ADORNO FILOSOFO DA SIRACUSA A FIRENZE di Aurora Adorno – Numero 16 – Febbraio 2020

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ADORNO  FILOSOFO    DA SIRACUSA A FIRENZE 

 

dalla ricorrenza della morte di mio nonno Francesco Adorno, nato nel ‘21 nella bella Siracusa da sua madre Laura e dal padre Corrado Adorno Avolio, 

erede di un’antica e nobile famiglia, e morto a Firenze il 19 settembre del 2010, dopo pochi mesi dall’aver “dato le dimissioni da tutto ciò che era”, come lui stesso mi disse, con quegli occhi tanto intensi quanto azzurri, da far invidia al cielo.  

 

Quattro mesi dopo, Luciana Bigazzi, sua preziosa moglie, segue l’adorato marito, sua ragione di vita, lasciando nella nostra famiglia un vuoto significativo al quale, forse inconsciamente, ho cercato di dare un senso con la stesura di un libro

 

Francesco Adorno. Un filosofo a Firenze –

 

in cui la mancanza delle nostre chiacchierate, dell’intreccio delle nostre scoperte, dello scambio di pensieri e di stimoli, mi ha spinta a ricercare un dialogo interiore con la mia cara nonna, dando vita alla voce narrante di una biografia, o raccolta di memorie, comunque la si voglia chiamare.  

 

La ricerca della saggezza, della verità intesa non solo come insieme accademico di conoscenze, ma come un valore totale al quale tutti dovremmo aspirare, è il leitmotiv di quella mia piccola opera, ed è anche l’eredità che Luciana e Francesco ci hanno lasciato: saper pensare con la propria testa, rimettere sempre tutto in discussione e saper criticare gli eventi storicamente.  

 

Ho usato i vocaboli che essi usavano, liberato i loro pensieri da minuscoli blocchetti di appunti dalle pagine sbiadite dal tempo,

indagato sulla loro sofferenza, sulla gioia e sul dolore di un amore 

che nasce durante la seconda guerra mondiale,

 

sboccia e diviene un legame unico, speciale, nella cornice di una città d’arte come Firenze, colpita dalle bombe prima, infangata dall’alluvione poi, i ricordi intrisi di un’infanzia vissuta a Siracusa dove Francesco Adorno nasce e si forma come pensatore.  

 

Francesco e Luciana proseguono con forza la loro vita.

Dopo i primi anni passati a Siracusa, dalla quale egli viene significativamente 

colpito e che lascerà in lui un forte fermento creativo, 

Francesco si laurea in un bunker nel ‘44


e negli anni a venire diviene professore, pensatore e scrittore, oltre che il direttore della “Colombaria” (Accademia Toscana di Scienze e Lettere di Firenze) per molti anni. Le lettere e le poesie raccolte nel libro fanno luce sulla sensibilità e la ricerca interiore di quest’uomo che per suo stesso dire custodiva in sé due facce: quella del “poeta” (sul quale la terra d’origine aveva avuto un forte richiamo), sensibile ed esteta, e quella del “freddo pensatore”.  

 

In tutta la sua vita egli ricerca un equilibrio tra queste due differenti facce di una stessa medaglia, nata forse la seconda per proteggere la prima. 

Un carattere duro con chi non lo conosceva abbastanza, quella fede cieca nelle regole e le contraddizioni di un giovane dalle idee marxiste, che ostentava però le sue nobili origini, i dogi a Genova e le forti radici siciliane di cui egli si ricordava sempre e di cui incarnava i colori e i profumi, il carattere fiero.  

 

Dalle rovine greche, il Tempio di Apollo, il Teatro greco che amava ricordare, era nata la passione per quell’antica civiltà costellata da grandi pensatori e da divinità e miti che hanno contribuito a costruire il nostro e il suo pensiero.

Ed ogni volta che in quella terra baciata dal sole egli faceva ritorno, 

ogni volta giunto a Villa San Giovanni egli la vedeva comparire all’orizzonte 

ed esclamava contento come un bambino che ha fatto ritorno a casa: 

“L’isola, l’isola!”. 


Allungava il braccio, la indicava con l’indice e Siracusa gli sorrideva baciata dal sole e dal profumo degli aranci, così poi alla fine della stagione egli la salutava con quel velo di malinconia negli occhi di chi lascia la propria terra e non sa quando vi farà ritorno. 

Ma egli non è solo in questo suo percorso, ha vicino a sé una donna magnifica nella sua semplicità, dotata di spiccata intelligenza e di una genuina saggezza che completano il giovane pensatore. Luciana è stata gli occhi di Francesco quando i suoi non funzionavano più, le sue gambe quando quelle del marito non rispondevano ai comandi del cervello, correggendo lei stessa le bozze, il braccio proteso sempre pronto a sostenerlo quando lui smarrito in “quel mondo delle idee” a lui tanto caro, inciampava e cadeva.  

 

Nonostante le malattie e la fragilità fisica, egli, grazie ad una grande forza d’animo e di carattere tipica delle sue antiche radici sicule, riesce a studiare andando oltre:

si occupa di tradurre le opere dei grandi filosofi greci, quelli che nella sua infanzia 

ha potuto ammirare attraverso i resti custoditi nella bella Sicilia,


si interroga sulla condizione dell’uomo, sul saper pensare e criticare storicamente, sull’ethos e la politeia, prendendo a modello la maieutica di Socrate ed educando, dal verbo educere, cioè tirando fuori dai suoi studenti la loro verità, in quel fare tipico della maieutica socratica che ormai aveva fatta sua. 

Non gli interessava, come lui stesso diceva sempre, “la lezioncina imparata a memoria”, ma il poter constatare nei suoi studenti una capacità dialettica, la sveltezza nel ragionamento.

“Ognuno deve pensare con la propria testa” è uno dei moniti 

che egli ci ha lasciato in eredità 


insieme a quella sete di sapere e di conoscenza di noi stessi e delle cose tutte che hanno segnato la sua vita e quella delle persone a lui vicine.  

 

Nelle lettere degli anni della guerra, nei diari e nelle riflessioni troviamo sin dagli scritti giovanili una struggente propensione verso il mettersi e rimettersi in discussione sempre, ogni giorno, in un continuo divenire.

 

L’incontro e scontro con l’adorata moglie Luciana si combatteva sul campo della ragione:

l’intelligenza colta, raffinata ed esteta di Francesco trovava il suo completamento 

nella mente saggia e brillante della moglie che spesso e volentieri 

lo spronava a ragionare in maniera più semplice e concreta.


In questo rispecchiarsi l’uno nell’altra, nel crescere insieme da quel primo sguardo tra i banchi di un corso di dattilografia, attraverso le lettere scambiate tra il filosofo innamorato e la sua amata durante il tempo di guerra, seguendo i fiumi dell’alluvione fino ad arrivare alla vecchiaia ed infine alla morte, insieme, sempre.  

 

A Luciana ho dedicato il libro, a quella donna riservata ma schietta, dagli occhi color nocciola che sempre lasciavano intravedere la verità, a una giovane donna che voleva lavorare, ma alla quale non è stato concesso, poiché ai tempi “non stava bene”, e che per cercare lo scopo di tutta la sua vita si dedica al marito e al volontariato. 

Non è solo la spalla del lavoro mentale e di studioso del marito, ma ne è lo stimolante artefice, arrivando lei dove lui non arrivava e viceversa, correggendo e rileggendo insieme ogni parola, verso per verso, opera per opera. 

Lasciamoci ispirare dalle grandi biografie di uomini che mossi da alti ideali hanno fatto la storia della nostra cultura, dall’amore vero che arriva là dove ogni uomo da solo non riesce ad arrivare: oltre la vita e la morte, oltre il dolore e la sofferenza.

Francesco Adorno ha apportato il suo significativo contributo
come promotore e organizzatore di cultura: 


negli anni ‘50 ha collaborato con la Nazione, con il Museo e Istituto Fiorentino di Preistoria, con l’Ente Cassa di Risparmio, la Società Toscana per la Storia del Risorgimento, ha diretto il Dipartimento di Filosofia d’Ateneo, l’Accademia delle Arti del Disegno e, oltre che a Firenze, ha dato il suo contributo all’Unione Accademica Nazionale e all’Istituto per il Lessico Intellettuale Europeo, portando la sua competenza nei centri di cultura internazionali.  

 

Tra le tante opere e traduzioni, ricordiamo il celebre manuale di storia della filosofia redatto con Tullio Gregory e Valerio Verra per la casa editrice Laterza nel 1973, sul quale tanti di noi si sono formati durante gli anni del liceo e dell’università

Conoscere la vita dei grandi uomini significa conoscere le origini del pensiero 

di questa nostra bella Italia, 


significa guardare per le strade e saper immaginare una cartolina in bianco e in nero con le immagini del passato, quel passato che ci ha resi così come siamo divenuti e al quale dovremmo ogni tanto fermarci a guardare, prendendo esempio e spunto da chi, durante tutta la sua vita, si è occupato del significato delle cose e si è interrogato sul perché ed il percome di questa grande avventura chiamata esistenza.  

 

 

 

 

 

  

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NAPOLI MON AMOUR di Giuditta Casale – Numero 16 – Febbraio 2020

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NAPOLI  MON AMOUR

 

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“È con sincera convinzione che diamo ad Alessio Forgione il benvenuto nella categoria dei veri scrittori”, 

lo afferma Ernesto Ferrero, come si legge sul retro della bellissima copertina del secondo romanzo, Giovanissimi, per la collana La Stagione della casa editrice milanese NN Editore, la stessa con cui lo scrittore napoletano ha esordito nel 2018 con Napoli mon amour, che nel frattempo è diventato anche un progetto teatrale per il Teatro Mercadante di Napoli con la regia di Rosario Sparno, oltre ad aver vinto il Premio Berto 2019.

 

C’è una stretta, e nello stesso tempo originale, continuità e contiguità tra i due romanzi, soprattutto attraverso i rispettivi protagonisti: il trentenne, precario e asfittico, Amoresano, e l’adolescente e acerbo Marocco.  

 

Già in Napoli mon amour Marocco gioca un ruolo da comparsa come ricorda Forgione:  

 

c’è un rapporto evidente tra Amoresano e Marocco, descritto in “Napoli mon amour” stesso, di cui Marocco è un personaggio, nella prima parte, che entra in un bar e dice delle cose riguardo la situazione del Napoli e Amoresano è insofferente, perché le reputa delle sciocchezze. Poi Marocco scompare, Amoresano va avanti e scompare anche lui e torna Marocco, che diventa il protagonista di “Giovanissimi”.

 

Ma ancora più interessante è il dettaglio che Forgione aggiunge:   

 

in “Napoli mon amour” Amoresano parla di un racconto che ha scritto e in cui ci sono due ragazzini che spacciano. E se quel racconto fosse diventato un romanzo? L’autore di “Giovanissimi” è Amoresano?

 

E se provassimo davvero a considerare il protagonista di Napoli mon amour 

come l’autore di Giovanissimi, al posto di Alessio Forgione?    

 

Non solo si potrebbe crederlo, ma è affascinante l’idea di leggere Giovanissimi come il romanzo, finalmente pubblicato, di Amoresano, sollecitato a scrivere in Napoli mon amour dal suo idolo letterario: La Capria, che fortunosamente incontra in uno dei passi più memorabili del romanzo.   

 

«Mi disse che i miei racconti gli erano piaciuti moltissimo.» 

«Lei ha stile, Amoresano» continuò «e, cosa ancora più rara, lei possiede una voce. Un buon narratore, cos’altro è se non una voce che ti sussurra all’orecchio? E lei quella cosa ce l’ha».  

 

Il limite che La Capria riscontra nella scrittura di Amoresano è la mancanza di contemplazione, perché rimprovera al giovane di essere troppo immerso nella storia. Amoresano tenta una giustificazione: come scrittore di “persone povere” (e in Giovanissimi ritorna l’attenzione alle fasce più disagiate, non solo in termini economici ma anche sentimentali e sociali) l’immersione potrebbe essere una cifra stilistica per rendere la scrittura più credibile. Sulla questione, però, La Capria è irremovibile: «Non penso, Amoresano. Vede, la buona narrazione è fatta tutta alla stessa maniera».  

 

In Giovanissimi, Alessio Forgione (forse proprio perché nella voce di Amoresano?) riesce a trovare un equilibrio perfetto e suggestivo tra l’immersione nella storia, già presente in Napoli mon amour, e “la visione aerea” suggerita da La Capria ad Amoresano, la capacità sorprendente di «innalzarsi sulla storia. Come se ci volasse sopra», nonostante la narrazione in prima persona del protagonista.

 

Un altro forte elemento di unione tra i due romanzi è il quartiere napoletano 

in cui entrambi sono ambientati: Soccavo. 

 

Un elemento di continuità non solo voluto, ma studiato anche nelle differenze stilistiche con cui è trattato.  

 

In Napoli mon amour il quartiere appare poco, – evidenzia Forgione – in Giovanissimi è a tutti gli effetti un personaggio; uno dei più importanti a dire il vero. Ricordo una mail che scambiai con Eugenia Dubini, ch’è l’editore e anche la persona che mi accende la luce e mi consente di guardare alle cose che faccio con più chiarezza. Lavoravamo alla revisione di Napoli mon amour ed Eugenia mi disse che c’era poco del quartiere, che appariva sfocato e che non si capiva bene che funzione avesse e perché nominarlo se poi non ne parli davvero. Le risposi che nel prossimo libro, ovvero Giovanissimi, avrei chiarito la faccenda del quartiere, che non potevo toglierlo e doveva fidarsi.

Che la presenza così viva del quartiere sia dovuta allo sguardo “aereo” 

di Amoresano, che scrive del giovane Marocco? 

 

È ad Amoresano, che vive a Soccavo come Marocco, che Alessio Forgione ha affidato la descrizione del quartiere, che invece in Napoli mon amour era rimasto volutamente sottotraccia, perché Amoresano ne era il protagonista e non l’autore?  

 

Nella rappresentazione della città di Napoli attraverso Soccavo, Alessio Forgione dimostra la raggiunta maturità di sguardo, consapevolezza letteraria e voce stilistica. Un passaggio necessario e voluto, un rimando e un superamento che unisce strettamente l’esordio alla seconda prova.

Ad unire, ancora, i due romanzi, c’è l’amore e la donna: Nina per Amoresano, 

Serena per Marocco. La forza salvifica e l’emozione di sentirsi vivi e trasformarsi 

in esseri desideranti, mentre la vita con le sue angustie 

vuole soffocare ciò che si vorrebbe essere. 

 

Nell’amore entrambi i personaggi provano a trovare sé stessi, a dare un senso a ciò che vivono, a lasciare una traccia. Napoli mon amour e Giovanissimi potrebbero dunque essere due capitoli, di certo indipendenti ma che letti in successione si illuminano e riverberano l’uno nell’altro, riuscendo a spiegare con forte immediatezza e senza edulcorazioni ciò che siamo a trent’anni oggi e ciò che siamo stati “per la prima volta” a quattordici.  

 

Un romanzo di formazione il primo, dalla parte dei trentenni che si scontrano con la realtà liquida e flessibile dei nostri tempi; e un romanzo di formazione il secondo, che ci riporta al passato, per rintracciare dei fili, introspettivi ed emotivi questa volta, che si tendono verso il futuro.

Ancora più affascinante pensare che Alessio Forgione nel dipanare questi fili da Napoli mon amour a Giovanissimi abbia voluto sperimentare la sua voce 

nel raccontare di Amoresano, e quella di Amoresano nel raccontare di Marocco.

 

In questo gioco raffinato di specchi letterari, potremmo persino credere che Amoresano sia l’alter ego di Forgione, come Marocco di Amoresano, e che tutti e tre in questo preciso momento se ne stiano in un bar con una birra ghiacciata in mano a discutere del Napoli e della tattica di gioco.  

 

«Dicono che i napoletani parlino al passato remoto, ma è un’idea sbagliata» le dissi […] «secondo me è più che vedono il futuro, il presente e il passato come un’unica striscia dritta, come se esistessero tutti nello stesso istante e quindi sapessero che niente potrà mai davvero cambiare». 

 

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SAPERI SCIENTIFICI NEL MEZZOGIORNO PREUNITARIO di Tommaso Russo – Numero 16 – Febbraio 2020

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SAPERI SCIENTIFICI NEL MEZZOGIORNO PREUNITARIO 

 

Premessa 

 

La pubblicazione di un libro di Maurizio Lupo (vd. bibliografia) costituisce motivo per un sintetico excursus nella trama culturale del Mezzogiorno preunitario.  

È un viaggio che si sviluppa su direttrici poco frequentate 

dal gran tour storico-ricostruttivo, diaristico e narrativo. 

 

Si va dalla cattedra di economia politica al laboratorio delle Società economiche. 

Si prosegue dalle rotte di “Ponti e Strade”, alle scoperte scientifiche applicate al sistema produttivo.

 

Non trascurando medicina e scienze naturali

 

si può vedere come la loro evoluzione fosse finalizzata a conoscere l’uomo e la natura nella veste della guarigione per il primo, del rigore classificatorio per la seconda.  

 

Questa nota deliberatamente non intende esaurire tutte le sedi organizzative e gli ambiti disciplinari in cui lievitò la cultura scientifica meridionale per evidenti ragioni divulgative e di spazio.

 

La “sì grande, e sì studiosa gioventù del Regno” 

 

Una vulgata molto diffusa attribuisce a Benedetto Croce la responsabilità di aver operato una profonda frattura tra saperi scientifici e saperi umanistici. Senza entrare nel merito di questa antinomia, presunta o reale e della sua maggiore o minore paternità crociana, l’esito è stato quello di aver reso quasi invisibile, a gran parte dell’opinione pubblica, l’universo dei saperi scientifici, le strutture in cui si organizzarono e vennero elaborandosi. In molti, infatti, hanno ritenuto e ritengono il Mezzogiorno la culla solo dei saperi umanistici e giuridici.

 

Il 16 marzo 1754 Bartolomeo Intieri, con 7500 ducati e una rendita di 300 ducati, finanziava l’apertura “nella nostra università [di] una scuola di commercio 

e di meccanica, da insegnarsi in lingua italiana”.

 

L’ateneo napoletano istituiva così, primo in Italia, una cattedra di economia politica affidandone l’insegnamento, per volontà del suo benefattore, ad Antonio Genovesi (1713-1769). L’asse centrale della riflessione laica dell’abate salernitano faceva ruotare intorno a sé alcuni concetti fondamentali: la critica alla separazione tra lavoro intellettuale e lavoro manuale; l’apprezzamento per un sapere pratico, tecnico, scientifico utile a superare le arretratezze nel Regno. Scritto nel “domicilio delle Muse”, la splendida villa di Intieri a Massa Equana,

nell’autunno del 1753 esce il “Discorso sopra il vero fine 

delle lettere e delle scienze”.

 

Un libricino aureo ma bisognoso di un interprete per decodificare un periodare lungo e contorto. In esso Genovesi individua tre mezzi per superare i limiti della produttività in agricoltura: motivare, premiare, incentivare (con interventi fiscali e pubblici) i proprietari; coinvolgere i sacerdoti come veicoli di consenso e conoscitori delle realtà locali.

 

Infine, investire sulla “sì grande, e sì studiosa gioventù del Regno” concepita quale grande speranza e profonda frattura generazionale necessaria 

a svecchiare antiche consuetudini e inveterate pratiche di lavoro. 

 

Molta parte dell’eredità del pensiero economico genovesiano la si ritrova filtrata nelle attività delle Società economiche. Distribuite nei capoluoghi di provincia, esse videro la luce nel luglio 1812: nel cuore del Decennio francese. Loro scopo principale era la modernizzazione in agricoltura da conseguire attraverso sperimentazioni e istruzione agraria, diffusione di testi e stimoli alla competizione. Erano composte da soci ordinari preposti alla programmazione, da soci onorari, soci corrispondenti. Questi costituivano la vera armatura delle Società, l’anello più solido della catena centro-periferia. Di quest’ultima, infatti, ne conoscevano il territorio in tutte le sue sfumature climatiche, geomorfologiche e produttive. Di conseguenza le loro memorie, corrispondenze e atti contenevano sempre concrete proposte, per esempio, sui prati artificiali, sui criteri della rotazione, sulle marcite, sulla fienagione. A Picerno la famiglia Gaimari, nei suoi possedimenti, tentò la coltura del riso e della barbabietola da zucchero sebbene con risultati deludenti.

Le Società sostennero la pubblicazione di proprie riviste a carattere divulgativo. 

 

Negli edifici dove erano allocate impiantarono biblioteche specifiche e aggiornate. A Potenza, in località Santa Maria, la Società costruì una piscina per uso irriguo. L’edificio dove i soci si riunivano per discutere, leggere, commentare ben presto divenne un piccolo luogo della civiltà delle buone maniere.  

 

Negli anni ’50 dell’800 la dinastia si impegnò nella realizzazione di un podere modello con un palmento, un apiario, macchine moderne per lavorare la terra, sementi, aiuti tecnico-pratici agli agricoltori e prestiti con la Cassa di Prestanza. Nasceva il famoso istituto agrario di Melfi nel 1853 che, con alterne vicende, si è trasformato nell’odierno ITCG. Altri tentativi della dinastia di prosciugare le zone paludose e malariche non ebbero esiti felici a causa delle ridotte risorse economiche investite nei progetti. Le difficoltà a cui andò incontro la bonifica del Fucino ne sono prova evidente.

Il governo dello Stato unitario, con proprio decreto del dicembre 1866, liquidò quell’esperienza con tutto il patrimonio materiale e immateriale accumulato. 

 

Uguale motivo: la scarsità di fondi pubblici condizionò la realizzazione di non pochi lavori progettati dal Real Corpo degli Ingegneri di Ponti e Strade. Istituito nel 1808 doveva essere lo strumento principale per la politica delle opere pubbliche nel Mezzogiorno. Nel 1811 venne affiancato dalla Scuola di Applicazione mirata alla formazione e preparazione dei futuri ingegneri. Le due strutture sono da considerare il primo Politecnico in Italia. Nel 1826 un decreto organico le trasformò in Direzione Generale di Ponti e Strade, delle Acque, Foreste e Caccia. Con Carlo Afan de Rivera la DG raggiunse fama europea.

Nella persona di Luigi Giura (1795-1864), “gloria dell’ingegneria partenopea”, 

sono riassunte le conquiste tecnico-pratiche, gli approdi teorici 

dei saperi scientifici del Politecnico meridionale. 


Appena ventenne Giura ebbe il suo battesimo del fuoco in quella straordinaria rete di canali per irreggimentare le acque e prevenire le inondazioni nota come “Regi Lagni” tra Napoli e Caserta (oggi una cloaca). Sempre tra Caserta e Napoli, il lucano progettò la costruzione di un grande canale di irrigazione e navigazione per un importo di 130mila ducati. Dopo un viaggio in Europa (metafora della circolazione dei saperi e delle idee)

 

Giura, con i colleghi che l’avevano accompagnato,acquisì 

una prospettiva culturale di dimensione europea.

 

Con l’esperienza maturata, con la sua genialità, col lavoro di gruppo procedette alla costruzione di un ponte sospeso a catene di ferro sul fiume Garigliano. Ultimato nel 1832 rimase intatto fino alla seconda guerra mondiale quando conobbe i bombardamenti tedeschi. Un secondo ponte venne costruito sul fiume Calore. Lavorò inoltre alla sistemazione dei porti mercantili del Tirreno e dell’Adriatico. Fu merito di Garibaldi la sua breve nomina a ministro dei LL.PP. sul finire del 1860.  

 

Nel libro di Lupo, prima richiamato, si delineano il nesso tra invenzioni e loro applicazioni al processo produttivo per un verso e quello tra ricerca e cultura. L’analisi si snoda nel sistema delle privative “altrimenti detti privilegi o patenti, [che] possono considerarsi progenitori del nostro brevetto industriale.”

Il lavoro, unico nel suo genere nel Mezzogiorno preunitario, 

affronta le questioni della legislazione di settore

 

evidenzia i criteri con cui venivano approvate o bocciate le privative e i contrasti tra le istituzioni politiche preposte. Il volume termina riportando il “Repertorio delle Privative”. Si tratta di un lungo elenco di brevetti che ben mostra il legame tra scoperte e loro applicazione ai settori produttivi.

Tommaso Cappiello (1778-1840), medico di Picerno, nella sua autobiografia 

scritta in età matura, ricorda il suo giovanile studentato 

presso l’ospedale degli Incurabili a Napoli.

 

Nel tracciare la differenza tra l’iniziale impressione negativa e la successiva (fine anni ’90) scrive: “Presentemente l’Incurabili è ben organizzato, ben regolato per li studenti a Collegio e per l’infermi a ricevere cure” (fg.5 cap. II). E continua con un elogio: “A(ntonio) Sementini, uomo di rarissimo talento, di prima classe nell’ordine de Medici Filosofi, razzionatore analitico sottilissimo cui la Fisiologia deve progressi e vedute primordiali” (fg.6). La riorganizzazione del sistema ospedaliero avvenne durante il Decennio e interessò sia gli ammalati che l’assistenza e la beneficenza.

Nel 1812 negli Incurabili vennero aperte “quattro sale cliniche universitarie”: 

medicina, chirurgia, ostetricia, oftalmia. 

 

La medicina vantò grandi nomi fra cui: Domenico Cirillo, Domenico Cotugno, Michele Sarcone, Domenico Serao.  

 

Altri medici che accompagnarono i tornanti dell’800 borbonico non ebbero buoni rapporti politici con la dinastia come Domenico Lanza o, in certo qual modo, Antonio Palasciano. Alfiere medico dell’esercito borbonico questi venne maturando l’idea del soccorso umanitario sui campi di battaglia. Emergeva, seppure a fatica, l’obbligo morale e naturale di curare i feriti quale che fosse il loro schieramento. Palasciano metteva le basi per quella che sarà la funzione della Croce Rossa. Anche lui dovette andare via da Napoli perché non gradito al generale Filangieri.  

 

Altra figura emblematica del difficile rapporto dinastia – intellettuali è Guglielmo Gasparrini (1803-1866). Il suo percorso si snoda tra l’ateneo e le istituzioni. Fu, per esempio, socio corrispondente delle Società economiche di Capitanata e Terra di Bari.

L’800 europeo è segnato da due giganti: Jean Baptiste Lamarck 

e Charles Darwin. Gasparrini che non è un “fissista”, 

non ignora l’evoluzione della natura.

 

Dialogando con questa cultura europea ne subisce l’influenza ma la arricchisce con i traguardi scientifici che raggiunge con la sua amata botanica, in cui riversa un minuzioso lavoro di analisi, di classificazione. Insieme con Giovanni Gussone e Michele Tenore, Gasparrini fa dell’Orto di Napoli (e del Boccadifalco di Palermo) un avamposto italiano della botanica.

 

Nel 1845 si svolge a Napoli il VII congresso degli scienziati.

 

Con una punta di veleno Giacinto De Sivo annota che oltre 600 vi giunsero e “tenner seduta nella sala mineralogica dell’università”. Gasparrini svolse una relazione sulla fecondazione e sull’origine “dell’embrione seminale nei vegetali”.  

 

L’Alta polizia (oggi si direbbe la Digos) borbonica da tempo lo teneva d’occhio insieme ad altri medici, filosofi, intellettuali. La nota che lo riguarda riporta questo giudizio: “Di pessima condotta politica, morale, religiosa”. Dopo il ‘48 fu costretto ad andare via. Trovò accoglienza presso l’ateneo pavese di cui divenne rettore. È merito di Garibaldi se fu nominato a Napoli ordinario di botanica e direttore dell’Orto.   

 

Considerazioni finali ma non definitive  

 

L’esposizione schematica non è ostacolo ad alcune considerazioni e a una domanda.

La stagione dell’Illuminismo meridionale, nelle sue molteplici articolazioni 

fecondò un’idea nuova di uomo

 

in grado di prendere nelle mani il proprio destino al fine di migliorarlo e di umanizzarlo. La speranza nelle nuove generazioni, nei processi istruttivi ne era una prima manifestazione. Una seconda, pur affermandosi con lentezza giunse a metà ‘800 a riconoscere la salute e la guarigione come diritti di natura che oltrepassavano le brutalità delle guerre e della coppia amico/nemico.  

 

Infine. È ben vero che i Borbone lesinarono i finanziamenti per opere pubbliche all’intero Mezzogiorno a causa di una infausta visione napolicentrica. È però altrettanto vero che le opere realizzate hanno sfidato i secoli. Alla base di quella ingegneria c’è una concezione olistica della natura e del suo rapporto con l’uomo.

 

Solo smettendo il suo atteggiamento predatorio trova legittimazione 

alla sua esistenza nella universalità dei diritti di natura.


Fin da allora, per esempio, l’economia del bosco, per quel suo intimo carattere di universalità e di libertà, fu alla base di un lungo conflitto sociale (le famose lotte per la terra).   

 

Il periodo che va dagli anni ’30 al 1848 diventa così l’arcata cronologica in cui i saperi scientifici, in un rapporto dialettico con i loro fratelli umanistici, danno i frutti migliori della loro stagione.  

 

Il Mezzogiorno si presentò al 1860 con questo bagaglio culturale e politico. Quanto di esso fu disperso o ignorato, e perché? 

 

 

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 BIBLIOGRAFIA 

 

Cappiello Tommaso, Cronichetta di mia vita, (Manoscritto di fogli 176). 

Di Biasio Aldo, in giro per l’Europa. Il viaggio di istruzione di Luigi Giura, in Le vie dell’innovazione, Lugano, Giampiero Casagrande ed. 2009. 

Genovesi Antonio, Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, (a c. di) Nicola D’Antuono, Angri, edizioni Gaia, 2014. 

Lupo Maurizio, Il calzare di piombo, Mi, Franco Angeli, 2017. 

Venturi Franco, (a c. di), Illuministi italiani. Riformatori napoletani. Mi-Na Ricciardi-Mondadori, v. II t. I,1997. 

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AL SUD LA BELLEZZA VUOL ESSERE LEGGE di Sergio Spatola – Numero 16 – Febbraio 2020

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AL SUD LA BELLEZZA Vuol ESSERE LEGGE

 

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ho pensato quando in una delle riunioni di redazione è stata data notizia del progetto di una “Legge sulla bellezza” della Regione Puglia.

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Da quando Myrrha era in gestazione – ormai quasi cinque anni fa – si è sempre condiviso che, tralasciando gli obbrobri, il Mezzogiorno è un dono.


Adesso, come se Myrrha avesse espresso un desiderio dopo aver spento una candelina, una delle Regioni più attive del Sud tira fuori dal cilindro la sua legge sulla bellezza.  

 

Se essa è intesa come «la qualità capace di appagare l’animo attraverso i sensi, divenendo oggetto di meritata e degna contemplazione»1 e la Regione Puglia avesse avuto questa come idea ispiratrice, non potrei, da orgoglioso meridionale quale sono, esserne più felice. 

Mi si dirà che è ancora una proposta; deve superare l’iter legislativo; deve, soprattutto, essere eseguita, prima, e nella maniera corretta, poi; la bellezza è un concetto relativo. Non possono di certo ignorarsi le eventualità di insuccesso, ma deve evidenziarsi la novità che un’operazione culturale di questo genere comporta.  

 

In fondo, si tratta di un primo esperimento, evidente e concreto, che tenta di superare uno degli ostacoli del Sud: la troppo spesso diffusa bruttura. Peraltro, questo superamento è

uno dei pilastri tematici della mission culturale di Myrrha: il progresso economico 

del Mezzogiorno non va ricercato replicando gli strumenti del Nord produttivo, ma valorizzando le abilità proprie del Sud

 

quelle abilità che si attagliano alle genti che vi abitano e che solo essi conoscono. Quel know-how esclusivamente meridionale che distingue il Sud dal settentrione d’Italia.  

 

A questo fa pensare il tratto del Manifesto sulla legge. Vi si afferma come «la globalizzazione non ama la bellezza» perché «è di fatto una globale uniformizzazione», il cui «connotato è la semplificazione».

 

Occorre, infatti, rassegnarsi: il Mezzogiorno – come l’Italia tutta del resto – 

non è semplificabile come i Paesi non dotati di millenaria 

stratificazione storico-culturale.

 

Esso, infatti, ha un’identità poliedrica e talmente multipla da necessitare misure ad hoc per inquadrarla, coordinarla e, poi, valorizzarla. Di questa difficoltà il progetto di legge è consapevole quando si propone di costituire l’identità antropologica e memoriale del «Mosaico pugliese».

 

Ancora una coincidenza. Myrrha ha voluto, fin dall’inizio, rappresentare, anche graficamente, il mosaico dell’immenso giacimento culturale del Sud, con colori, riferimenti decorativi e “tratti”, ispirati alle culture mediteranee.  

 

Di recente, contro il tentativo di normare la bellezza, si sono elevati cori di tecnici, preoccupati della impraticabile esecuzione di una siffatta legge nel territorio pugliese. Essi hanno consigliato di raccogliere le disposizioni attualmente in vigore per creare un quadro chiaro della disciplina urbanistica della Regione. Ad essi è stato risposto che l’esperimento deve essere attuato con norme di dettaglio che possano renderlo effettivo. 

Tutti i commenti sono decisamente opportuni. L’importante è che non siano interessati, come spesso accade, da fini che esorbitino dallo scopo della legge: restituire bellezza al territorio pugliese.

L’ossatura della proposta è fatta di misure generali di diritto urbanistico 

che prevedono l’abbattimento o il recupero dei “detrattori di bellezza”,

 

cioè edifici abusivi, ecomostri e vuoti urbani per realizzare nuovi spazi urbani ed edifici performanti senza consumo di suolo. 

Il concetto è semplice e lo deve essere anche la sua realizzazione. È il momento di far fruttare quella sussidiarietà orizzontale che consente di avvicinare i cittadini e gli operatori di buona volontà a ciò che veramente importa:

 

ridare dignità alle zone più colpite dal degrado.

 

Quali gli strumenti che la legge di prefigge di utilizzare? La semplificazione normativa, la formazione culturale sul patrimonio architettonico e urbanistico sia di tecnici che di professionisti, l’individuazione delle identità territoriali e paesaggistiche e molti altri strumenti, che saranno finalizzati a pianificare le trasformazioni dei luoghi «interessati da condizioni di degrado fisico, sociale, culturale, ambientale e paesaggistico» (art. 9 del progetto).  

 

Quali obiettivi vogliono raggiungersi con questi strumenti? La norma, sempre all’art. 9, precisa come all’obiettivo generale di rigenerare le aree urbane e di valorizzare i centri storici (lett. a), si affiancano quelli particolari di

riqualificare le periferie e le aree agricole periurbane, da un lato, il paesaggio 

e l’ambiente delle infrastrutture, dall’altro, e le aree produttive degradate,

 

dall’altro ancora (lett. b), c) e d)); di manutenere e riusare i beni edilizi e rurali (lett. e)) e di tutelare e valorizzare le aree di attrazione naturale e della biodiversità (lett. f)).

 

Naturalmente, per invogliare cittadini e operatori a collaborare sono previsti incentivi fiscali (riduzione del contributo di costruzione) e rimborsi delle quantità edificatorie (c.d. crediti edilizi). 

Sono norme di carattere generale, lo si ripete, che portano con sé una speranza: quella che tutto possa andare per il verso giusto (e la Puglia ci ha stupiti parecchio negli ultimi anni) e che la legge possa trovare un’applicazione piena degli strumenti che prevede e conseguentemente vedere realizzati gli obiettivi che si è posta.

L’esempio deve essere di quelli che sollecitano l’emulazione 

da parte di tutti gli altri territori 

 

che non si accontentino di scimmiottare passivamente ciò che va più di moda oggi. Il PIL non deve e non può essere il solo indicatore dell’andamento del Mezzogiorno, che evidentemente necessita di tempi e di strumenti diversi per emergere dal grigiore di nullità cui troppo spesso lo si associa.

 

Il coraggio di risalire deve passare anche dal superamento di quel senso 

di incapacità che troppo spesso il Sud si auto-attribuisce

 

e che, col troppo affermarlo, si imprime nelle menti di chi, invece capace, si arrende per un luogo comune.  

 

Noi di Myrrha saremmo felici di contraddire coloro che pensano come, anche questa volta, si tratti della solita dichiarazione di intenti senza futuro pratico.

 

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI TRA GRECIA E SPAGNA di Giusto Puri Purini – Numero 16 – Febbraio 2020

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MEDITERRANEI. ROSSELLINI  TRA GRECIA      E SPAGNA 

 

Nei suoi ultimi anni, di cui poco si è parlato, Rossellini era e si sentiva al centro di un vasto movimento storico umanista, costruito negli anni con una grande mole di lavoro e il cui unico comune denominatore erano il sapere e la conoscenza.

Su questo tasto aveva sempre battuto ed era convinto che una più ampia diffusione della conoscenza avrebbe lenito le ferite di un mondo lacerato dalla guerra e dalla diversità. 

 

La conoscenza, dunque, come ricerca di metodo, di nuova umanità. Essa, applicata al cinema ed alle sue arti collaterali, quali l’architettura, la scrittura, la fotografia, la pittura, la scienza, ecc., creava un insieme esplosivo,

un laboratorio vivente di arti intrecciate, dove anche la politica come gesto 

e comportamento veniva assorbita.


Questa specularità tra gesto ed opera ha in qualche modo fatto di Rossellini un trasgressivo – e quindi anche la sua grande lezione è stata in parte disattesa – almeno nell’attimo in cui entrava nelle case di tutti attraverso la Televisione,  creando onde d’urto, vedi India negli anni Cinquanta per la RAI, La presa del potere di Luigi XIV, l’esperienza di Houston, l’intervista ad Allende, nonché le lettere ai vari capi di Stato, coloro ai quali sentiva che più vicina fosse la sua intuizione sulla conoscenza, sulla sua evoluzione.

 

Ricordo una notte, in cui mi chiamò molto tardi,

 

io pensavo si trattasse di lavoro, di trucchi, stavo lavorando per lui ad un film che era iniziato con una telefonata: «Caro Giusto, non vorresti domani partire per la Spagna e realizzarmi Atene? Dobbiamo girare il Socrate…»”. E quindi mi aspettavo di tutto, e così fu.

Mi lesse la lettera che aveva scritto a Mao Zedong

 

e voleva la mia impressione. Era una lettera intensa, da un capo “cultura” ad un capo di Stato, piena di attenzione ai movimenti della rivoluzione culturale cinese ed a quelli giovanili europei… fuggire dalla violenza attraverso la chiave del sapere, del conoscere, da mettere al servizio dell’uomo. L’anelito era sincero e la fiducia nel mezzo, il cinema, era totale. Grande mago dei mass-media, fu il primo ad intuire e sperimentare con la propria opera che dietro il ruolo dalla regia ben altre corde di valori universali potessero essere toccate, diffuse e trasmesse.  

 

Questa scintilla, testimone d’una avvenuta e ormai sperimentata fusione tra ambiente e spazio, dove l’uomo, capite e create le regole, dedica il suo tempo all’evoluzione della società che lo circonda, era l’obiettivo non nascosto di Roberto Rossellini.

 

Dice Jean Louis Comolli, ex redattore dei Cahiers du Cinema e autore
del film L’ultima utopia, la televisione secondo Rossellini: 

 

“Il progetto (monumentale, più di 60 ore in previsione, realizzato in buona parte tra il 1963 ed il 1974) si rifà esplicitamente all’ambizione enciclopedica del Secolo dei Lumi.

Rossellini punta alla creazione di un nuovo umanesimo.

 

Dare agli uomini del proprio tempo, almeno a tutti coloro che vanno al cinema e/o guardano la televisione, gli strumenti necessari per impossessarsi della propria storia e, tramite la storia, del senso della propria vita; per ricominciare a pensare al mondo e alla propria condizione, per ritrovare la capacità di immaginare e il desiderio di conoscere; per prendere le distanze (questa, fra le righe, la dimensione politica del progetto) dall’alienazione, prodotta dal divertimento e dallo spettacolo dominato dal consumo e dalla pubblicità”. Non a caso, la sua ricerca storico-umanistica – iniziata con

 

La presa di potere di Luigi XIV (1964), film che sarà determinante

 

nella sua scelta futura – metterà in luce i momenti di trasformazione della storia, rileggendoli non solo come frutto di scontri e battaglie, ma evidenziando le condizioni economiche, sociali, religiose ed ambientali nelle quali gli esseri umani si sono evoluti. Un grande termometro, quindi, per rilevare ad ogni passo la temperatura della storia!  

 

Prosegue (o inizia) questa ricerca con La lotta dell’uomo per la sua sopravvivenza (più di 10 puntate) nel 1966/68, poi gli Atti degli Apostoli, quindi Socrate, Blaise Pascal, L’età di Cosimo de’ Medici, ecc.

Noi, con Gepy e Maurizio Mariani (Gepy era figlio di Marcella Mariani, sorella 

di Roberto), dovevamo quindi disegnare la “Storia” attraverso i famosi trucchi. 

Che progetto affascinante! 

 

Iniziai con gli Atti nel 1968: fui scaraventato da Gepy sul set tra i monti della Tolfa, dietro Civitavecchia. Bisognava girare l’entrata a Gerusalemme di un gruppo di cavalieri romani, attraverso la porta Ovest della città… Ma non vi era città, solo un grande modello di Gerusalemme in scala 1:500 dietro la macchina da presa. Davanti ad essa un grande cristallo inserito in una cornice di 6 metri per 2, sollevato da terra da due colonne laterali in legno, camuffate da “dorico”. Una parte del cristallo era specchiata e vi si rifletteva il plastico retrostante, cosicché la macchina da presa, inquadrandolo, permetteva alla città di incollarsi con il paesaggio frontale. Una delle Porte di Gerusalemme, non avevo lo specchio, e corrispondeva a trecento metri di distanza nel fondo valle, ad un portale ricostruito, che i cavalieri romani attraversavano al galoppo.

 

Avvicinai l’occhio alla macchina da presa, l’insieme era perfetto! 

Ero entrato nel mondo dei trucchi! E Roberto Rossellini era un Mago!

 

Oggi, con il digitale, i  rendering, l’elettronica, il sistema dei trucchi di Roberto Rossellini sembra anacronistico, ma allora questo artigianato tecnologico dava un contributo determinante, tecnico ed (altamente) economico, per sviluppare un cinema della “conoscenza” e del sapere, che oggi purtroppo non esiste più.  

 

Fu con questo Maestro che applicai all’architettura il metodo di rilettura della storia; non mi bastava più il Bauhaus, il movimento moderno, ma volevo risvegliare lo spirito critico che nasceva da questa ricerca, capire quali erano i fili che tenevano o sostenevano l’uomo, dai tempi del mito fino all’oggi, indagare su ciò che andava perduto, sradicare le false certezze,

cercare una via “italiana”, mediterranea del sapere, lontana 

dalle “colonizzazioni” culturali dei tanti movimenti moderni e contemporanei, 

non per disdegnarli, ma per recepire anche gli urli di dolore che provenivano 

dalla gabbia psichica, e costruttiva, che il mondo occidentale si era in parte creato.

Qualche mese dopo, per la Lotta, dovendo girare il funerale del Faraone e tutta la cerimonia, che si svolgeva tra il tempio a valle e la piramide (con il corteo che ne valicava la soglia), proposi, per risparmiare sul budget, le cave di sabbia della Magliana, più vicine a Roma delle dune dei deserti tunisini.

Rossellini ne fu entusiasta e realizzammo forse uno dei trucchi 

più belli e più “metafisici”. 

 

A duecento metri dalla macchina da presa venne creato un piano inclinato, appoggiato ad una montagna di sabbia, che serviva a far entrare nella piramide il corteo del faraone. In basso venne disposto il tempio a valle (in grandezza naturale), poi il cristallo, la macchina da presa e, dietro, il plastico della grande Piramide di Cheope, con i tre colori del rivestimento, in marmi e pietre: porfido rosso la base, calcare la parte intermedia e marmo nero per la cuspide! 

Oltre ai disegni, alle misurazioni, alle varie costruzioni da realizzare, bisognava, sul cristallo, traguardando attraverso l’obiettivo, scontornare con un pastello la proiezione del modello retrostante, perché è quello che andava specchiato… 

Imparai, grazie a Gianni Bonicelli, giovane collaboratore di Roberto ed ex studente dell’Accademia del Cinema, a miscelare le taniche di nitro con altri prodotti, per ottenere gli specchi.

Nessuna imperfezione era permessa, nessuna sbavatura.

 

Spesso si lavorava di notte ed eravamo in ansia, perché gli specchi dovevano essere pronti il giorno dopo, con centinaia di comparse in arrivo e la grande scena da girare… da brivido!  

 

Quando, nel mese di marzo del 2005, Gianni Bonicelli mi ha chiamato per parlarmi del lavoro di Jean Louis Comolli, e per chiedermi di riprendere il mio ruolo di architetto-scenografo e “uomo” di trucchi in un’intervista, ho risposto con entusiasmo. 

Mi sono soffermato con loro soprattutto sul Socrate.

Eravamo nel 1970 e tutto incominciò con una telefonata notturna 

di Roberto Rossellini, in cui mi chiese se ero disposto 

ad andare in Spagna per cercargli Atene.

 

Follie delle coproduzioni, ma affascinato dal senso metafisico, accettai con un entusiasmo, e ci mettemmo alla caccia di un luogo che evocasse con realismo quell’Idealità.

Lo trovammo dopo due settimane, a 70 km a nord di Madrid,

 

in mezzo alle montagne: Patones de Arriba! 

Il grande borgo di pietra era abbandonato: ulivi, rocce, colline, cieli blu, sembrava la Grecia… ed era dall’altro lato del Mediterraneo, culla della nostra storia e area di forti similitudini morfologiche.  

Cercai il punto “X”, quello del totale, con l’Agorà, la piazza da costruire in primo piano, sullo sfondo il Borgo di pietra e sopra, sulla sinistra, l’Acropoli, il “trucco”. 

Dovetti con dolore sradicare degli ulivi, scavare e pareggiare 2 gradoni della montagna.

Per allargare maggiormente lo spazio ne aggiunsi un terzo di almeno 300 mq, 

questa volta sospeso nel vuoto, ancorato a tubi innocenti. 

Avevo così finalmente realizzato la piazza, 

era l’Agorà di Atene

 

(Rossellini mi disse poi, confidenzialmente, che si era trovato a girare in un campo che gli stava stretto! Ma, di realtà virtù). 

La collaborazione con la TVE (Televisión Española) fu ottima, lo scenografo Bernardo Ballester, divertito e spavaldo, non arretrava di fronte a nessuna delle spericolatezze che l’allestimento del set richiedeva.  

 

Quel mondo aveva dei rituali stimolanti. Si formava, soprattutto nel cinema d’équipe di Rossellini, un gruppo di persone molto affiatate tra di loro. I più erano in squadra da tanto tempo ed era ammirevole vedere il loro coordinamento, coadiuvare le intuizioni del regista, i suoi desideri di “inventare” ed improvvisare le scene sul momento, come un work in progress.

 

La sceneggiatura definitiva veniva scritta con La Rochefoucauld solo la notte prima.


C’era il figlio Renzo, regista e produttore, metronomo di Roberto, c’era la mamma di Renzo, la costumista Marcellina De Marchis, l’operatore Mario Fioretti, il Direttore di Produzione Francesco Orefici, il musicista e compositore Mario Nascimbene e tanti altri, attori, macchinisti, una vera corte dei miracoli, votata ad evitare sprechi, coltivare risparmi, ma “eseguire” in grande. Questo rapporto dinamico dell’équipe è stato uno degli insegnamenti essenziali avuti dal Cinema. 

Un DNA che si rivelerà per me fondamentale nel successivo passaggio verso l’Architettura “costruita”, nascosto nei meandri segreti delle mie future realizzazioni.

 

Il cinema presta all’Architettura la sua velocità di esecuzione, affronta lo spazio 

in modo creativo e spavaldo, calibra i vuoti ed i pieni, i campi ed i controcampi

 

e l’Architetto, conoscendo le dinamiche che sovraintendono il realizzarsi dell’opera, deve avvolgere di contenuti la macchina da presa. 

Mentre nel set di Patones de Arriba la natura circostante, le costruzioni, la storia, i templi con i loro colonnati, il Thòlos,

gli edifici in pietra esistenti, resi multicolori, dai toni pastello, i fregi sgargianti 

dei timpani si fondevano tra di loro, misi l’occhio nell’obiettivo: 

in alto nell’inquadratura il modello dell’Acropoli, tutto di nuovo 

si ricompose, come per incanto,

 

ed il giorno dopo Socrate con i suoi allievi fluttuava, nel centro dell’Agorà, in un luogo X del Mediterraneo. E la sfida di Roberto Rossellini continuava.  

 

 

 

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Photo credit direttore della fotografia Mario Moretti

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA DEI TOGATI di Roberto Giovene di Girasole – Numero 16 – Febbraio 2020

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CASTEL CAPUANO E LA RESPUBLICA   DEI TOGATI

 

lo si deve contestualizzare sul piano storico, oltre che su quello sociale, politico e urbanistico di Napoli.

Solo studiando la storia della città ed il ruolo che ebbero il Castello e la zona circostante si possono comprendere appieno le ragioni che spinsero don Pedro de Toledo, nel 1536, a modificarne quella che oggi definiremmo la “destinazione d’uso”, individuandolo come sede dei tribunali, funzione che il Castello ha assolto fino al 2007. Vi ebbero sede la Gran Corte della Vicaria, che era divisa in quattro ruote, due civili e due criminali; il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, che giudicava in appello e trattava le cause tra i feudatari; la Regia Camera della Sommaria, che aveva competenza finanziaria e fiscale; il Tribunale della Zecca, che sovraintendeva ai bolli ed alle unità di misura; il Tribunale della Bagliva, che trattava le cause minori.

La città di Neapolis, costruita dai coloni greci che già avevano fondato 

gli insediamenti di Ischia (Phitecusae) e Cuma, ha resistito ad innumerevoli cataclismi, quali terremoti ed eruzioni vulcaniche,


fino ad oggi, quando come è noto è possibile visitarne il centro antico medievale, la cui pianta urbanistica, composta da cardini e decumani, ricalca perfettamente il tracciato greco e poi romano, parzialmente visibile al di sotto dell’attuale piano stradale, per esempio accedendovi dalla chiesa di S. Lorenzo Maggiore. Come ben sanno velisti, pescatori ed appassionati del mare, nonostante la vicinanza della città allo 
sterminator Vesevo, a salvare la città sono stati i venti, che l’hanno preservata sospingendo ceneri e lapilli verso l’entroterra e le costiere sorrentina e amalfitana, come dimostrato dalle rovine della magnifica città commerciale romana di Pompei e di quella di Ercolano. 

 

Alle città di Nola e di Capua conducevano le strade che partivano dalle più importanti porte di accesso alla città, porta Nolana e Porta Capuana, quest’ultima posta al limite est dei due decumani maggiori, che costituivano l’accesso dall’entroterra alla città.

Grande e magnifica Porta Capuana, era stata costruita sul perimetro delle mura aragonesi con alle spalle Castel Capuano, il più antico della città. 


La zona, fortificata fin dall’epoca del ducato bizantino1, quindi prima dell’epoca normanna alla quale tradizionalmente si fa, invece, risalire la fondazione del castello, probabilmente edificato su di una preesistente fortificazione, è stata per secoli il centro politico e culturale di Napoli, che dalla zona greco-romana cominciava ad espandersi verso ovest, fino al punto dove sorse l’altra fortificazione, il Maschio Angioino, che aveva la differente funzione di proteggerla dai pericoli provenienti dal mare.

Non più, quindi, semplice fortezza militare, ma vero e proprio castello,  

nel XII secolo l’edificio assunse la funzione preponderante di residenza reale quando nel 1266 divenne la dimora di Carlo I d’Angiò, 


durante gli anni della costruzione del Maschio Angioino2. Ma fu solo alla fine del 1400 che l’edificio smise di essere anche una fortezza, in conseguenza dell’ampliamento della cinta muraria intrapreso da Ferrante d’Aragona e portato avanti dal figlio Alfonso, che ne determinò l’inglobamento all’interno della cinta muraria.

Erano possenti quanto architettonicamente magnifiche le mura difensive, 


che dall’apice costituito dall’attuale ex Caserma Garibaldi, oggi sede dell’Ufficio del giudice di Pace del Tribunale di Napoli, dove sono ancora visibili le grandi torri cilindriche, scendevano lungo il tracciato di una parte dell’odierna via Rosaroll, in qualche tratto ancora visibili lungo la corte dei palazzi ottocenteschi che le hanno inglobate, per poi piegare fino alla nuova Porta Capuana, anch’essa ricostruita sul finire del ‘400 su progetto di Giuliano da Maiano. Una passeggiata lungo questo tracciato, completamente al di fuori del circuito turistico, pur non essendo lontano dalla celeberrima zona dei decumani, è un’affascinate scoperta di strade oggi popolari, dove si mescolano colori intensi, odori tipici della cucina napoletana e vestigia del passato.

Una delle arterie che maggiormente rispecchia la magnificenza architettonica ed urbanistica raggiunta da questa parte della città nella seconda 

metà del ‘400, è via S. Giovanni a Carbonara 


che, nonostante la presenza di strutture alberghiere e ricettive, non è ancora adeguatamente valorizzata e conosciuta dai visitatori e dai turisti. Come tradizione consolidata in tutte le grandi città del mondo, i nobili ed i ricchi mercanti per secoli hanno costruito i loro palazzi vicino alle residenze reali. Così è accaduto a Napoli, nelle adiacenze di Castel Capuano; in seguito, a via Toledo all’epoca del vicereame spagnolo e alla Sanità, quando dopo la costruzione della Reggia di Capodimonte vennero edificati i palazzi nobiliari tuttora esistenti, lungo il percorso che compivano in carrozza i Sovrani per raggiungere la nuova dimora dal palazzo Reale. Questi edifici vennero realizzati ad una quota rialzata rispetto all’antica sottostante zona, destinata invece alle sepolture fin dall’età ellenistica (i grandi ipogei sono stati parzialmente portati alla luce da recenti attività di scavo). 

 

La chiesa di S. Giovanni a Carbonara, costruita tra la metà del ‘300 ed il primo ventennio del XV secolo, con il monumento funebre di Re Ladislao di Durazzo e la cappella Caracciolo del Sole, edificata nel 1427 dal potente Gran Siniscalco del Regno Sergianni Caracciolo, amante della regina Giovanna II (poi assassinato all’interno di Castel Capuano a seguito di una congiura e quivi sepolto), sono una pregevole testimonianza della prima architettura rinascimentale a Napoli.  

 

Si comprende allora perché, dovendo riunire in un solo edificio le diverse giurisdizioni della città, e dovendo trovare un luogo simbolico, che rispecchiasse la grandiosità del potere regio in nome del quale la giustizia era amministrata, nessun edificio poteva essere più adatto dell’antico castello. Nei sotterranei vi erano le prigioni.

Per l’edificio di Castel Capuano comincia una nuova vita, quella più conosciuta, legata alla amministrazione ininterrotta della Giustizia 

per 470 anni, dal 1536 al 2007,  


anno in cui anche il settore civile, seguendo l’esempio di quello penale che si era trasferito nel nuovo tribunale al Centro Direzionale tra il 1994 ed il 1997, abbandonò definitivamente l’antico maniero. Impossibile nell’ambito di questo breve scritto ripercorrere, anche solo per sommi capi, le innumerevoli storie e cronache legate alla vita dei tribunali e dei  processi.

In esso si svolsero le vicende più importanti di quella che alcuni storici hanno definito la Respublica dei togati, con riferimento al ruolo preminente,

nella vita politica del Regno di Napoli, svolto dal ceto dei togati, 

composto dagli Avvocati e dai Magistrati. 


Anche il Sacro Regio Consiglio Collaterale di Stato, istituito da Alfonso d’Aragona nel 1442, affinché giudicasse in grado di appello sulle più importanti sentenze civili e penali, fu trasferito in Castel Capuano.

In precedenza le sentenze erano inappellabili e solo il Sovrano
poteva riformarle, anche nominando nuovi giudici. 


Venne definito sacro perché presieduto da Re in persona. Poiché il Re non poteva sempre essere presente fu, in seguito, creata la figura del Presidente: “furono in ogni tempo innalzati in tal carica personaggi chiari ed illustri…Il Sacro Collegio non solo rivede i gravami degli altri Tribunali, ma giudica altresì in prima istanza le cause di maggior momento. Esamina le maggiori Cause civili, le cause dè Baroni, e le cause feudali, giudica dello stato delle persone…” 3 

 

In epoca precedente all’800 era spettata al Consiglio collaterale anche “l’appellazione dei decreti dell’Assessore consultore del Protomedico della nostra città, il quale ha giurisdizione civile e criminale sopra le persone che esercitano l’arte medica e altri sudditi che mancano per ragion dell’arte, o esercitano la medicina senza esservi graduati” 4.

Nel 1739 in Castel Capuano fu istituito il Supremo Magistrato di Commercio che riunì le competenza che in precedenza “si agitavano nel Grande Ammirante, nell’Arte della Seta e della Lana; nella delegazione dei cambi…” 5 


Nel castello, che per secoli ospitò la colonna dove per volontà del Vicerè spagnolo il fallito doveva salire a capo scoperto e restarvi per un’ora, esposto al pubblico ludibrio, si svolsero certamente processi sommari e ingiusti, in particolar modo quelli contro gli oppositori politici, ma si sviluppò anche in maniera marcata l’attività di un ceto di Avvocati che non temevano di sfidare il potere costituito, pur di vedere affermati i principi di libertà e di giustizia. Ricordiamo, nel 1850, il processo a carico di Luigi Settembrini, Nicola Nisco, Carlo Poerio, Michele Pironti, Filippo Agresti, tutti componenti della setta “Unità italiana” e imputati per cospirazione contro lo Stato. Il processo si snoda lungo ben 24 udienze e “gli avvocati fanno sentire la loro voce. Si oppongono, protestano contro i testimoni d’accusa Giuseppe Marini Serra, Enrico Cenni, Francesco Bax.” 6.

Ma già in epoche precedenti gli Avvocati napoletani si erano distinti 

per la loro azione in difesa dei diritti contro l’assolutismo regio: 


basti pensare alla Prammatica del regno di Napoli elaborata da Berardo Tanucci nel 1774, poi abrogata con legge del 1791, con la quale per la prima volta viene imposto a tutti i giudici della città di Napoli di motivare le sentenze; e il patrocinio dei meno abbienti introdotto a Napoli in epoca sveva, ad opera dell’imperatore Federico II, che istituì un avvocato dei poveri.

A Napoli fu creata anche una confraternita laicale di avvocati, 

quella di S. Ivo (Ivone), protettore degli avvocati, comparsa 

nel XVIII secolo con esclusivi scopi di beneficenza. 


Nella chiesa dei Santi Apostoli vi è la cappella di S. Ivone, “ch’è la seconda a destra entrando nella chiesa vedesi il deposito del presidente del sacro regio consiglio Vincenzo Ippolito, lavorato dal Sammartino. Quivi trovasi eretta una pia congrega laicale di avvocati, riuniti sotto il patrocinio di S. Ivone, che fu pietoso difensore dè poverelli. I governatori di essa, ricevute le suppliche dè poveri, in pubblica ragunanza mettono a disanima le loro ragioni, e trovandola causa regolare, se ne commette la difesa ad uno dè confratelli, a spese della congrega” 7

 

Fu proprio per tramandare ai posteri la storia di quanti, avvocati e patrioti, si erano battuti contro l’assolutismo, nell’anelito di una società più giusta e di un processo più equo, dove l’accusato potesse realmente difendersi dalle accuse, dinanzi a giudici che non fossero ciecamente obbedienti alla volontà del Governo, che

il 5 marzo 1882 furono collocati in Castel Capuano 13 busti, 


degli avvocati Francesco Ricciardi, Gaspare Capone, Davide Winspeare, Felice Parrilli, Giuseppe Raffaelli, Francesco Maria Avellino, Giuseppe Poerio, Pasquale Borrelli, Domenico Capitelli, Mario Pagano, Giuseppe Pisanelli, Nicola Nicolini e Roberto Savarese, in quello che oggi è denominato “Saloncino dei busti” (tranne quello di Savarese). Fu il primo nucleo di quella sorta di Pantheon dell’Avvocatura napoletana, costituitosi nei decenni successivi, con i busti collocati in quella che fu la grande sala della Corte di Appello di Castel Capuano, già sala della Regia Camera della Sommaria, oggi denominato Salone dei Busti, e quelli della Biblioteca De Marsico, che ricorda le figure di più di cinquanta Avvocati.  

 

Senz’altro la funzione di palazzo di Giustizia ebbe l’effetto di sottoporre l’edificio a continui rimaneggiamenti per far fronte alle esigenze di vita pratica dell’amministrazione della giustizia che ne hanno compromesso la preesistente architettura.

Oggi è in corso, finalmente, un importante progetto di restauro dell’edificio, 


all’interno del quale sono stati riscoperti alcuni ambienti, non ancora restaurati ed aperti al pubblico, come del resto l’intero complesso monumentale, eccezion fatta per alcuni uffici e per la prestigiosa e preziosa Biblioteca degli Avvocati, gestita dall’Ente Biblioteca di Castel Capuano Alfredo de Marsico.

La Biblioteca ha più di un secolo di vita. 


Fu, infatti, ufficialmente inaugurata il 19 luglio 1896, per essere in seguito trasferita dove si trova oggi, vale a dire in una delle più grandi sale del Castello, che fu sede della Gran Corte criminale prima e poi della Corte di Assise, nell’ottobre del 1936.

Un brulicare di persone, giudici, avvocati, cancellieri, testimoni, gente comune, 

nel tempo aveva trasformato il Cortile di Castel Capuano in una vera e propria Agorà, nella quale incontrarsi e discutere non solo di processi e condanne 

ma anche di affari e commerci.  


Infatti l’accesso al cortile era aperto al pubblico e privo di controlli, e cosi è stato fino agli anni ’60, poi a seguito di una sparatoria avvenuta all’interno dell’affollato cortile venne limitato l’accesso e predisposto un controllo all’ingresso. 

 

Un’Agorà che assolveva ad un ruolo molto importante poiché consentiva al popolo, in nome del quale, venuto meno l’assolutismo regio, si amministra la Giustizia, di controllare effettivamente, de visu, lo svolgimento dei processi, rendendo effettiva la pubblicità del dibattimento, uno dei principi fondamentali dello stato di diritto.

E quel popolo, composto da individui appartenenti a tutte le classi sociali, assiepandosi nelle sale, sempre non sufficientemente grandi 

per accoglierlo tutto, non si limitava ad assistere 

ma in qualche modo partecipava 

alla vicenda processuale, 


non mancando di esprimere rumorosamente consenso per una convincente arringa difensiva oppure dissenso per una difesa inefficace o per una condanna ritenuta ingiusta. E’ andata avanti così per secoli, con l’interesse anche venale di chi aveva scommesso su una condanna oppure un’assoluzione, e di quanti viaggiatori, uomini di cultura o semplici curiosi assistevano alle udienze, nel tentativo di comprendere la realtà, difficile, complessa, dalle infinite sfaccettature della città partenopea.

 

 

 

 

 

 

 

 

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! – Cfr. A. Aveta, in Castel Capuano, la cittadella della Cultura  e della legalità. Restauro e valorizzazione, Elio de Rosa Editore, p. 17, che sul punto cita lo storico dell’architettura Giancarlo Alisio. 

2 – B. De Divitiis, in Castelcapuano da Reggia a Tribunale, a cura di Fabio Mangone, Massa editore, p. 33.   

3 – Cfr. Notiziario ragionato del Sacro Regio consiglio e della Real camera di S. Chiara, edito a Napoli il 24 marzo 1802.  

4 – Ibidem   

5 – Ibidem  

6 – M. Tita, in Il potere dei conflitti: testimonianze sulla storia della Magistratura italiana, a cura di Orazio Abbamonte, Giappichelli editore. 

7 – G. Ajello, Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze, stabilimento tipografico di Gaetano Nobile, volume 1, p. 265. 

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LA PRIMA CABINA di Francesco Ricciardi – Numero 16 – Febbraio 2020

 

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LA PRIMA CABINA

 

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si andava diffondendo in molte città della nostra costa e Salerno non faceva eccezione.

 

Già sul finire dell’Ottocento i primi stabilimenti, con cabine montate su palafitte piantate direttamente in acqua, avevano fatto la loro comparsa, dapprima proprio di fronte alla città vecchia, sulla storica spiaggia di Santa Teresa, poi più ad occidente sull’arenile contiguo al porto.   

 

Sul versante opposto invece, oltre la foce del fiume Irno ad est dell’abitato, fino a quella del Sele e oltre, a Paestum e ai primi rilievi cilentani, un immenso e lunghissimo litorale sabbioso restava ancora deserto. Come lo era stato al tempo di greci ed etruschi, romani e longobardi, normanni, angioini, aragonesi… e via di seguito fino a 50 anni fa.

 

L’entroterra, d’altronde, allora scarsamente abitato e interamente vocato 

alle tradizionali attività agricole, non giustificava certo 

il sorgere sulla costa di iniziative di tipo turistico.


E a nessuno del luogo, salvo forse casi sporadici, veniva in mente di interrompere le attività agresti per trasformarsi in un bagnante nel senso corrente del termine.  Ma c’era qualche eccezione… tra queste quelle legate alle abitudini estive della famiglia dei conti Carrara e della nostra. Tutti a Salerno conoscono la Villa Carrara, un tempo suburbana, posta lungo la S.S. 18 delle Calabrie a un paio di chilometri dalla città e distante un centinaio di metri dal mare. Siamo nei pressi dell’allora villaggio di Pastena, oggi un popoloso quartiere della città. Poco oltre, superata Pastena e le sue poche case, proseguendo verso oriente, c’era la nostra villa, che sorgeva nel cuore di quello che un tempo, per la fertilità della terra, era chiamato

“il Paradiso di Pastena”; era un complesso di costruzioni di tipo misto, 

agricolo-padronale, la cui presenza aveva sempre rappresentato 

un punto “cospicuo” della zona, spesso riportato 

nelle cartografie d’epoca. 


Alla fine dell’Ottocento la proprietà comprendeva, oltre alle case, poco più di 10 ettari di agrumeto ed era nota come “Ospedale all’Argentera e al Mercatello”, nome dovuto alla posizione isolata (ospedale = ostello), alla vicinanza con il torrente Mercatello e ai riflessi argentei delle foglie delle essenze predominanti – i pioppi – che ne accompagnavano il corso al confine del fondo agricolo. 

Di certo i primi bagnanti regolari sul grande e deserto litorale furono dunque 

i miei nonni che, durante la “villeggiatura”, ogni mattina si muovevano da casa 

per raggiungere in pochi minuti a piedi quella che, allora, consideravano 

una sorta di spiaggia privata.  


Lo facevano percorrendo una stradina interpoderale sulla quale, nel tratto finale che attraversava la proprietà del barone Campolongo, godevano di una servitù di passaggio. La chiamavamo la stradina “del ponticello”, per la presenza di un piccolo ponte gettato su uno dei canali di irrigazione, e per un tratto, all’ombra dei pioppi di cui si è detto, essa costeggiava il corso del torrente.  Fin qui mi si potrebbe obiettare che questa è solo una delle tante storie che ci capita di ascoltare sui “bei tempi andati”; ognuno in fondo potrebbe averne una propria da raccontare (“Il ragazzo della Via Gluck” docet). La differenza sta nel fatto – e questa è la ragione di questo breve scritto – che in questo caso del racconto esiste anche una puntuale documentazione per immagini: mio nonno era un appassionato di fotografia… In una foto scattata verso la metà degli anni Dieci lo si vede, un poco discosto dal proprio capanno, guardare verso il mare. In seguito,

a partire dagli anni Venti, in luogo del capanno veniva allestita una regolare cabina 

in legno: la prima cabina di Mercatello, solitaria sullo sterminato arenile.


Nelle tante foto scattate in quegli anni (per lo più lastre fotografiche conservate nelle loro scatolette originali e fortunosamente giunte fino a noi), sullo sfondo di gruppi e momenti privati, si possono scorgere scorci e paesaggi di quel lembo di terra, testimonianze di un ambiente oggi del tutto cancellato dall’avanzare di ciò che veniva definito progresso. È qui che il racconto si fa immagine e una semplice storia familiare diventa documento.

Il punto del litorale eletto da quei pionieri della balneazione estiva 

sulle spiagge orientali di Salerno era presso la foce del Mercatello, 


più o meno dove la stradina terminava, attraversando un passaggio coperto da una volta a botte incorporato in un bel casale colonico intonacato di bianco di proprietà dei Galdo (altra storica famiglia di proprietari terrieri della zona). Al di là del grande portone ad arco passava la già citata Statale delle Calabrie, ai tempi ancora in terra battuta, lungo la quale il casale sorgeva. La si attraversava e si era in spiaggia.  

Negli anni Sessanta anche il Casale Galdo fu demolito


per fare posto agli anonimi edifici della Salerno moderna, ora affacciati sulla grande stazione di servizio che ancora esiste.

Di quella demolizione o di una analoga – non fa una gran differenza – 

parlò anche lo scrittore ungherese Sandor Màrai, il quale dal 1968 al 1980 

abitò, in solitaria riservatezza, a Mercatello, 

a pochi metri dal luogo descritto


Egli, ben prima dei salernitani, aveva avvertito (e non ci voleva molto…) i danni irreversibili dalla speculazione edilizia e nel 1968, in una sua nota di lacerante dolore, scriveva nel suo diario: 
«Mentre eravamo a Roma, nelle vicinanze del nostro appartamento hanno abbattuto una vecchia masseria campana del secolo scorso, era una casa a due piani con degli archi, i proprietari erano contadini-patrizi benestanti. Al suo posto si costruirà una scatola di cemento a sei piani, un casamento, misurato su utile-cubatura. Quando si abbatte una masseria così vecchia, qualcosa dell’Europa si rovina, più di quando demoliscono un edificio sfarzoso». 

Tornando sulla nostra stradina, mentre l’assalto della città e gli espropri degli anni Settanta andavano mutando radicalmente il volto dei luoghi, veniva cancellato per sempre anche quel piacevole itinerario campestre, rimasto in uso per qualche secolo e percorso innumerevoli volte anche da chi scrive.

Un brandello del passato è in verità sopravvissuto e un tratto
di quella stradina 
è oggi compreso all’interno del grande Parco Mercatello 

(realizzato alla fine degli anni Novanta) e ancora costeggia 

il lato destro del torrente da cui il parco prende il nome. 


La nostra villa, invece, è oggi “annegata” tra gli edifici INA Casa del Rione De Gasperi (anni Sessanta) e a quelli più alti ed invadenti del più recente Quartiere Europa (anni Settanta).  Riprendersi dallo shock fu difficile. Tuttavia, pur vivendo altrove ma intimamente legati a questi luoghi, nel corso degli anni vi siamo tornati regolarmente per trascorrere qualche giorno nella nostra vecchia casa di vacanza.

 

«Succede: andando, si torna – per dirla con Beppe Severgnini 

(“Touring”, febbraio 2003) – […] in luoghi dove siamo già stati, 

e la cosa non ci annoia, anzi: ci piace e ci consola. 

Per questo […] torniamo nella città dove abbiamo vissuto, 

o nel posto dove siamo stati bambini». 


Anche noi abbiamo continuato a farlo e poco alla volta quella ferita, pur così dolorosa e sanguinante, anno dopo anno riuscì in qualche modo a rimarginarsi; e se, in senso metaforico, si era passati da un paradiso all’inferno, per me fu di ideale conforto adattare al nostro particolare, la seguente riflessione di Italo Calvino (“Le città invisibili”): 
«Ci sono due modi per non soffrire nell’inferno. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui:   

cercare e saper riconoscere che cosa, in mezzo all’inferno, 

non è inferno e farlo durare e dargli spazio».


Forse, senza accorgercene, è proprio nello spirito della seconda alternativa offertaci da Calvino che abbiamo continuato ad abitare la nostra vecchia casa. 

 

 

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA di Gaia Bay Rossi – Numero 16 – Febbraio 2020

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SICILIA. UNA NESSUNA CENTOMILA

 

 

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“La Sicilia è il puntino sulla i dell’Italia […] il resto mi par soltanto un gambo posto a sorregger un simil fiore”.

Hessemer, come tanti giovani aristocratici che si cimentarono nel Grand Tour, da Goethe a Tocqueville, da Dumas a Ruskin a Maupassant, rimase incantato da questa terra unica, straordinario insieme dei lasciti delle tante popolazioni che qui si stanziarono nell’arco dei secoli: fenici, greci, romani, ostrogoti, bizantini, arabi e normanni, francesi e spagnoli, tanto per citarne alcuni.

Possedere o perdere la Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo,
ha sempre rappresentato l’affermazione o la fine degli imperi
e delle civiltà che si sono incontrate con lei.


Grazie a questa preziosa miscellanea, la Sicilia può vantare di essere stata il primo Stato al mondo ad avere un Parlamento, istituito nel 1129 dal normanno Ruggero II (quando l’Inghilterra ne vide la creazione solo nel 1264).

 

Un Parlamento che non aveva le rappresentanze solo di clero e nobiltà, 

ma anche quelle delle città libere e che permise la piena collaborazione 

tra le varie etnie e fedi religiose.  

 

Non dimentichiamoci che la Cappella Palatina a Palermo è l’unico luogo di culto che mette insieme due religioni: la cristiana (nei due riti, cattolico e ortodosso) e l’islamica. Uno spirito di tolleranza religiosa e civile che nel resto d’Europa sarà riconosciuta solamente nel 1598 con l’editto di Nantes di Enrico IV di Francia. Si può tranquillamente affermare che il regno normanno-svevo in Sicilia ha posto le basi dello Stato moderno nell’isola.

In Sicilia è nata la letteratura italiana per mezzo della scuola siciliana.  

 

Dante fu un estimatore della lirica siciliana e del volgare con cui si esprimeva, tanto da commentare nel De Vulgari Eloquentia: “Il volgare siciliano si attribuisce fama superiore a tutti gli altri per queste ragioni: che tutto quanto gli italiani producono in fatto di poesia si chiama siciliano; e che troviamo che molti maestri nativi dell’isola hanno cantato con solennità”. La poesia lirica della scuola siciliana ebbe anche il merito di aver introdotto il sonetto (inventato da Jacopo da Lentini nella prima metà del Duecento).

Sempre in Sicilia si è avuto il più importante moto popolare europeo, quello dei Vespri del 1282 contro gli Angioini, dominatori francesi dell’isola  

 

(va segnalato che Dante, che in quella data aveva solo diciassette anni, nell’VIII canto del Paradiso indicherà come Mala Segnoria il regno angioino di Sicilia). Quindi, oltre alla capacità di crescita e assimilazione, la Sicilia esprimeva anche forza, carattere e ribellione. 

 

La più arguta e precisa definizione della Sicilia mi è stata data, in un’occasione culturale e conviviale, dal Governatore della Sicilia, Nello Musumeci, che mi ha spiegato che “la Sicilia è l’esagerazione dell’Italia. Nel bene e nel male. Se l’Italia ha la criminalità, la Sicilia ha la mafia; se l’Italia ha bellezze artistiche, la Sicilia ha capolavori straordinari di tutte le epoche, sia in terra sia sotto il mare; se l’Italia ha ottimi cibi, la Sicilia sorprende con tutte le sue variegate specialità.” 

 

La Sicilia è una terra antropologicamente complessa, storicamente e culturalmente divisa in due.

Da oriente a occidente si trovano due Sicilie uguali e contrarie, caratterizzate 

da usi e costumi diversi, ma anche da colori e sapori alternativi 

che pure riportano sempre alla medesima “sicilianità”  

 

fatta di tradizioni, orgoglio, accoglienza, attaccamento alla terra, e di tutto ciò che spinse Giovanni Falcone a dire: “Noi abbiamo avuto cinquecento anni di feudalesimo. Se ci si rendesse conto che il siciliano è prima di tutto siciliano, poi medico, avvocato o poliziotto, si capirebbe già meglio”. 

 

La Sicilia orientale, fu la parte maggiormente influenzata dalla civiltà greca, che ebbe inizio nel 756 a. C. con la fondazione della prima colonia, Zancle, l’odierna Messina. Seguirono Naxos, a lungo considerata la prima colonia greca, Siracusa, Catania, Megara Hyblaea, Gela, Selinunte, Akragas (Agrigento). L’80% di questi territori si trova

nella Sicilia orientale, dove i greci imposero la loro cultura raffinata, 

la loro architettura, le loro abitudini: fu la prima, vera, 

grande rivoluzione culturale del Mediterraneo.  

 

La Sicilia greca ha contribuito a formare dei siciliani lavoratori e imprenditori: se a Catania di notte c’è il terremoto e tutti scendono in piazza, subito dopo arriva l’uomo a vendere i palloncini!  

 

Non dimentichiamo che grandi filosofi e scienziati greci, come Archimede e Pitagora, nacquero in Sicilia e qui diffusero i loro insegnamenti. Mi piace ricordare, e non in tono polemico, la risposta di un siciliano con spiccato senso dell’umorismo ad un noto imprenditore che ha affermato: “Se voglio la cultura vado a Parigi, in Sicilia ci si va solo per il mare e il cibo”. La risposta è stata: “Volevo solo ricordarle che quando io, a Siracusa, discutevo di matematica, geometria, fisica, ottica, idraulica e meccanica, a Parigi vivevano sugli alberi. Distinti saluti. Archimede”.

Tutto questo mentre la Sicilia occidentale era, come dice l’antropologo e scrittore palermitano Franco La Cecla, “tutta presa dagli almeno quindici secoli 

di presenza africana, punica, cartaginese”.  

 

Gli arabi arrivarono in Sicilia nel IX secolo e la loro presenza fu stabile fino al 1492, quando Ferdinando II Il Cattolico, re di Spagna, stabilì l’espulsione per chiunque non fosse di religione cristiana, quindi musulmani ed ebrei. Al contrario, come abbiamo visto,

durante il regno degli Altavilla prima e di Federico II poi, cristiani ed arabi avevano convissuto tranquillamente in un clima fertile e creativo, che aveva arricchito 

e migliorato la Sicilia intera e, in particolar modo, la parte occidentale.  

 

Testimonianze di quella convivenza sono termini linguistici come il nome di alcune località: Alcamo (al-qamah, terra fertile), Marsala (marsa Allāh, porto di Dio), Salemi (salam, pace) ma anche in centinaia di parole siciliane: bagghiu: cortile (da bahah), cassata: il dolce di ricotta (da qashata), mischinu: poverino (da miskīn), taliàri: guardare, osservare (da ṭalaʿa), zaffarana: zafferano (da zaʿfarān) ecc. 

 

Per non parlare degli edifici con la cupola, denominati ‘cuba’, o delle località che iniziano con il toponimo ‘Cal’ (in arabo qalʾat castello o fortezza) come Calascibetta, Calatabiano, Calatafimi, Caltabellotta, Caltagirone, Caltanissetta, Caltavuturo. 

 

A Palermo c’è il palazzo della Zisa (dall’arabo al-ʿAzīza, la splendida) all’interno del parco reale normanno, il Genoardo (sempre dall’arabo Jannat al-arḍh ovvero “paradiso della terra”), che rappresenta uno dei migliori esempi del connubio di arte e architettura normanna e decorazioni e ingegnerie arabe, tanto da essere stato riconosciuto nel 2015 Patrimonio dell’umanità Unesco nell’ambito dell’ “Itinerario Arabo-Normanno di Palermo, Cefalù e Monreale”.

Nei rapporti tra Sicilia e mondo arabo, lo scrittore, saggista e giornalista siciliano Vincenzo Consolo così si è espresso: “Vengo dalla Sicilia, la regione 

più araba d’Italia e una terra fra le più arabe al mondo […]  

 

Con la civilizzazione araba, durata due secoli e mezzo, la Sicilia attraversò una sorta di rinascimento: scoprì le tecniche dell’agricoltura, vide fiorire le arti e la scienze e diffondersi princìpi di uguaglianza e tolleranza”.  

 

Ma c’è ancora un’ulteriore caratteristica da toccare sui risultati delle diverse dominazioni in Sicilia, e riguarda la gastronomia: i grani (oggi qui se ne coltivano ben 52 tipi) sono arrivati grazie agli spagnoli, il cuscus è arrivato dal nord Africa intorno al 1300 (oggi il particolare cuscus trapanese è inserito tra i “Prodotti agroalimentari tradizionali siciliani”), la pesca del tonno con la mattanza è stata introdotta da un Rais, persona di origine araba, la pasta con le sarde è l’invenzione di un cuoco arabo del generale Eufemio da Messina, il vino siciliano ha oggi la sua fortuna perché gli antichi greci spiegarono ai siciliani la coltivazione della vite nel VIII sec. a.C., e la cassata, nata in un convento nel 1400, nei secoli fu integrata dagli ingredienti introdotti dalle varie dominazioni: frutta candita dagli arabi, cioccolato dagli spagnoli e pasta di mandorle dai normanni.  

 

Resta un’ultima fondamentale questione ancora irrisolta nel confronto tra le varie parti della Sicilia: si dice arancino o arancina? 

 

 

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DAI TAPPETI QUASI VOLANTI AL FASHION di Michele Minisci – Numero 16 – Febbraio 2020

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DAI TAPPETI  QUASI VOLANTI AL FASHION 

 

Da piccolo sentivo parlare di un’azienda che fabbricava tappeti e coperte a Longobucco, in provincia di Cosenza, un centro poco lontano dal mio paesino calabrese. E nella mia infinita fantasia ogni tanto immaginavo questi “tappeti volanti” solcare il cielo sopra la piana di Sibari, sfiorando appena le cime degli ulivi centenari o accarezzando le profumate foglie degli aranci…  

 

Sapevo bene come nascevano queste stoffe, questi tappeti, queste tovaglie, queste coperte, perché nel mio paesino c’erano molte donne che avevano un telaio in casa, per i propri bisogni familiari (ma forse lavoravano anche per conto dell’azienda Celestino) e

mi fermavo spesso a guardare, ammirato e stupito, quelle mani velocissime 

e quei gesti quasi magici, come novelle Penelopi, che facevano scivolare 

le spole e i cannelli tra quel labirinto di fili


filati, trame labirintiche che trovavano alla fine sempre la loro via d’uscita per compiere il passo successivo, fino alla fine del percorso a cui dovevano arrivare: la tovaglia da tavola, il lenzuolo, l’asciugamano, le coperte.  

 

E tutto questo nel comune intreccio di trama ed ordito che andavano ad incontrare poi un altro filo, quello del coloratissimo disegno che attraversava orizzontalmente gli altri svariati fili che

davano infine origine, magicamente, al prezioso tessuto.


Ma  questo  l’ho  capito  solo  da grande,  quando ho intervistato per la nostra rivista l’avvocato Caterina Celestino, il deus ex machina dell’omonima azienda che affonda la sua esperienza in secoli di storia.  

 

Come ho immaginato, ancora, ritornando ad interessarmi delle eccellenze calabresi, che

quei timbri e ritmi degli antichi telai che facevano parte dell’antico laboratorio – … tracchete, tricchete, tracchete… – potevano benissimo 

rapportarsi ai ritmi del blues,

 

che io conosco molto bene perché frequentatore di quella musica, quelli che alle origini accompagnavano i canti gospel dei raccoglitori di cotone della Louisiana, con le sue 12 battute, il giro del blues! Come 12 erano le assi che formavano i vecchi telai. Accostamento forse fantasioso e azzardato!  

 

Comunque, con questo particolare background ho avuto il mio primo impatto col mondo dei Celestino. Poi, con la richiesta di una mia intervista, la signora Caterina mi ha preso per mano e nello showroom di Rossano, stupenda città bizantina e rinomata in tutto il mondo per il suo Codice Purpureo, riconosciuto dall’Unesco come bene universale, culla culturale della famiglia Celestino che adotta, anche nel logo, la cicogna, in omaggio al Mito di Antigone, mi ha fatto attraversare tutta la storia della tessitura calabrese e quindi della sua azienda.  

 

E mi ha parlato del nonno Eugenio, che all’inizio degli anni ’20 ha impresso una svolta epocale alla tessitura calabrese arricchendo la varietà e la qualità dei singoli manufatti, i cui prodotti sono realizzati con

filati pregiati in lino, cotone, canapa, lana, ginestra, seta altamente selezionati, impreziositi dagli originali disegni riprodotti sui vari tessuti 

che portano nomi che si richiamano alla storia, alla tradizione, 

alla terra, alle leggende arcaiche della Magna Grecia,


a cui questo territorio continua a fare riferimento, come “Toro cozzante”, da un antico reperto archeologico ritrovato nel sito di Sibari, oppure “Krités”, il giudice, suggestivo disegno di ispirazione bizantina, oppure “Ginestra”, “Liquirizia”, “Spiga”. Ancora il territorio, la terra, le radici!  

 

Eccellenze nella tessitura artistica

che sono valse all’azienda calabrese riconoscimenti da parte del mondo 

dello spettacolo e dell’arte e onorificenze istituzionali 

a livello nazionale ed internazionale:


alla Fiera di Parigi, all’Esposizione di Londra, di Chicago, di Milano, di Firenze, senza dimenticare le numerose ed illustri collaborazioni con i grandi ateliers e con le più rinomate Case di Alta Moda Nazionali, tra le quali Gattinoni, le Sorelle Fontana, ecc. Memorabile il grande poster che campeggia nello showroom di Rossano Calabro con la foto di Ava Gardner con un vestito realizzato dalla Bottega d’arte Celestino e una delle sorelle Fontana che dà gli ultimi ritocchi alle pieghe, che mi ha rapito e “costretto” ad ammirarlo per diversi minuti!   

 

Ma Caterina Celestino mi ricorda che i suoi

tessuti, che accuratamente elaborati da abili stilisti dell’Alta Moda Italiana 

hanno dato vita a confezioni destinate alle Case Reali, alla Città del Vaticano 

ed a Musei di tutto il mondo, oggi si incontrano con lo spirito innovativo 

delle nuove generazioni.


Ma il lavoro a cui la signora Caterina tiene di più è sicuramente Katherina, of course, un’originale collezione della Maison Celestino, che è stata presentata negli anni scorsi in svariate location prestigiose, riscuotendo grande successo. Atmosfere d’altri tempi accompagnano lo straordinario omaggio alla donna contemporanea attraverso le creazioni ideate ancora dalla designer Flavia Putignano ed inneggianti alle grandi donne con questo nome, come Caterina d’Aragona, Caterina Cornaro, Caterina de’ Medici, Caterina La Grande, Katharine Jeffert Schori, Caterina Ferrucci, Katherine Hepburn, Catherine Deneuve, Caterina Caselli (con una imperdonabile dimenticanza: Caterina Sforza, la leonessa di Forlì, la città in cui vivo!).

 

Questi i miti ispiratori per la nostra Caterina: indiscusse protagoniste di un omaggio alla donna che la Maison Celestino propone oltre il tempo e la storia.

Oggi l’azienda Celestino coinvolge decine e decine di lavoratrici in conto terzi,  

una folta schiera di sarte, tessitrici, esperte ricamatrici, non solo 

per tutta una serie di prodotti per la casa riferiti ad uso quotidiano (tovaglie, coperte, soprammobili, biancheria varia, ecc.), 

ma anche per l’alta moda,


avendo però di fronte un mercato nazionale con alcune aziende che propongono per alcuni prodotti prezzi altissimi, realizzati però con materiale non eccelso, mentre le produzioni Celestino di alta qualità hanno dei prezzi molto più accessibili. Disfunzioni del mercato, complice una martellante pubblicità con budget stratosferici!  

 

Sarebbe necessario ampliare questo discorso facendo rete, proponendo sinergie, coinvolgendo altre forze, altre associazioni, altre istituzioni. Problematiche che però in Calabria fanno ancora fatica a svilupparsi. Possiamo dire oggi con certezza che Caterina Celestino ha preso in mano la sua Storia e … l’ha gettata oltre l’ostacolo. Ma non è che l’inizio. 

L’arte della tessitura calabrese strizza l’occhio ormai anche all’Alta Moda Italiana e ha un nome ben preciso: Celestino.  

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UNA VIA ORIGINALE ALLO SVILUPPO DEL SUD di Agostino Picicco – Numero 16 – Febbraio 2020

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UNA VIA ORIGINALE   ALLO SVILUPPO DEL SUD 

 

Il binomio lavoro-emigrazione è oggetto di continuo esame da parte di autorità ed esperti. Un dato di fatto ormai certo, comunque, è che la disoccupazione dell’Italia meridionale è quasi tripla rispetto a quella del Centro-Nord. Quali soluzioni allora configurare a questo proposito?

Un punto fermo ormai raggiunto e comunemente condiviso dai più 

è che la rinascita del Mezzogiorno è affidata alla gente del Sud.


I meridionali hanno finalmente capito di dover essere artefici della propria crescita civile: soggetto e non oggetto di sviluppo. Il Sud dice un no secco all’assistenzialismo statale, che ha prodotto guasti non inferiori a quelli causati dalla criminalità organizzata, che ha espropriato i giovani della cultura della imprenditorialità, che ha generato clientelismi e corruzione.

Già don Sturzo parecchi anni fa ribadiva con forza l’esistenza 

di una “originale via meridionale” allo sviluppo.


Come si sostanzia questa via allo sviluppo dell’area meridionale? Innanzitutto, credo che occorra considerare le risorse specifiche esistenti nel Mezzogiorno, valorizzandole anche con l’impiego di tecnologie industriali avanzate. Si tengano presenti, ad esempio, sia le risorse agro-alimentari e dell’industria del mare (dal turismo alla pesca) sia l’artigianato, che costituisce una ricchezza tuttora non ben sfruttata commercialmente, sia le imprese a dimensioni medie e familiari, più rispondenti al costume e alla creatività delle popolazioni del Sud. 

Non deve mancare anche un occhio di riguardo allo stretto legame tra Sud Italia e futuro dell’intera area mediterranea, dove il Sud viene a trovarsi in posizione chiave. Come il Settentrione d’Italia ha allargato la sua zone d’influenza e di comunicazione verso l’Europa centrale, così  

il Mezzogiorno d’Italia – crocevia geografico e storico degli interessi 

e degli scambi economici e culturali tra Europa, Africa e Asia – 

gode come risorsa di una posizione geografica unica.


In tal modo potrebbe aspirare con successo a diventare “il Nord del Sud”.  Parlare di via originale allo sviluppo del Sud significa anche essere coscienti che la crescita civile del Meridione non può ridursi al solo sviluppo economico, per quanto ovviamente utile e necessario.

È necessario anche insistere sulla priorità di una formazione culturale e di un serio sforzo di preparazione professionale.


Lo smarrimento di certi valori ha prodotto la perdita del senso della socialità e della legalità. Una seria formazione morale e culturale contrasta l’atteggiamento di rassegnazione e di passività, quel senso di vittimismo che finisce poi per favorire la tendenza alla devianza. 

Affermare che l’elemento culturale e formativo occupa un posto importante per la crescita civile della nostra terra significa, inoltre, riconoscere che

la nostra gente è fornita di straordinarie doti creative e intellettive,

come di notevoli risorse umane.


Ciò è dimostrato anche dai nostri concittadini emigranti (in Italia e all’estero) che si sono affermati ai livelli più alti quando hanno trovato strutture adeguate. 

La valorizzazione di risorse finanziarie ed umane, insieme a qualche infrastruttura in più, la soluzione del problema della legalità, premessa indispensabile per lo sviluppo, l’esempio di chi scommette sull’idea di impresa, magari nella forma della cooperativa per competere meglio con il mercato, esprimono la speranza che, eliminate le varie fasi di assistenzialismo, di conflittualità tra le parti, di mediazioni politiche non trasparenti, si realizzi un’esperienza di crescita per tutto il Paese, nella convinzione che soprattutto sulle frontiere del lavoro si giocherà la permanenza dell’Italia in Europa. 

 

agostino_picicco
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