di -S e -T finali latine è molto ben testimoniata già nel I secolo d. C. proprio nel cuore dell’area meridionale, in numerose scritte e graffiti rinvenibili sui muri di Pompei.

4 – Dove finisce il Sud… verso Nord?


Ma, se continuiamo la nostra risalita, e, superando Napoli e la Campania, ci attestiamo nel Lazio meridionale, possiamo chiederci dove finisca il Mezzogiorno dal punto di vista linguistico. I confini amministrativi, infatti (peraltro in questa zona recenti, non anteriori al 1927; Gaeta e Cassino, oggi località laziali, appartenevano infatti alla Campania), non danno indicazioni chiare, e comunque – come si è già detto – non corrispondono mai, nemmeno altrove, a quelli linguistici.  

 

Nella seconda puntata abbiamo parlato di una fascia che unisce il Circeo, sul Tirreno (LT), alla foce dell’Aso (AP) sull’Adriatico, come limite settentrionale dell’area linguistica “meridionale intermedia” o “alto-meridionale”;

ora possiamo precisare che in realtà tale limite, come del resto altri, 

è solo approssimativo (è in buona sostanza quello della chiara e costante presenza della vocale -ë in posizione finale), essendo parecchi i paesi posti a Nord di esso che rivelano ancora tratti tipici del Mezzogiorno.


Come esempio possiamo prendere il dialetto del comune di Sonnino (LT), situato fra Terracina e Priverno, subito a Nord dello storico confine fra Regno delle Due Sicilie e Stato Pontificio (al quale ultimo apparteneva), che, pur mostrando già una fonetica tipica dell’area “mediana” (cioè quella che si estende a Settentrione dei dialetti “meridionali intermedi”), si presenta al tempo stesso fortemente permeato di meridionalismi al livello lessicale e non solo: accattà ‘comprare’ (nel Lazio prevale crombà), accìte ‘uccidere’ vs. ammazzàfatijà ‘lavorare’ vs. lavorà, ’ncignà ‘cominciare, iniziare (ad es. a tagliare un salame)’ vs. comenzà, e ancora dimméllodiccéllo ‘dimmelo, diglielo’ (nap. rimméllë, ringéllë), me sèndo bbóno ‘mi sento bene’ (nap. më sèntë bbuónë) ecc.

Ma anche se continuiamo verso Nord, i tratti meridionali non ci abbandonano 

del tutto, giungendo anzi in prossimità di uno dei due principali 

“spartiacque” linguistici della penisola: la linea Roma-Ancona.


Questa, come del resto l’altra grande demarcazione dialettale, e cioè la linea La Spezia-Rimini, è formata dal sovrapporsi e intrecciarsi di più “confini linguistici” o isoglosse, cioè da linee tracciate, su di una carta linguistica, unendo tutti i punti che, sulla carta stessa, si trovano all’estremità dell’area di diffusione di un certo fenomeno (fonetico, morfologico, sintattico, lessicale ecc.). Sulla linea Roma-Ancona, confluiscono quindi i limiti settentrionali dei tratti più tipici del Centro-Sud (comuni cioè ai dialetti meridionali e a quelli “mediani”), che a sua volta viene così distinto dall’area linguistica toscana o toscanizzata. Si arrestano qui, infatti, fenomeni importanti che abbiamo già incontrato come la metafonesi, il possessivo enclitico, il betacismo, il genere neutro, e antiche voci latine come femmina per ‘donna’ o frate per ‘fratello’ (cfr. Figura 3).

Ma perché questo confine batte proprio qui, e non altrove?


Possiamo concludere con le parole di uno studioso che si è occupato a fondo della questione: la linea Roma-Ancona è infatti

«un confine linguistico antichissimo, in quanto ricalca ancora abbastanza fedelmente la linea che diversi secoli prima di Cristo divideva nell’Italia preromana i territori 

delle popolazioni di lingua etrusca da quelli dei popoli del gruppo linguistico indoeuropeo, italici (Umbri, Sabini) e latini.


Per quanto concerne la Sabina poi, la bassa valle del Tévere da Amelia e Narni fin verso Farfa e Passo Corese segnò anche, nell’alto Medioevo, il limite occidentale dell’espansione del ducato longobardo di Spoleto.»1  

 

Torniamo, insomma, al punto da cui eravamo partiti: non una “arcaicità” linguistica disarmante e anche inspiegabile, ma, semmai, un sinuoso, seducente “filo della continuità”. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

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RENZO ARBORE E IL SUO SUD PREDILETTO di Gaia Bay Rossi – Numero 15 – Dicembre 2019

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 RENZO ARBORE e il suo sud prediletto 

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nella sua bella casa romana, immersa nel verde, con la vista sulla città e naturalmente piena di oggetti dallo svariato grado di utilità, e poi libri, vinili, fotografie, il tutto condito da un mix di pop e colore. 

Renzo Arbore è un vero, completo, poliedrico artista, termine che, oggi così abusato, appare come una deminutio capitis per un personaggio come lui. E nello stesso tempo è un gran signore, un gentiluomo del Sud, colto, sensibile, aggraziato ed elegante anche nel pensiero e nelle parole, che riporto integralmente così come da lui espresse.

Myrrha, come ha letto, si dedica a dare rilievo a tutto ciò che di bello, 

importante e meritevole di divulgazione viene prodotto nel Mezzogiorno d’Italia. 

In primo luogo lo chiedo a lei, perché è lei stesso un’eccellenza del Sud: 

c’è qualcosa che vorrebbe sottolineare del nostro Sud 

per iniziare questa intervista?  


Beh, se vai sfruculiando un artista, non può non dirti che il Sud – lo dico senza nessun campanilismo – dal punto di vista artistico è forse più produttivo del Nord, ma non solo in Italia. Nel Sud del mondo, aiutati dal sole, c’è una vitalità artistica forse più ampia, più abbondante, non voglio dire migliore, di tutta la restante parte. Pensiamo alla cultura napoletana, alla cultura siciliana, e poi da tutti i punti di vista, anche musicale, umanistico, giuridico, il Sud è veramente un’eccellenza italiana che va fatta conoscere. Tutto questo riconoscendo che il Nord è sicuramente più produttivo dal punto di vista economico e che è molto ospitale nei nostri confronti, perché noi del Sud dobbiamo andare al Nord e far sposare la nostra creatività con l’operosità del Nord. Tutto questo naturalmente ricordando che la Capitale d’Italia è al centro e che ci sono due isole bellissime che sono la Sicilia e la Sardegna.

Con l’Orchestra Italiana ha girato sud e nord non solo dell’Italia ma del mondo.  

 

Devo dire che io ho veramente girato il mondo con la mia Orchestra Italiana, che da 28 anni è diventata l’orchestra stabile più longeva nella storia della musica, e sottolineo “orchestra stabile”. Più lunga, nel jazz, di quella di Duke Ellington che è durata quindici anni. E io con ‘sti napoletani duriamo da 28 anni e siamo andati per il mondo con le canzoni napoletane arrangiate da me.

 

Come Caravaggio, che non era di Napoli ma ha lavorato a lungo a Napoli 

ed è stato determinante per la formazione della pittura napoletana, 

così lei con l’Orchestra Italiana ha in qualche modo consolidato, 

accresciuto e creato una nuova memoria della canzone napoletana 

in Italia e nel mondo.  

 

Ti ringrazio che me lo riconosci, perché c’era un grande equivoco in cui erano caduti persino gli artisti napoletani. Gli artisti napoletani che avevano solo due maître à penser, vendevano la Napoli antichissima popolare e snobbavano la canzone napoletana borghese. C’era un’antipatia da parte di questi due personaggi che non nomino per le canzoni napoletane borghesi, perché queste canzoni bellissime, tranne in pochissimi casi, uno o due, sono state scritte tutte da borghesi, intellettuali finissimi, professori, dirigenti, avvocati e cantavano la Napoli popolare ma erano borghesi, e questo per loro era l’handicap. Così gli artisti napoletani, suggestionati da questi maître à penser così autorevoli, hanno creduto che queste canzoni fossero canzoni del passato. È come credere che la Traviata o la Toccata e fuga di Bach siano pezzi del passato. Non si accorgevano che queste canzoni hanno delle melodie, nelle quali noi italiani, e in particolar modo i napoletani, eccelliamo, che sono le più belle del mondo e le poesie, perché non le chiamiamo soltanto parole, le poesie più belle del mondo. Perché se uno prende Salvatore Di Giacomo, e quindi i grandissimi, come anche Ernesto Murolo, hanno scritto delle liriche meravigliose, sposate a una musica meravigliosa. Io non esito a dire, da colui che ha conosciuto e pratica tutta la musica del mondo, che le canzoni eterne più belle del mondo sono le canzoni napoletane. Poi ci sono le canzoni americane degli anni Trenta, ma sono canzoni molto più commerciali, molto meno profonde, sempre bellissime, Gershwin, Cole Porter; poi ci sono le canzoni brasiliane degli anni Cinquanta, ma quelle popolari forse più importanti dopo le canzoni napoletane sono le canzoni messicane, che tutti ritengono siano cubane o argentine, e invece no, sono messicane. Lì c’è un patrimonio bellissimo, ignorato dalla cultura mondiale, non si sa perché. Come lirica e come melodia le canzoni messicane sono fortissime, però quelle napoletane sono molte, ma molte, ma molte di più.

Le canzoni napoletane parlano spesso di amori tormentati o sofferti. 

 

Sì, è lo stesso soggetto delle canzoni messicane, anche quelle napoletane parlano di amori tormentati, gelosie, morti.

 

Quindi è vero quello che Einstein ha scritto alla figlia e cioè che l’amore
è “la più invisibile e potente delle forze, […] la quintessenza della vita”. 

 

Certo. Queste canzoni parlano d’amore, perché l’amore perbacco è quello lì, meraviglioso, che poi ha mille e mille sentieri. Perché io stesso mi meraviglio, ascoltando le canzoni napoletane antiche, ma non solo le più famose, di come sono andati a scovare certi tic di innamorati, certi momenti, certi vizi. Io ho fatto un film che si chiama Che mi hai portato a fare sopra a Posillipo se non mi vuoi più bene, anche questa è un’intuizione bellissima. Lei lo sta lasciando e lui si lamenta e dice: “Perché mi hai portato in questo posto magico, meraviglioso, degli innamorati, se non mi vuoi più bene”. Ecco, nelle canzoni napoletane ci sono mille di queste idee, anzi di più. Questa è la bellezza di queste canzoni del Sud che adesso sto tentando di far apprezzare dall’Unesco, sperando di farle riconoscere come Patrimonio dell’Umanità. È stata riconosciuta la pizza, che è una cosa straordinaria, spero anche nel valore aggiunto delle canzoni napoletane che sono cantate anche in Cina o in Corea dai loro tenori e soprani, peraltro con accenti meravigliosi. Dovunque sono andato in Cina, ho sempre trovato delle persone a cui ho fatto cantare ‘O sole mio e non puoi immaginare con quanta dedizione ed entusiasmo. Ma poi non solo in Estremo Oriente, anche arabi, tunisini, li ho visti cantare ‘O sole mio. Questa è, non la canzone napoletana più famosa del mondo, ma proprio la canzone più famosa al mondo. Dopo viene Summer Time, e dopo Let it be.

Il suo grande amico Luciano De Crescenzo, da me intervistato qualche anno fa 

per Myrrha, mi raccontò che ‘O sole mio non è stata scritta a Napoli, 

come tutti pensano, ma a Odessa. E questo spiega il perché 

di questa ode al sole, mentre se fosse stata scritta a Napoli, 

dove il sole c’è sempre, non si spiegherebbe. 

 

Sì, ma te lo dico da foggiano, che ha vissuto sette anni a Napoli e ci va spesso: a Napoli loro non capiscono che sono baciati dal sole in quella maniera straordinaria. Napoli è esposta completamente a sud, quindi dal porto, da Castellammare fino al monte di Procida è esposta a sud, così come anche Amalfi e Positano. Quindi il sole quando c’è, quasi sempre, bacia quella città in maniera totale e straordinaria.

A Napoli anche lei è rimasto incantato dal Cristo velato? 

 

È bellissimo. Io ci andavo quando ancora non lo conosceva nessuno. Pensa che mi portò uno studente di medicina. Mi disse: “Devo andare a vedere i due scheletri” (le macchine anatomiche esposte nella cavea sotterranea ndr). Perché in quelli il principe di Sansevero aveva fermato tutto l’impianto circolatorio, non si sa come. Aveva iniettato qualcosa che avrebbe dovuto fermare il sangue e invece era rimasto tutto, c’erano persino i capillari.  Comunque, a Napoli ci sono dei capolavori. Come dice Sgarbi, Napoli è una città che è già cultura. È la verità, Napoli con tutte le dominazioni, con quello che ha avuto, la Napoli sotterranea, è una città che trasuda cultura da tutte le parti e la trasmette. Poi ci sono altre cose meravigliose che i napoletani non sanno e che io individuo da pugliese. A Napoli, siccome non hanno molto il senso pratico come noi pugliesi, o come i romani, i milanesi ecc., fanno anche delle meravigliose cose superflue, inutili. E questo è il segreto della creatività! Perché uno dice: “Io sono appassionato di piante e voglio fare un innesto, voglio fare una cosa particolare”, e da quella semplice azione magari salta fuori una scoperta eccezionale. Non hanno quella cosa tipicamente italiana del “a che serve? Come ci guadagniamo? A chi lo vendiamo?”, loro non partono da questo criterio, ma dalla passione. Ho la passione di dipingere Napoli capovolta? Non venderò mai un quadro, ma lo faccio perché mi piace. Questo è molto singolare e bellissimo.  Ma finiamo di parlare di Napoli se no poi si incavolano i miei amici pugliesi. Anzi, a questo proposito ti racconto una cosa che abbiamo rilevato con il mio amico Lino Banfi, pugliese come me. Noi naturalmente, essendo pugliesi ma innamorati della cultura napoletana come tutti i pugliesi, abbiamo notato una cosa. Banfi, che è curioso, ha detto: “Sai perché i napoletani ridono più di noi? Perché noi pugliesi un po’ invidiamo quelli che stanno meglio di noi”. Noi diciamo: “Oh, guarda che bella moglie che ha il mio amico”, e la guardiamo con invidia, o anche quello che ha la macchina più grande, quello che ha successo ecc. Mentre i napoletani indulgono di più al sorriso perché guardano quelli che stanno peggio di loro. Il napoletano dice: “Meno male che non dormo nell’automobile come questo poveretto”. Hanno questo atteggiamento di essere contenti del loro stato e sono abbastanza soddisfatti rispetto a quelli che stanno peggio di loro. Hanno sempre avuto a che fare con la miseria, con le disgrazie, con le dominazioni, quindi hanno un atteggiamento che la rende una città sorridente, come dico io.

 

Prima di Napoli c’è stata Foggia. 

 

Sì, ho parlato bene di Napoli ma voglio parlare bene anche della mia fucina, Foggia, “reale e preferita dimora di Federico II”. Noi avevamo una proprietà che abbiamo venduto nel dopoguerra, che era proprio la tenuta di caccia di Federico II, in località Cervaro. È una città che non ha grandi vestigia dell’antichità, ma la provincia rispetto alla grande città ti permette di stare per strada e di conoscere tutti: il figlio del ricco, quello che scappa di casa, il delinquente, il poliziotto, il venditore di nocelle, il corteggiatore, la ragazza generosa, tutta una fauna umana. Io poi ho ancora la mia casa in centro, scendo e incontro dei passanti che sono già miei amici, che sono quelli del tennis o quelli con cui ho studiato, mi accodo e si fa la famosa passeggiata per il corso parlando di cose inutili. Che però ti educano, perché incontri quello che ti racconta come si smista la corrispondenza nei vagoni postali delle ferrovie e quell’altro che invece faceva il pilota degli aeroporti militari ad Amendola, il più grande aeroporto militare d’Italia. Insomma, tutte conversazioni interessanti e anche a volte totalmente inutili come quelle del bar notturno, che poi io ho messo anche in Quelli della Notte: “È meglio il mare o la montagna?” Quelle conversazionacce inutili… Così in quegli anni ho conosciuto un campionario umano molto, molto vasto. Dovevo, per sconfiggere la noia, organizzare delle cose culturali, ma anche degli scherzi notturni, quindi una maniera goliardica di passare la sera, perché senza le ragazze che andavano a casa alle otto noi ci ritrovavamo che non sapevamo che fare. Quindi la provincia è diventata una palestra e poi c’era il carattere di noi pugliesi, che abbiamo la grande voglia di sprovincializzarci. Sai, quello che si dice a Bari, “se Parigi avesse lu mare sarebbe una piccola Bari”, è in realtà una spia popolare della nostra voglia di sprovincializzarci. Abbiamo un po’ il complesso di appartenere al profondo Sud, anche se non è poi così profondo come la Sicilia.

Come diceva saggiamente Luciano De Crescenzo, 

“si è sempre meridionali di qualcuno”. 

 

Già. Il pregiudizio che si ha sul Sud in generale è inutile e dannoso. Tu di una persona puoi vederne i difetti e non calcolarne i pregi. Persino di Leonardo da Vinci puoi dire male, puoi dire che non portava a termine le cose, che era vanitoso perché si è autoritratto ecc.

Come vi siete conosciuti e riconosciuti (tra persone fuori del comune ndr

con Luciano De Crescenzo? 

 

Noi ci siamo conosciuti perché avevamo la stessa fidanzatina. Io stavo a Sorrento e avevo ‘sta fidanzatina, Luciano stava a Napoli e aveva ‘sta fidanzatina. La mia fidanzatina diceva: “Vado a Napoli perché sono amica di Luciano De Crescenzo, ingegnere”. Io le chiedevo: “Ma siete fidanzati?” “No”. E la stessa cosa diceva a Luciano su di me. Poi in seguito ci siamo conosciuti, ci siamo confrontati e da lì siamo diventati amici. Naturalmente, siccome era una fidanzatina occasionale estiva, è diventata la prima risata con Luciano, e sul piano della risata ci siamo intesi subito. Noi avevamo una matrice goliardica tutti e due. La goliardia che era ed è considerata una cosa deteriore, perché naturalmente c’è anche una goliardia deteriore, però era una fucina di risate da parte di intellettuali o di futuri intellettuali, che appartenevano tutti all’Unione Goliardica Italiana, pensa a Eugenio Scalfari, Luciano De Crescenzo, Bettino Craxi, Pannella, erano tutti UGI, e tanti altri intellettuali. Erano i ragazzi svegli di quella generazione, prima della mia, che stando all’università aderivano a questo movimento goliardico, per cui mescolavano il basso con l’alto, le leggi della chimica con le parolacce o la religione ecc., ma la matrice era quella ridanciana della goliardia. Questa era la matrice anche per me e Luciano. Poi coincidevano le passioni per la cultura napoletana e per la canzone napoletana che avevo praticato e bazzicato nei sette anni della mia permanenza napoletana. Perché io mi sono laureato in giurisprudenza, ma invece di metterci quattro anni ce ne ho messi sette, perché suonavo anche, frequentavo gli americani, dirigevo il circolo napoletano del jazz, frequentavo Roberto Murolo, Sergio Bruni, tutti i cantanti napoletani, e in più gli studi. Questa cultura con Luciano l’abbiamo condivisa, lui era di una generazione precedente, generazione straordinaria, perché era quella di Raffaele La Capria, di Antonio Ghirelli, di Giorgio Napolitano, di Franco Rosi, grande regista, di Domenico Rea, di Giovanni Ansaldo direttore del “Mattino”. C’era una cultura napoletana meravigliosa, tradizionale, c’era un grande rispetto tra il popolo e la cultura borghese napoletana, che poi è stata cancellata ed equivocata col laurismo. Con Luciano siamo stati amici fino alla fine. È stato sottovalutato dalla critica snob dei “non venditori di libri”, perché Luciano li vendeva. Ha venduto più di venti milioni di libri in tutto il mondo, è lo scrittore che ha venduto più libri al mondo, più di Umberto Eco. E comunque le vendite sono una cosa e il valore un’altra, e Luciano è sicuramente da approfondire. Ora sto rileggendo i suoi libri e ci sono tantissime idee e pensieri profondissimi.

Cosa sta preparando adesso?  

 

Adesso sto preparando due revival, uno con Banfi e Mirabella, un programma pugliese, e poi un programma napoletano ricordando i cento anni dalla nascita di Renato Carosone che ricorrono quest’anno. Speriamo di farlo con Stefano Bollani che è un grandissimo pianista, un’eccellenza italiana anche lui.  Poi mi sto dedicando molto al mio canale: renzoarborechannel.tv dove h24 vengono passate sia cose mie, sia programmi che mi piacciono, che condivido o che sono nelle mie corde: Edith Piaf, Yves Montand, Aretha Franklin, io praticamente faccio il video jockey, mi diverto a mettere dei video che poi servono sia per i millennials, che non li conoscono, ma anche per i nostalgici, Aldo Fabrizi, Lulù, Sandra e Raimondo. Questa è la cosa che più mi affascina, fare il video jockey.

 

Prima mi raccontava una cosa interessantissima sulle origini del jazz. 

 

Sì, ho fatto con Riccardo Di Blasi un programma di un’ora e mezzo per Rai 2 sulle origini siciliane del jazz che vengono sottaciute dagli americani. In realtà, il primo disco nella storia del jazz è stato scritto e composto da un siciliano, Nick La Rocca, trombettista di genitori siciliani, padre di Salaparuta e madre di Poggioreale (entrambe in provincia di Trapani ndr) che, con alcuni altri siciliani trapiantati a New Orleans, fondarono l’Original Dixieland Jass Band (poi trasformato in Jazz) che servì di ispirazione perfino ad Armstrong che lo dice nella sua biografia. Nick La Rocca ha fatto il primo disco nella storia del jazz che si chiama Livery Stable Blues e ha fatto un celeberrimo brano che si chiama Tiger Rag, uno standard che ha fatto il giro del mondo. Ma la verità è che il contributo dei siciliani, così come quello dei neri, dei francesi e dei canadesi che stavano a New Orleans in quel periodo è stato determinante per l’invenzione della musica jazz. A New Orleans c’è un museo italo-americano e c’è anche la più antica gastronomia italiana dove si va a mangiare gli anelletti e le cose siciliane. A New Orleans nel 1835 cominciarono ad arrivare gli italiani perché il governo americano, che aveva comprato la Louisiana dalla Francia, offriva dei terreni gratis a chi era disposto a coltivarli e quindi da Palermo, ma soprattutto dalla zona di Salaparuta, si trasferirono in tanti. Quindi lì c’è una cultura antichissima, perché non erano neanche emigranti, erano coloni. Grazie a questa trasmissione sulle origini siciliane del jazz sono diventato palermitano ad honorem!

Una chicca meridionale per chiudere? 

 

Voglio ricordare che l’America ha avuto i primi italiani amati dagli americani, come Rodolfo Valentino, un attore meraviglioso, che era pugliese di Castellaneta, e un altro pugliese di Foggia, anzi di Cerignola, che è amatissimo dagli americani, che lo fecero sindaco di New York e gli intestarono anche un aeroporto, ora il secondo a New York, che era Fiorello La Guardia. Spero sempre che qualcuno possa decidere di fare una fiction, perché è una storia bellissima, su questo personaggio che fu tanto amato dagli americani.

 

Bene caro Renzo Arbore, ci aspettiamo tante altre belle sorprese da parte sua! 

 

 

Azzurra Primavera
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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA di Fernando Popoli – Numero 15 – Dicembre 2019

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IL MAESTRO DEI MAESTRI EDOARDO SCARPETTA

 

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Da piccolo, preso da un infrenabile desiderio infantile prodomo del suo destino,

costruì un teatrino di legno dove si divertiva a far recitare dei pupi di stoffa 

con la sorellina Gilda, unica spettatrice.


All’età di nove anni il padre, funzionario statale, lo portò al celebre teatro San Carlino dove il grande Antonio Petito, famoso Pulcinella, recitava. La visione di quella maschera brutta, con rughe sulla fronte e sguardo inquietante gli rimase impressa e segnò la sua scelta, ammaliandolo completamente.  

 

All’età di quattordici anni fu scritturato dall’impresario Salvatore Mormone e debuttò al San Carlino nella commedia dialettale Cuntiente e guaje dove recitava in una piccola parte con poche battute. Quello fu l’inizio di una grande ascesa, il pubblico cominciò a notarlo, a seguirlo, ad apprezzare il suo talento dirompente e comunicativo, a punto tale che il grande

 

Antonio Petito, che pure in precedenza non l’aveva preso in considerazione, 

gli affidò la parte di Felice Sciosciammocca

 

(alla lettera: soffia in bocca), che faceva da spalla a Pulcinella, un personaggio divertente, ingenuo e svampito che è rimasto nel teatro napoletano per decenni.  

Petito scrisse alcune commedie su misura per lui Feliciello mariuolo de’ na pizza e Felice Sciosciammocca creduto guaglione ‘e n’anno” ottenendo un grande successo di pubblico che prese in simpatia definitivamente questo giovane attore. 

Scarpetta passò da una compagnia all’altra mietendo sempre unanimi consensi, quando c’era lui i teatri erano pieni.   


Intanto Petito era morto e il San Carlino versava in condizioni critiche, quasi disperate, fu allora che l’attore decise di rilevarlo; lo mise completamente a nuovo e iniziò lì una nuova stagione teatrale aggiornando il repertorio e modificando la sua recitazione ispirandosi ai vaudevilles francesi, rielaborandoli e reinventandoli sempre con il principio che il pubblico voleva ridere, ridere, ridere. 

In breve calcò i palcoscenici di tutti i teatri d’Italia consolidando la sua fama 

e arricchendosi; scrisse altre commedie, tra queste quella più famosa, 

tramandata ai suoi discendenti e a tanti altri attori napoletani: 

Miseria e Nobiltà.


La storia di un giovane nobile innamorato di una ragazza figlia di un cuoco arricchito, amore ostacolato per motivi di classe sociale dai genitori, dove Sosciammocca e un altro spiantato si fingono parenti nobili della ragazza per far superare l’ostacolo, con tutta una serie di situazioni comiche poiché ad un certo punto entrano in scena i veri nobili di quella casata.  

 

Miseria e Nobiltà ebbe un grande successo di pubblico e di critica insieme 

ad altre due commedie di Scarpetta: Nu turco napolitano e O miedeco d’e pazze.


Queste tre commedie furono in seguito portate sullo schermo dal grande Totòche fece di Sciosciammocca una memorabile interpretazione ancora oggi godibilissima da spettatori di tutte le età. Attore e commediografo consacrato, Scarpetta ebbe una vita sentimentale travagliata e

si unì a più donne dalle quali ebbe figli legittimi e figli illegittimi come i tre fratelli 

De Filippo che raccolsero da lui il talento e il fuoco sacro dell’arte teatrale

 

segnando in seguito una pietra miliare nella recitazione del teatro di tutti i tempi.
Nel 1889 ottenne un memorabile successo con 
Na santarella al TeatroSannazzaro di via Chiaia. Tutta Napoli, elegante e mondana, accorse al piccolo teatro, e con gli incassi della commedia l’attore si fece costruire una villa sulla collina del Vomero chiamata Villa la Santarella, dove sulla facciata principale fece scrivere la celebre frase «Qui rido io!», ancora oggi viva nella memoria dei napoletani.  

Ebbe anche una lite giudiziaria per i diritti di una commedia, La figlia di Iorio,con il Vate, Gabriele D’Annunzio, dalla quale però uscì vincitore ma anche amareggiato per l’insuccesso che ebbe la rappresentazione.

Nel 1909 si ritirò dalle scene, stanco e deluso, lasciò in eredità al figlio Vincenzo il personaggio di felice Sciosciammocca e scrisse un saggio sul commediografo Raffaele Viviani. 


Morì nel 1925 all’età di 72 anni e il suo funerale a Napoli fu imponente. Oggi riposa in pace nelle cappelle delle famiglie De Filippo, Scarpetta e Viviani al cimitero di Santa Maria del Pianto a Napoli.  

La sua arte è rimasta ed è spesso ripresa da altri attori napoletani, la sua dinastia si è estinta, dei suoi discendenti non è rimasto più nessuno ma il ricordo di lui è vivo nella memoria di tutti gli amanti del teatro. 

 

il maestro dei maestri del teatro popolare napoletano, il capostipite di una grande famiglia di attori ormai del tutto estinta, padre di Eduardo, Titina e Peppino De Filippo, di Vincenzo Scarpetta, di Eduardo Scarpetta in arte Passarelli, di Pasquale De filippo, e nonno di Luca De Filippo e Mario Scarpetta. 

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CODEX… PATRIMONIO DELL’UMANITA’ di Cecilia Perri – Numero 15 – Dicembre 2019

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CODEX…  PATRIMONIO DELL’UMANITA’ 

 

è un evangeliario greco miniato, uno dei più preziosi esistenti al mondo, che contiene l’intero vangelo di Matteo, quasi tutto quello di Marco, del quale mancano solo i versetti 15-20, e una parte della lettera di Eusebio a Carpiano sulla concordanza dei vangeli stessi.

È costituito da 188 fogli, pari a 376 pagine, di finissima pergamena purpurea e in origine doveva certamente comprendere tutti e quattro i vangeli, in uno o due volumi. La scrittura utilizzata è la maiuscola biblica, il testo è distribuito su due colonne di venti righe ciascuna, di cui le prima tre che costituiscono l’incipit dei vangeli sono scritte con caratteri aurei, mentre le altre in argento.
Il Codex è inoltre

 

arricchito da quindici miniature considerate un assoluto capolavoro dell’arte bizantina

 

Probabilmente le miniature oggi conservate non sono tutte quelle che ornavano e illustravano l’evangelario, ma rappresentano certamente un folto nucleo che comprende rievocazione dei fatti neotestamentari, concepiti allo scopo di servire la liturgia della chiesa greca. Il ciclo miniato di Rossano è considerato più di una narrazione illustrata della vita di Cristo; gli studiosi hanno infatti evidenziato il rapporto con le letture della settimana santa nella chiesa bizantina, tradizione ancora in uso in molte comunità della Calabria, sottolineando come le composizioni attingano spesso da più vangeli contemporaneamente.   

 

Le scene raffigurate in sequenza sono: la resurrezione di Lazzaro; l’ingresso di Gesù in Gerusalemme; la cacciata dei mercanti dal Tempio; la parabola delle dieci Vergini; l’ultima cena e la lavanda dei piedi; la comunione degli apostoli; Cristo nel Getsemani; il frontespizio delle tavole delle concordanze; la lettera di Eusebio a Carpiano; la guarigione del cieco nato; la parabola del buon samaritano; Cristo davanti a Pilato; il pentimento e la morte di Giuda; la scelta tra Cristo e Barabba; il ritratto san Marco con la Sophia.

In dieci delle quindici pagine miniate, al di sotto della scena figurata vi sono le figure 

di quattro profeti che reggono con la mano sinistra un rotolo sul quale 

è una loro profezia, mentre con la destra indicano la scena 

che si svolge in alto, per stabilire la stretta connessione 

tra vecchio e nuovo testamento.

 

Protagonista indiscusso delle miniature è la figura di Cristo, raffigurato secondo l’iconografia bizantina. L’espressività dei personaggi, la resa armonica e moderna del movimento, l’uso dei preziosi colori, sono alcuni degli elementi che rendono davvero unico il ciclo miniato. Ciò che rende ancor più affascinante il Codex è la sua storia, ancora oggi avvolta dal mistero. Il Codex è ricordato per la prima volta a Rossano nel 1831 da Scipione Camporota, canonico della Cattedrale, ed è segnalato poi, fugacemente, nel 1846, dallo scrittore Cesare Malpica in un libro-reportage dal titolo La Toscana, l’Umbria e la Magna Grecia, ma viene presentato per la prima volta all’attenzione della cultura europea ed internazionale nel 1879 dai due studiosi tedeschi, Oskar von Gebhardt e Adolf von Harnach, che pubblicano un testo dal titolo Evangeliorum Codex Graecus Purpureus Rossanensis, battezzando ufficialmente il prezioso manoscritto di Rossano.

Molteplici sono ancora oggi gli aspetti problematici dibattuti dalla critica 

e riguardano la precisa datazione del Codex, 

 

il luogo in cui fu realizzato, i tempi e le modalità del suo arrivo nella città di Rossano. La datazione è circoscritta alla metà del VI secolo, mentre più complessa resta la questione relativa al luogo di realizzazione dell’evangelario: esso fu realizzato in uno scriptorium bizantino dell’Impero Romano d’Oriente, ma le diverse tesi oscillano tra la Siria, l’Egitto, la Palestina o la città Costantinopoli, anche se oggi gli studiosi tendono a riconoscere Antiochia di Siria il luogo più probabile di esecuzione.

Circa la committenza è plausibile pensare che sia stato commissionato 

da una figura proveniente dall’ambiente della corte di Bisanzio,

 

dalla famiglia imperiale o dall’alta aristocrazia di corte, per la preziosità dei materiali di cui si compone – pergamena purpurea, inchiostro d’oro e d’argento – il colore porpora era a quel tempo riservato all’imperatore e ai suoi stretti congiunti. Probabilmente fu portato a Rossano dai monaci iconoduli, intorno alla metà del VII secolo, al tempo delle persecuzioni iconoclaste, ma non è da escludere l’arrivo a Rossano coincidente con la sua elevazione a diocesi nel X secolo, che, tra l’altro, coincide con il periodo di maggior splendore della città. Una tesi più recente afferma come il Codex possa considerarsi un dono della principessa bizantina Teofano, sposa di Ottone II e imperatrice del Sacro Romano Impero, la quale nell’estate del 982 tenne corte in Calabria, proprio nella città che da millenni lo custodisce.   

 

Dal 1952 il Codex è conservato nel Museo Diocesano e del Codex a Rossano, piccolo borgo intriso di cultura bizantina, il primo museo diocesano ad essere istituito in Calabria.

Il prezioso manoscritto, riconosciuto il 9 ottobre del 2015 

quale Bene Patrimonio dell’Umanità

 

da parte dell’Unesco ed inserito nella categoria “Memory of the World”, dopo un attento restauro compiuto dall’ICRCPAL, è dal 3 luglio 2016 conservato e tutelato all’interno di un nuovo percorso museale suddiviso in due sezioni, una interamente dedicata al Codex e l’altra alla collezione museale, studiata al fine di valorizzare al meglio l’intero patrimonio artistico della Diocesi.

Un Museo nuovo, in grado di comunicare l’arte anche in relazione alle esigenze 

del visitatore moderno attraverso soluzioni multimediali, quali totem 

che permettono di sfogliare virtualmente il manoscritto, 

video e monitor touch-screen che consentono 

di compiere un vero e proprio viaggio nella storia 

e nell’arte del territorio diocesano. 

 

Il Museo è gestito dall’associazione “Insieme per Camminare”, nata per volere dell’Arcivescovo Mons. Satriano e composta da giovani con varie professionalità, accomunati da un profondo amore verso il territorio. 

 

 

 

 

 

 

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DICI SIBARI E SEI NELLA MAGNA GRECIA di Michele Minisci – Numero 15 – Ottobre 2019

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DICI SIBARI        E SEI NELLA MAGNA GRECIA 

 

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Sibari-toro cozzante in bronzo originale

oggi frazione del comune di Cassano allo Jonio, in provincia di Cosenza, ieri tra i centri più importanti e floridi della Magna Grecia, fu fondata tra il 720 e il 708 a.C. da un gruppo di Achei provenienti dal Peloponneso.  

In breve tempo, divenne la meta di migranti provenienti 

anche da altre aree dell’Ellade, 

a cominciare dalla città di Trezene, antico centro dell’Argolide orientale. Sull’origine e la fondazione della polis scrissero Aristotele e lo storico Strabone, che ancora costituiscono le fonti principali per gli studi in materia. 

 

Ci si è chiesti, spesso, quali potessero essere state le motivazioni che spinsero quegli uomini e quelle donne a lasciare i propri luoghi natii per approdare in terre sconosciute. Molto probabilmente, alla base della decisione, anche allora, c’erano ragioni di natura economica e sociale.

 

Migrazione economica ante litteram, insomma, che coinvolse, 

nell’arco di più decenni, molte migliaia di persone.

 

Le spedizioni erano precedute, solitamente, da una chiamata pubblica, rivolta a tutti coloro che desiderassero imbarcarsi. Attraverso una serie di proclami, gli abitanti di una città venivano informati delle prossime partenze e chi voleva far parte della spedizione andava a registrarsi, lasciando il proprio nominativo ai magistrati.   

 

Scrive lo storico Strabone:

 

«La città raggiunse anticamente tanta fortuna che esercitò il suo potere 

su quattro popoli vicini; ebbe assoggettate 25 città; inoltre con le sue abitazioni, riempiva tutt’intorno lungo il fiume Crati un cerchio di 50 stadi 

(ogni stadio corrisponde a 178 m)».

 

Un contributo notevole alla crescita ed allo splendore di Sibari lo diede senz’altro il territorio. La vasta pianura, vocata per la coltivazione dei cereali, e le colline circostanti, ambienti ideali per i vigneti; i monti, da cui attingere materie prime, come legno e argento, ma anche prodotti come miele e lana.  

 

La città della dolce vita (Triphè), passata alla storia per gli interminabili banchetti, per il sofisticato e ricco abbigliamento, per i giochi in onore degli Dei, per il “culto della tranquillità”. A proposito di quest’ultima, si narra che a Sibari le case erano coperte da teli per impedire ai raggi del sole di disturbare il dolce sonno degli abitanti e che dentro le mura della città erano vietati lavori rumorosi!  

 

Nondimeno, stando alle cronache dello storico Diodoro Siculo, Sibari fu anche protagonista di un’intelligente politica di integrazione a favore dei migranti, prevalentemente italici. A proposito di integrazione, oggi tanto problematica!  

 

Grazie all’accoglienza ed all’inclusione di un numero molto alto di persone, accrebbe, infatti, la sua forza e la sua capacità di espansione, potendo contare su un esercito molto potente e motivato.

Nel massimo del suo splendore, Sibari arrivò a controllare un territorio 

che si estendeva a sud fino alla foce del fiume Traente, 

al confine con Crotone, e a nord fino alla piana del fiume Sinni

 

Sul versante tirrenico la sua influenza arrivò fino a Temesa e Terina, tra le attuali Amantea e Lamezia Terme. Fu proprio per la sua politica espansionistica, evidentemente, che intorno al 520 a.C. entrò in conflitto con Crotone, città guidata da un forte spirito moralista, sotto l’egida della scuola di Pitagora.

All’origine degli attriti tra i due centri, secondo la tesi prevalente, ci sarebbe 

la cosiddetta “questione tirannica”, ovvero l’evoluzione democratica 

del regime sibarita, ad opera di Telys, l’ultimo tiranno di Sibari, 

e del suo impero. 

 

Telys è stato definito «un tiranno di stampo o estrazione democratica», giunto al potere con una rivolta popolare, dunque in maniera diversa dai dittatori tradizionali, che generalmente conquistavano il potere con un colpo di Stato, appoggiandosi all’esercito.

 

La sua politica fu di scontro totale con il potere oligarchico, tant’è che scacciò 

dalla città 500 ricchi aristocratici, confiscandone i beni,

 

ed avviò una vera e propria rivoluzione sociale su basi anti-plutocratiche. Gli esuli, com’è noto, trovarono rifugio a Crotone e questo costituì il casus belli che fece esplodere il conflitto tra le due città. 

 

La battaglia finale sarebbe avvenuta nel 510 a.C., in un’area compresa tra la città di Lacinia e l’attuale Piana di Sibari, nei pressi del fiume Traente.

Crotone si impose con le sue armate guidate da Milone, 

l’atleta olimpionico plurivittorioso divenuto stratega dell’esercito.

 

La città viene distrutta e cancellata definitivamente con la deviazione del letto del fiume Crati sull’abitato. 

La sconfitta di Sibari fu dovuta senza dubbio ad interventi esterni. In occasione della battaglia, fu chiamato infatti Dorieo, figlio della prima moglie di Anassandrida, re di Sparta, che giunse con le sue truppe su esplicita richiesta d’aiuto di Crotone.

Il sito archeologico di Sibari 

 

Il sito archeologico di Sibari è ubicato sulla costa Ionica della Calabria a breve distanza dalla foce del Fiume Crati.

Questa parte del territorio calabro, nota topograficamente come Sibaritide vide 

il sorgere, lo sviluppo, l’espansione e poi il declino della grande polis di Sibari; 

qui furono impiantati, in epoche successive alla distruzione della città greca, sovrapponendosi in parte alle sue rovine, prima il centro ellenistico di Thurii 

e poi quello romano di Copia.

 

Questa eccezionale stratificazione fa di Sibari uno dei siti più estesi ed importanti del Mediterraneo di età arcaica e classica.   

 

L’area del parco archeologico è divisa in settori, ognuno dei quali è identificato con il nome del cantiere di scavo: Parco del Cavallo, Prolungamento Strada, Casabianca, Stombi. Tutti i settori, tranne quello di Stombi, sono visitabili.

La visita al Parco Archeologico della Sibaritide rappresenta un percorso a ritroso 

nel tempo che dalla tarda antichità e dall’età romana scende 

ai livelli della Sibari arcaica dell’VIII secolo a.C.; 

 

bisogna però tener presente che, tranne poche eccezioni, i livelli più profondi e quindi più antichi non sono visibili e che quanto è in luce rappresenta la fase più recente, cioè quella della città romana di Copia. 

Il Museo 

 

Inaugurato nel 1996, il Museo della Sibaritide ospita interessanti reperti di epoca greca e romana (vasellame, lamine d’oro, sculture e decorazioni in terracotta), ma anche materiali recuperati in tombe indigene dell’età del Ferro e manufatti di provenienza greca, fenicia ed egiziana a testimonianza degli intensi traffici marittimi dell’epoca. Nel 2013 un’alluvione ha coperto di fango larga parte degli scavi, oggi fortunatamente recuperati.

La città di Sibari lascia una traccia importantissima nella Storia 

come una delle più importanti e sfarzose città del mondo occidentale,

il cui periodo storico di oltre duecento anni trascorsi proprio qui, nella nostra Calabria, onorano così questa regione bellissima e sventurata allo stesso tempo.  

 

Recentemente il sito Casa Bianca ha ricevuto dalla Unione Europea un contributo di 500.000 € per ampliare l’accessibilità del sito e i percorsi pedonali – come mi dice la dottoressa Adele Bonofiglio, direttore del Museo Archeologico della Sibaritide, e un altro milione di euro per la predisposizione di nuove vetrine per accogliere altri importanti ritrovamenti oltre all’ormai noto reperto bronzeo del 5° secolo a.C. il Toro cozzante.  

 

 

 

 

 

 

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Credit foto: gentile concessione Direzione Museo e Parco Archeologico di Sibari