PALAZZO DELLE SEZIATE – Gemme del Sud – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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palazzo DELLE seziate

 

Gemme del Sud

Cagliari

 

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Nella importante piazza Indipendenza a Cagliari, si trova il Palazzo detto delle “Seziate”, cioè delle sedute presiedute dal Vicerè che, nella sua qualità di capo supremo della magistratura, ascoltava “paternalisticamente secondo l’uso e la mentalità dei tempi”1 le suppliche dei carcerati che gli pervenivano dall’attigua Torre si San Pancrazio. 

Costruito in un’epoca non precisabile, deve l’attuale struttura architettonica 

e, soprattutto, la facciata a un rifacimento del 1838, 

voluto dall’allora Re Carlo Alberto, come ricorda 

un’iscrizione sul prospetto.

 

 

Con il suo grande arco, chiamato “sortita di San Pancrazio”, separa Piazza Indipendenza da quella dell’Arsenale. 

Quando le carceri vennero trasferite alla fine del XIX secolo, vi si sistemò la pinacoteca insieme con gli uffici del museo e della Soprintendenza per i Beni Archeologici, trasferita poi alla Cittadella dei Musei2

 

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 Fonte: http://sardegnadigitallibrary.it/

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1- Nonnis G.L., Cagliari. Passeggiate semiserie. Castello, Cagliari, 2007, p. 55.  

2 Spano G., Guida della città e dintorni di Cagliari, 1861

 

ROCCO SCOTELLARO: UNA GLORIA POSTUMA di Pietro Dell’Aquila – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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ROCCO  ScOTELLARO:  UNA GLORIA  POSTUMA 

 

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ROCCO

Le persone che avrebbero dovuto essergli vicine presero le distanze e si defilarono. Più tardi, quando finalmente fu fatta giustizia e il sindaco di Tricarico fu riconosciuto innocente e vittima dell’odio politico, raccolse la sua dolente amarezza per quelle assenze. Certo non gli mancò la vicinanza della sua fidanzata Isabella Santangelo, “la figlia del trainante”, e la solidarietà degli amici veri come Carlo Levi, Manlio Rossi-Doria e lo stesso Mazzarone. Soprattutto non gli mancò la vicinanza dei suoi compagni contadini che contavano sul suo impegno per il miglioramento delle loro condizioni di vita.   

 

Inaspettatamente, nonostante l’asprezza della lotta politica dell’epoca, s’interessò a lui il Vescovo Raffaello delle Nocche al quale si era rivolta Isabella, ex alunna dell’Istituto Magistrale “Gesù Eucaristico” di Tricarico. D’altronde

 

erano tempi in cui ancora vigevano il rispetto e la stima tra uomini che, 

pur avendo opinioni e aspettative diverse, conservavano

il senso dei valori e la lealtà nel confronto delle idee. 

 

Nello stesso tempo circolavano biechi cospiratori e scrittori d’ignobili e menzognere lettere anonime che s’intravedono, caratterizzati dall’aria truce e sfuggente, nel grande telero realizzato da Carlo Levi per “Italia 61” e ora esposto a Matera nel Palazzo Lanfranchi. Sarà forse perché non esistono e non ci sono mai stati tempi migliori nella storia degli uomini. Infatti le cose sono andate su per giù sempre allo stesso modo “sotto il cielo stellato a foglie a foglie”.   

 

Forse per questo ho avuto una certa remora ad accodarmi alla schiera dei glorificatori post-mortem, anche se, più volte, per motivi professionali mi sono dovuto occupare di lui. Se ora lo faccio, è per dar notizia di due avvenimenti importanti che lo riguardano: prima la recente pubblicazione negli Oscar Mondadori della raccolta di Tutte le opere a cura di Franco Vitelli, Giulia Dell’Aquila e Salvatore Martelli e di seguito l’Album di famiglia di Rocco Scotellaro a cura di Carmela Biscaglia, con uno scritto di Francesco Faeta, edito da Grenzi. Si tratta di due volumi che, ciascuno a suo modo, costituiscono un punto fermo nella sterminata bibliografia scotellariana.

Per altri riferimenti fondamentali occorre riandare al Saggio di Fortini del 1974, alla Bibliografia critica su Scotellaro prodotta da Vitelli e edita da Basilicata nel 1977 ed agli atti del Convegno Scotellaro trent’anni dopo che si tenne tra Tricarico e Matera dal 27 al 29 maggio 1984 per iniziativa dell’Amministrazione Comunale. 

Credemmo allora che, a distanza di trenta anni, si potesse finalmente 

fare il punto su quanto ancora fosse attuale e vivo 

il testamento politico e letterario di Scotellaro

 

e finalmente, rasserenati gli animi, ci si potesse avvicinare alle sue opere senza dover fare i conti con il fantasma o lo spettro del suo mito. Dovemmo costatare che ancora resistevano i rancori delle parti, che non si sono ancora sopiti, e chi sa fino a quando continueranno a resistere. Rocco Scotellaro, come racconta la madre Francesca Armento, casalinga e “scrivana del vicinato”, nella sua dolente narrazione

nacque a Tricarico il 19 aprile 1923

 

ancora avvolto nel velo del sacco amniotico; segno di fortuna secondo il padre calzolaio “che misurava il piede destro e vendeva le scarpe fatte da maestro nelle fiere piene di polvere”.

Studiò, come si poteva a quei tempi, dopo le elementari nel suo paese, 

tra il Convitto dei Cappuccini a Sicignano degli Alburni e poi a Matera, 

a Potenza e a Trento dove conseguì la maturità classica 

prima di iscriversi a Roma

alla Facoltà di Giurisprudenza nel 1942.   

 

Era giovane, affrontava i problemi dei giovani cercando la sua strada tra teatro (Giovani soli), cinema – collaborazione con Luchino Visconti – i primi tentativi narrativi e le prime liriche, ben sapendo, come fa dire a Ramorra nel suo racconto Uno si distrae al bivio che

“Non sapeva che volere. Quante aspirazioni, quante lenti per l’avvenire! Cose incominciate, poesiole, articoletti, drammi di tre atti e tanti quadri.”

 

Dopo la morte del padre si spostò prima a Napoli e poi a Bari. L’inasprirsi delle condizioni politiche, economiche e sociali, che pesavano particolarmente sulla vita dei poveri contadini lucani, prodotte dalla guerra, lo indussero ad aderire alla fine del 1943 al PSI partecipando attivamente al Comitato di Liberazione di Tricarico e svolgendo un’intensa azione politica a sindacale. Alla caduta del Regime poté pensare che un nuovo ciclo si aprisse e che i suoi cafoni potessero entrare di diritto nella storia nazionale tanto da scrivere:

“siamo entrati in gioco anche noi/ con i panni e le scarpe e le facce che avevamo.”

 

Nel 1946 fu eletto Sindaco a guida della lista unitaria dell’Aratro. Durante la campagna per le elezioni politiche dello stesso anno conobbe Carlo Levi e Manlio Rossi-Doria. In quel ruolo s’impegnò con puntiglio democratico ad alleviare le difficili condizioni della sua gente, promuovendo ampiamente la partecipazione all’attività amministrativa dei tanti che avevano subito passivamente la realtà del ventennio fascista.

 

La sua azione si sviluppò, oltre che sul piano locale, 

anche in ambito nazionale e internazionale,

 

cogliendo ogni occasione di presentazione e di affermazione della propria realtà. La dura sconfitta del Fronte Popolare del 1948 gli farà scrivere i versi di “Pozzanghera nera”. 

Tanto impegno politico era destinato a suscitare la dura reazione dei partiti avversi.

 

L’8 febbraio 1950 fu arrestato con l’accusa di concussione per fatti risalenti 

agli anni 1947 e 1948. Il 24 marzo dello stesso anno fu prosciolto 

“per non aver commesso il fatto” e come 

“vittima di vendetta politica”.

 

La detenzione l’aveva comunque segnato al punto da dimettersi e indurlo a continuare il proprio lavoro a Roma e a Portici, occupandosi del Piano Regionale per la Basilicata commissionato dalla SVIMEZ con particolare riguardo ai problemi scolastici e dell’istruzione. Ormai convinto, anche sulla base dell’esperienza amministrativa acquisita, che i problemi del Sud si potevano risolvere solo in un ambito più vasto, poteva dire che

“Io sono un filo d’erba/un filo d’erba che trema/E la mia Patria 

è dove l’erba trema./Un alito può trapiantare/il mio seme lontano.” 

In seguito si occupò, con Carlo Levi, degli esiti della Riforma Agraria e, su proposta di Vito Laterza, cercò di dar voce ai suoi contadini con l’inchiesta sui “Contadini del Sud”.

L’intenso sforzo psichico, emozionale e intellettuale gli dovette produrre l’infarto 

che lo colse a Portici il 15 dicembre 1953 a soli trent’anni.  

 

Ma in vita Scotellaro, come ha documentato Giuseppe Settembrino, aveva già sofferto per il rifiuto della pubblicazione di alcuni suoi scritti e la valutazione non proprio positiva delle sue opere da parte dell’establishment culturale del suo tempo. Non lo risparmiarono nemmeno in morte. Lo dissero anche ubriacone, per la consuetudine di trattenersi coi suoi contadini e perché aveva scritto “Beviamoci insieme una tazza colma di vino! Che all’ilare tempo della sera s’acquieti il nostro vento disperato”, e dissoluto perché attratto dalla bellezza delle donne che lo gratificarono per la sua strana avvenenza di Rosso Malpelo. E la raccolta delle sue poesie vedrà la luce solamente dopo la sua morte su iniziativa di Carlo Levi che ne curò la prima edizione; i giudizi critici permarranno nonostante il Premio Viareggio del 1954 che ne consacrava il valore letterario. 

Così, alla fine, nonostante l’immenso funerale gremito di folla e la tomba a forma di fiamma che ancora guarda la Valle del Basento e su cui

sono incise le parole della sua poesia “Sempre nuova è l’alba”,

 

tra le donne dei suoi contadini, che non vollero credere alla sua morte, si sparse la diceria di un suo rapimento da parte dei Russi che lo vollero con gli altri eroi della rivoluzione a dirigere la battaglia del “sol dell’avvenire”.

 

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SCOTELLARO
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LE GOLE DI LARDERIA – Gemme del Sud – Numero 18 – Settembre-ottobre 2020

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LE GOLE    di            larderia

 

 Gemme del Sud

Motta Camastra

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 (Conosciute come le gole dell’Alcantara) 

Ci troviamo nel Parco Fluviale dell’Alcantara (si pronuncia Alcàntara, derivando dall’arabo Al Qantarah), nel tratto tra Messina e Catania e in particolare nel territorio compreso tra Motta Camastra e Castiglione di Sicilia. Il fiume nasce da alcune piccole sorgenti nei Monti Nebrodi, durante il suo percorso attraversa i campi coltivati alle pendici del Monte Mojo (il cono vulcanico più distante dalla sommità dell’Etna, con cui condivide il bacino magmatico), arrivando più avanti in località Fondaco Motta dove si trovano le gole dell’Alcantara. Le gole formano un canyon naturale con pareti alte fino a 30 metri e larghe dai due ai cinque metri ed è frutto di un processo lungo e complesso, in cui sono intervenuti dei movimenti tettonici, l’erosione del fiume e tre colate laviche importanti. Le pareti sono state formate da queste colate di lava basaltica che, raffreddandosi, hanno creato queste strutture dalle

forme prismatiche, che lasciano i visitatori senza fiato. Tra queste pareti ci sono 

le gole, il cui primo tratto è oggi accessibile e da dove è possibile ammirare 

tutto lo splendido scenario.


Questa è la storia della formazione di questo luogo unico, anche se molto più suggestiva è la leggenda che vi è dietro: vi erano due fratelli contadini di cui uno buono ma cieco, e uno avido. Al momento di dividere il raccolto di grano il contadino disonesto, approfittando della cecità del fratello, riempì tutto il proprio moggio dalla parte più profonda, mentre rivoltò quello del fratello in modo da contenere pochissimo grano. Gli dei se ne accorsero e in preda all’ira scagliarono un fulmine che uccise il contadino avido, trasformò il cumulo di grano nel cono di Monte Mojo e spaccò la terrà creando le gole di Alcantara. Il fiume, le gole e il territorio circostante sono oggi tutelate dall’Ente Parco Fluviale dell’Alcantara, impegnato della tutela e promozione del territorio naturale.

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 Foto di cristinamandarini da Pixabay

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GEMME DEL SUD di Redazione – Numero 18 – Settembre-Ottobre 2020

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GEMME DEL SUD

 

Mentre i nostri sostenitori, penne dallo spiccato senso benefico, arricchiscono le pagine di Myrrha con delizie intellettuali sempre apprezzate a questo progetto, la Redazione ha deciso di ampliare il proprio impegno con ‘Gemme del Sud’. Vogliamo innanzitutto accelerare il processo di moltiplicazione delle scoperte che gli amanti del Sud fanno di giorno in giorno.  Vogliamo anche riparare una memoria che, con gli anni, si fa meno efficiente nell’immagazzinare un così tanto complesso, multidisciplinare e dinamico forziere di incredibili beni.

Nessuna di essi sarà la gemma tra gemme. 


Non saranno tesori, perché quelli competono a quelle penne ispirate che le incastonano nella struttura -parimenti preziosa – che dà forma ai gioielli; saranno brevi e intensi ricordi di qualcosa che c’è e attende l’attenzione di coloro che vorranno esaminarle più approfonditamente.

 

Le Gemme, dunque, nascono dal desiderio di condividere la Bellezza, 

consapevoli che è sempre apprezzata dai tanti che ci seguono.  

 

Come i nostri dotti articoli, questa nuova esperienza editoriale racconta di memorie da far emergere, con un formato semplice e diretto, che aiuti tutti coloro che passano da luoghi dimenticati, o comunque non adeguatamente (ri)emersi, di lanciarsi in avventure inusuali. Il web infatti non è “solo” ricco, è “troppo” ricco. In questa moltitudine di informazioni “perdersi” è semplice. Le Gemme quindi

rappresenteranno dei puntini su una mappa che si arricchirà col tempo  

 

Un tempo che, come ormai sa chi ci legge, Myrrha considera in maniera opposta a ciò che si attenderebbe da un internet iper-veloce. Le Bellezze, infatti, meritano riflessione. E la riflessione non ha orario.

 

La Redazione. In collaborazione con Paola Ceretta, Martina Frattari, Claudia Pasapadoro, Antonella Raponi.

 

 

 

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JOSEPH TUSIANI UN DONO DEL SUD di Luigi Ianzano – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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JOSEPH TUSIANI UN DONO DEL SUD

 

Nei giorni di Pasqua è scomparso a New York Joseph Tusiani, nome significativo della letteratura internazionale, garganico d’origine, profondamente legato al suolo natìo. Un maestro che ha trasmesso amor patrio e rispetto per quella lingua di terra ampiamente usata per esprimersi, accanto alle lingue nazionali italiana e inglese, e poi allo spagnolo, e a quell’antica madre che tutte le genera: il latino.

 

Poeta, traduttore, saggista e accademico newyorkese 

perennemente sospeso tra due mondi

 

(“Due lingue, due terre, forse due anime”), emigrato negli USA nel 1947 dopo le Lettere classiche a Napoli. Ha accumulato in 96 anni una monumentale bibliografia. Saltano agli occhi le prime traduzioni in inglese delle Rime michelangiolesche, della Gerusalemme Liberata e delle trentamila ottave del Morgante. Prestigiosi riconoscimenti, come la nomina a Professor Emeritus del Lehman College, il Governor’s Award of Excellence dello Stato di New York, la Medal of Merit del Congresso degli Stati Uniti. Sono attivi, fra gli altri, un Fondo presso l’Università del Salento e un Centro Studi nel suo paese natale di San Marco in Lamis, al cui sito rimando per l’esaustiva conoscenza e i molteplici raccordi (qui). Segnalo il docufilm di Sabrina Digregorio, Finding Joseph Tusiani the poet of two lands, prodotto da Atena Films nel 2012 con la partecipazione di Daiana Giorgi e Furio Colombo (anteprima in copia-visione qui) e la rimodulazione della trilogia autobiografica a cura di Raffaele Cera e Cosma Siani, In una casa un’altra casa trovo, edita da Bompiani nel 2016. 

 

Tornano in mente le svariate occasioni di incontro, la corrispondenza epistolare, le esperienze di collaborazione; la premura, l’insegnamento paziente, il misurato accompagnamento.

Un lungo e serio percorso in cui, nel rispetto più ricercato, 

entrambi abbiamo dichiarato, l’uno all’altro, 

anche visioni differenti.


Si dice che i buoni maestri potranno vedersi orgogliosamente superati dagli allievi, che faranno onore a tanta levatura. Ma questo non può valere per Tusiani, primus per mille motivi. Il magister dà un’impronta, una tonalità, ti offre una password e ti manda per la tua strada, che non può essere la sua quando a dividere sono il tempo, lo spazio, l’esperienza formativa, la vita vissuta. Resterà saldo il legame delle radici, di culla e bottega, e rami e foglie avranno l’assemmigghie

 

La lingua materna profuma per entrambi di colostro.

Per lui scrivere in dialetto ha significato sopravvivere in un mondo 

assai diverso dal nido, rimanere ancorato ad una realtà primordiale, 

mitizzata, da cui si è visto sradicato.


È il sospiro del vecchio emigrante, seppur fortunato e gratificato. Il nostos gli ha dittato dentro emozioni così intense da perforare il cuore di ogni conterraneo, che nella parola antica può riassaporare il calore e la sicurezza del seno materno. È il grande ruolo dei poeti, la loro missione comunitaria, profetica, sacerdotale.

Io ho percorso un’altra strada, con la mano nella sua, partendo certo da lì, 

dalla stessa mixtura di sangue e terra argillosa,


riscoprendo subito intorno a me una degna bellezza, come quella espressa da Francesco Paolo Borazio e altri autori di pregio a me più vicini per l’uso del dialetto in poesia: una parola antica che diventa sempre nuova con tutta la potenza e l’eredità dell’antico; un neodialetto capace di parlare a tutti gli uomini indistintamente e non solo a coloro cui certe sonorità suonano familiari; una lingua scelta per essere universalizzata, che non allude a tipicità di un luogo ma a ragioni che stanno a cuore all’uomo in quanto uomo.

Certo, si fa fatica ad entrare in una poesia difficilmente svestibile. 


Ma è fatica che vale, quella dello svelare. Proviamo a rileggere le versioni originali francesi di un Baudelaire, così come i versi inglesi di Tusiani, che vanno assaporati in inglese, e quelli latini in latino, quando il poeta riesce brillantemente ad esaltare tutte le potenzialità espressive del testo con le figure di suono, prima che di significato, quando è il suono – come per la musica – a dare significato immediato.

Privilegiati coloro che hanno potuto assaporare i versi di Tusiani 

dalla sua viva voce, calda e vibrante, 


per fortuna registrata in più occasioni. Segnalo l’ebook curato da Antonio Di Domenico, Joseph Tusiani un italiano di New York (Dbooks 2012): saggi, audioliriche e videointerviste che esplicitano tutta la forza e la complessità dell’umanista (www.youtube.com/watch?v=nPO3rmcTkxs&feature=youtu.be). 

 

Provo quel sano orgoglio che spinge alla gratitudine, con la giusta riconoscenza e umiltà. Sono anche un po’ ingannato dal pensiero che, in fondo, 

Tusiani meriterebbe maggiore risonanza, che si dovrebbe sgomitare 

per assicurargli visibilità.


Ad onor del vero, a tanto pensa – prima o poi, e da solo – il nostro stesso valore; soprattutto poi, perché il tempo sarà impietoso con le inevitabili sbavature e clemente quanto basta con la verità che si impone. Ciò che si disvela già, prepotentemente, agli occhi di chi sa vedere e al fiuto di chi sa intuire, è la radice aromatica di una terra che, nonostante le contraddizioni, dona frutti meravigliosi. E i frutti sanno così bene raccontare.

 

 

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JOSEPH TUSIANI POETA DEI DUE MONDI di Salvatore Giannella – Speciale aglie fraveglie – Maggio-Luglio 2020

 

JOSEPH TUSIANI POETA DEI DUE MONDI

 

come lo dipinge nel testo centrale Luigi Ianzano, ma anche un uomo generoso che ha donato molte parole ed emozioni dal suo appartamento all’undicesimo piano del grattacielo di Manhattan e ha significato molto per la comunità del mio blog Giannella Channel. 

Pescando nel pozzo della memoria, estraggo alcune diapositive immaginarie di questo nostro rapporto personale, che delinea il generoso lato umano di quel “poeta dei due mondi”.
 

Galeotta fu un’intervista.

 

Il primo contatto via mail con Joseph risale al gennaio 2015. Avevo avviato una serie di eccellenze antropologiche di italici, uomini e donne che hanno dato tanto lustro alla comunità italiana residente negli Stati Uniti e nel mondo e gli scrissi che volevo cominciare questa collana di ritratti proprio da lui. Sceglievo lui per motivi vari: perché era il più bravo nel combinare poesia memoria e musica, perché aveva una storia affascinante alle spalle, perché fisicamente somigliava a mio nonno mugnaio nel Tavoliere pugliese, perché di lui mi aveva parlato bene in più riprese la mia antica maestra e poetessa, Grazia Stella Elia, che aveva il privilegio di sentirlo da anni telefonicamente e che aveva condiviso una festa di compleanno, trasformandosi da poetessa in cronista per il mio blog.

 

Alla mia richiesta di intervista, Tusiani rispose con una mail che ho rispolverato: “Caro dottor Giannella, non c’era affatto bisogno di una Sua presentazione. Conoscevo bene il Suo nome dal tempo del Caffè Letterario Ala d’Oro di Lugo in Romagna, dove ci è capitato di essere accolti in serate di presentazione di libri: un ambiente stimolante che mi aveva ricordato quello delle Giubbe Rosse di Firenze e di altri celebri Caffè Letterari dal Rinascimento in poi. E, soprattutto, ero al corrente della Sua amicizia, letteraria e personale, con Tonino Guerra (La Valle del Kamasutra, Polvere di sole, l’Aquilone e altro da Lei curato). Può dunque immaginare il piacere e la sorpresa di questo vecchio americano Italicus da Lei scelto quale primo dei molti “Italici” che daranno lustro e importanza al Suo blog Giannella Channel. Ma come potrò mai ringraziarLa sufficientemente di tanta stima e di tale onore? Posso soltanto balbettare un semplice “grazie,” ma colmo del calore mediterraneo di cui noi pugliesi siamo portatori ed esportatori. Con viva cordialità. Joseph Tusiani. 

 

PS: Mi permetto di mandarLe, in umile omaggio, dei versi appena composti. Spero che Le piacciano. T.

 

Where Are The Snows Of Yesteryear

 

Mais ou sont les neiges d’antan 

(Villon) 

Sì, dove son le nevi degli altri anni? 

Quanti inverni passati 

dall’inizio del mondo 

e quanta neve caduta 

e scomparsa nel nulla— 

o nel tutto? 

Vedo milioni di bimbi 

che si sono rincorsi e scontrati 

nei vortici bianchi 

d’ogni nuova neve caduta 

e vedo bianche valanghe

che in sùbita tormenta 

hanno travolto e sepolto 

giovani baldi e gagliardi 

che nessuno rammenta.

Dove sono le nevi di ieri— 

tutte finite nel nulla 

o nel tutto di quello che dura 

e preserva, quale vediamo, 

la circostante Natura? 

Allègrati, Villon: 

come la neve, scompare 

vanità, cupidigia, menzogna, 

finanche la tua tomba. 

Ma qualcosa di noi 

sulla terra rimane: 

un nulla di parola 

ma un tutto non breve e diverso 

che nella parola resiste: 

ed ecco l’eterno in un verso. 

Joseph Tusiani

Per la poetessa degli ulivi. 

 

A quel primo contatto seguirono altri: oggi sul mio blog se ne contano quattro (qui il link utile che porta il lettore a ripercorrerli tutti e ad ascoltare la sua voce: www.giannellachannel.info/joseph-tusiani-gargano-manhattan-emigrante-diventato-poeta-due-terre-grazia-stella-elia/). Ma l’anno successivo, luglio 2016, l’occasione per un nuovo contatto fu dato proprio da un compleanno di Grazia, la poetessa rimasta in Puglia, quella che conservava gelosamente il numero di telefono riservato di Joseph. Grazia compiva 85 anni e io, che ho un debole per poeti e maestri (non a caso il mio ultimo, per ora, volume ha per titolo “In viaggio con i maestri”) mi inventai un libretto con 85 testimonianze su di lei da parte di amici e autorevoli estimatori della sua opera. Scrissi al nostro Italicus in Manhattan e la sua risposta fu fulminea: 

“Caro Dr. Giannella, vorrei essere il primo a contribuire con un ‘pensiero’ per gli 85 anni di Grazia. Le dico, però, che, da quando ho avuto la fortuna di conoscerla personalmente, io non la vedo più soggetta agli anni come ordinaria creatura umana. Per me ella è, più che mai, la poetessa degli ulivi, che degli ulivi canta la forza, e agli ulivi affida i destini della nostra terra di Puglia. 

 

Quando poi penso a Grazia scrittrice, resto, dirò, folgorato dalle centinaia di recensioni, articoli, saggi, scritti per poeti e personaggi minori e maggiori, per occasioni e ricorrenze solenni e semplici—-la prova, questa, del suo attaccamento alla sua terra e alle sue profondissime radici. Ed ecco il capolavoro della studiosa, l’intramontabile e insuperabile Vocabolario del dialetto natio. A Grazia Stella Elia auguri, auguri per i prossimi 85! Joseph Tusiani”.

 

A Napoli sotto le bombe.

 

L’amicizia sul web veniva arricchita dalla condivisione di graditi doni cartacei. A Natale del 2016 gli mandai in dono un mio libro: Operazione Salvataggio (Chiarelettere), dedicato agli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre in Italia e nel mondo. Non tardò a farsi vivo, con generose parole: “Egregio e caro Dr. Giannella, prima di immergermi nella lettura del Suo OPERAZIONE SALVATAGGIO, desidero ringraziarLa della dedica che fa onore a Lei per la Sua generosità e bontà nei miei riguardi. Un mese fa, se non erro, ho avuto la gioia di vederLa in televisione, ospite di Benedetta Rinaldi nel suo notissimo programma “Community”. 

 

Ho già letto alcune interessantissime pagine del Suo volume, da cui ho molto da imparare su eventi e personaggi della nostra storia. Un esempio lampante potrebbe essere il particolare che, nonostante fossi vivo e attivo spettatore della Seconda guerra mondiale, io non conoscevo il numero delle incursioni aeree e addirittura delle bombe sganciate sulla martoriata Città di Napoli, dove, in uno dei molti bombardamenti, io, come gli altri, dovetti correre al riparo. 

 

Grazie per l’appassionata e minuziosa ricerca di cui noi oggi beneficiamo e grazie per questo grande e inatteso dono natalizio, che non potrò dimenticare. Con la più viva cordialità, Joseph Tusiani”.

 

La lucciola che vince la notte.

 

Una successiva occasione la fornì il 93mo suo compleanno, gennaio 2017, quando gli scrissi: “Caro Tusiani, stanotte ho sognato 93 lucciole che formidabilmente illuminavano la notte intorno a me. Un abbraccio augurale da una Milano insolitamente avvolta da una polvere di sole”. 

 

Mi rispose con parole più che mai attuali e incoraggianti:

“Tenga a mente, Salvatore: una sola lucciola può far guerra alla notte e sconfiggerla”.

 

Tralascio gli altri arricchenti contatti via etere. Ma non posso chiudere senza una singolare coincidenza datata febbraio di quest’anno, 2020. Mi è capitato di essere operato nell’ospedale Morgagni-Pierantoni di Forlì, una cittadella-faro di eccellenza della salute per l’Italia e per il mondo (i suoi medici, cito per tutti il primario di otorinolaringoiatria Claudio Vicini che mi ha estirpato un polipo ostruente il canale respiratorio, vengono spesso invitati all’estero per gestire corsi di formazione di allievi medici).

Ode a San Biagio.

 

In quei giorni in corsia Anna, la giovane infermiera che si è presa cura di me, era originaria proprio di San Marco in Lamis. Le parole sul suo illustre compaesano Tusiani hanno alimentato i nostri dialoghi, tra una medicazione e l’altra. Così ho appreso che il patrono degli otorinolaringoiatri e delle malattie da essi curate è Biagio, santo che viene celebrato ogni 3 febbraio, con una liturgia che prevede la benedizione delle gole con due candele incrociate proprio all’altezza della gola. 

 

Dimesso dopo l’intervento, mi sono trovato a passare in auto in una frazione di Bulgaria (Cesena) dove mi ha colpito la sagoma di una chiesa che mi è stata indicata da un passante come dedicata proprio a lui, a San Biagio. Tornato a casa, ho voluto approfondire la conoscenza di questo martire e vescovo di Sebaste (Armenia), martirizzato nel 316 per decapitazione, sotto la dominazione di Licinio (307-323). Fu sepolto nella sua cattedrale a Sebaste. Nel 732, mentre gli Arabi incalzavano nella loro guerra di espansione religiosa, le spoglie di San Biagio furono imbarcate da alcuni Armeni alla volta di Roma. Un’improvvisa tempesta costrinse la nave a interrompere il viaggio nelle acque di Maratea (Potenza). Gli abitanti della città lucana raggiunsero l’imbarcazione per portare soccorso e vi trovarono, oltre all’equipaggio, le sacre reliquie conservate in un’urna marmorea, che fu portata in cima al monte dove rimase custodita gelosamente e lo stesso monte fu dedicato al Santo: oggi, come ricordo bene in quanto l’estate scorsa sono andato a presentare il mio libro al Grand Hotel Pianeta di Maratea, una gigantesca statua di San Biagio s’innalza proprio sopra il monte omonimo. Direte voi: che c’entra San Biagio con Tusiani? C’entra, c’entra. Perché proprio a quel santo Joseph Tusiani ha centellinato sue luminose parole poetiche. Eccole:

 

 

 

 

 

“Mente mia che sempre corri, 

oggi devi andare adagio 

più che festa di candele, 

oggi è la festa di San Biagio 

che, a febbraio, proprio all’inizio – 

così vuole il sant’uffizio – 

si rivela di parola  

col tastarci ancora la gola. 

Non con olio ce la unge 

(d’olio santo ce n’è tanto) 

ma con cera che non punge, 

con due candide candele 

che di seta un fil congiunge 

e fa simili a una croce. 

Questa croce, sacra e sola,

 

cerchia un attimo la gola, 

e mantiene la parola 

efficace ieri e ora, 

giorno della Candelora. 

O San Biagio benedetto, 

agli amici ho sempre detto 

che le tue candele a croce 

più che laser fanno effetto, 

e perciò prenditi cura 

della mia or vecchia voce, 

sì che, ancora squillante e pura, 

fuori emerga dalla gola 

quella che per me è tutto – 

la Parola, la Parola”.

 

La parola, la parola: 

 

ecco la chiave dell’immortalità di uomini come Joseph Tusiani. A dispetto del necrologio apparso sul New York Times  (“Joseph Tusiani di New York City, poeta laureato emerito dello Stato di New York, è morto in pace per cause naturali l’11 aprile 2020 all’età di 96 anni”) io credo, con Attilio Bertolucci, che i poeti non muoiono mai. 

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I CAPITELLI DI NAPOLI di Fernando Popoli – Speciale aglie fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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I CAPITELLI DI NAPOLI

 

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non erano un nuovo ordine architettonico ma una famiglia di illustri giuristi e uomini politici che dettero il loro prezioso contributo alla città e alla nazione. 

Io fui erudito su questa importante famiglia da mia zia Cettina che, appena in età di capire, intorno ai dieci anni, mi portò a fare una visita al Museo di S. Martino, a Castel S. Elmo, dove c’era la culla d’oro che Guglielmo Capitelli, sindaco di Napoli, aveva regalato a Vittorio Emanuele III come suo padrino di battesimo. La culla, nel corso degli anni, è stata poi trasferita in un altro museo. Mia nonna, che era discendente dei Capitelli, Quindi io, in giovanissima età, in un contesto di provata fede monarchica, presi confidenza con questi miei avi alla lontana e seppi che Guglielmo Capitelli era lo zio di mia nonna da parte materna e Domenico era il suo prozio.

Ma chi era Domenico e cosa aveva fatto nella vita per assurgere a tanta gloria?


Egli era un insigne giurista e tenne per molti anni una scuola privata di diritto a Napoli, ispirata alle concezioni filosofiche di G. B. Vico e seguita da moltissimi studenti. Esercitò la professione forense con circa quattrocento difese legali ed ebbe numerosi incarichi istituzionali: fu vice presidente della Corte Suprema di Giustizia in Napoli, componente della Commissione Censoria della magistratura, membro della Commissione deputata a compilare un progetto di codice ecclesiastico, componente della Commissione di Pubblica Istruzione, membro della Commissione del Ministero di Grazia e Giustizia per preparare la revisione del codice.   

 

Nel 1848, insieme ad Alessandro e Carlo Poerio, partecipò alle lotte per le libertà costituzionali. Candidato alla Camera, fu eletto deputato con oltre diecimila preferenze. Gli fu offerta la carica di Ministro Segretario di Stato di Grazia e Giustizia e per ben quattro volte rifiutò. Successivamente il parlamento lo nominò presidente dell’Assemblea Costituzionale.

 

Si prodigò per una società liberale e democratica, più giusta ed egualitaria, 

dove ogni cittadino poteva avere le stesse possibilità di partenza 

e migliorare le sue condizioni con le proprie capacità. 

 

Lentamente la restaurazione monarchica prese il sopravvento e l’Assemblea dopo qualche anno fu sciolta per regio decreto. Deluso, si ritirò a vita privata e morì a Portici per l’epidemia del colera. La sua dipartita fu menzionata in moltissimi giornali in Italia e all’estero. Di lui restano importanti scritti: “La filosofia del diritto e l’arte di bene interpretarla”, “Scienza del diritto e le arti che ne derivano”, “Commento ideologico, storico, politico delle leggi relative all’accessione industriale, mobiliare”, “L’Europa romano – germanica – economica – politica, lavoro”, “Se il volontario godimento di un indulto includa la tacita confessione del reato”. Nella città di Napoli, a suo perenne ricordo, c’è una bella strada a lui intestata nel centro storico.

Sulla scia dell’esperienza paterna anche Guglielmo Capitelli 

si dette alla vita politica e al miglioramento sociale.

 

Si laureò in lettere e filosofia e giurisprudenza all’Università di Napoli. Entrò nel Liberale Comitato dell’Ordine e collaborò con la “Nazione” di Firenze e “Il Risorgimento” di Torino. Fece parte del Comitato d’insurrezione presieduto dal marchese d’Afflitto e, all’arrivo di Garibaldi, si arruolò nella Guardia nazionale.

Si recò a Londra, dove fu presentato ad importanti uomini politici 

quali Gladstone e Disraeli. Tornato a Napoli iniziò la sua attività pubblica, 

dando un notevole contributo alla sua città


Fu eletto consigliere comunale e preparò il regolamento del Consiglio; successivamente venne eletto assessore e infine nominato sindaco nel 1868. Grazie ad un prestito statale di sedici milioni concesso per buona amministrazione, aprì e ampliò la strada da Via Duomo al Museo Nazionale, dalla Via Marina alla Riviera di Chiaia e al Corso Vittorio Emanuele, approvò il progetto di Antonio Dohrn per l’acquario nella villa comunale, sistemò la contrada Fosso del Grano tra Portalba e il Museo Nazionale. 

 

Incrementò l’istruzione con l’apertura di asili infantili, scuole elementari 

e scuole tecniche municipali. Acquisì dai Militari Castelnuovo, 

che divenne sede del Consiglio.


Tenne a battesimo Vittorio Emanuele III al quale regalò la famosa culla d’oro, fu ricambiato dal padre Vittorio Emanuele II con il titolo di conte. Ebbe poi alterna fortuna alle elezioni della Camera dove fu eletto solo una volta. Nominato poi prefetto politico in molte città, portò sempre avanti le sue idee liberali, diventando il maggior esponente della Destra moderata. Acquisì una vastissima biblioteca che donò all’Archivio Storico Municipale. Fu brillante anche come scrittore, fra i suoi testi ricordiamo “Prose”, “Pochi Versi”,” “Della vita e degli studi di Domenico Capitelli”, ”Studi biografici”, “Memorie e lagrime”, “Patria e Arte”, “Cuore e intelletto”, “Un libro sul Papa futuro”.

 

Il suo archivio personale,

 

con importanti lettere ai maggiori politici dell’epoca – Minghetti, Rudinì, Sella, Bonghi – fu conservato dalla figlia Maria Quazza Capitelli ed

 

è stato fonte preziosa per studi successivi sulla Destra storica 

nel Mezzogiorno d’Italia.

 

Trasferitosi a Nervi in Liguria vi trovò la morte nel maggio del 1907, lontano dalla sua adorata città. 

 

Questi i Capitelli, uomini illustri, studiosi, eruditi, che lavorarono per lo sviluppo e il benessere di Napoli ed io ne venni a conoscenza in quegli anni lontani quando adolescente mi affacciavo alla vita.

 

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LE NUOVE FRONTIERE DEL LAVORO di Agostino Picicco – Speciale Aglie Fravaglie – Maggio-Luglio 2020

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LE NUOVE FRONTIERE DEL LAVORO

 

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Ne sanno qualcosa i forzati dei concorsi con diecimila concorrenti per cento posti e se va bene ne escono con una idoneità che li rende idonei a nessun posto, quelli che affrontano decine di colloqui che terminano con il solito “Le faremo sapere” e poi nulla più, i giovani dei lavoretti in nero, prendere o lasciare, gli illusi dei corsi di formazione che costano ma sono sostanzialmente inutili, quelli che inviano il curriculum a centinaia di ditte, gli “interinali” cronici, che lavorano tre mesi qui, tre là….

Ma se non si può eliminare l’emigrazione causata dalla ricerca di un lavoro altrove, almeno la si può limitare o incanalare secondo criteri mirati e intelligenti.


Per fare ciò occorre che i giovani, maggiormente costretti ad abbandonare la loro terra, si attrezzino di strumenti ritenuti irrinunciabili oggi nel mondo del lavoro: la concezione della flessibilità del mercato del lavoro e la mobilità di persone e investimenti. E’ naturale però che accanto ad una mobilità in direzione Centro-Nord, occorra anche

agevolare quella delle imprese verso il nostro Sud, per alimentare 

un circolo virtuoso di occasioni di sviluppo e di crescita,

 

riscoprendo valori di dignità dell’uomo e di solidarietà attiva, talenti che il Mezzogiorno ha in abbondanza e che è giusto impiegare, insieme ai suoi giovani che da troppo tempo aspettano risposte dalla classe dirigente e dal Paese. 

Cosa significa tutto ciò? In che cosa ci tocca concretamente? 

Fuor di retorica, pensare oggi di dare un lavoro a tutti sotto forma di lavoro salariato, sarebbe una pura utopia o una pericolosa menzogna. In particolare occorre ripensare il mondo dell’economia e dell’occupazione, superando la cultura del “posto fisso”.

Occorre recuperare il valore proprio del lavoro, in contrapposizione 

al valore del “posto”.

 

In tal senso si esige uno sviluppo maggiore dei rapporti di lavoro a tempo parziale, del lavoro interinale, del telelavoro, delle attività non profit, cioè del lavoro che entra nella produzione di servizi sociali, di attività lavorative che la società apprezza e di cui fa crescente domanda, senza che siano sottoposte alle regole impersonali e anonime del mercato del lavoro. 

La vera imprenditorialità, allora, diviene quella legata al territorio e alla cultura locale.

La strada per rilanciare le regioni del Mezzogiorno che sono rimaste indietro 

non è costituita da sussidi o dalla creazione di posti fittizi, 

ma da condizioni favorevoli per le iniziative locali.

In altre parole il Sud ha bisogno di vero aiuto e non di stampelle. Oggi indicare tali condizioni favorevoli nel contesto di un orizzonte di rigore economico e di virtù finanziaria non è più sufficiente. Occorre avere coraggio e assumersi la responsabilità di guardare oltre, per costruire su basi solide un futuro migliore.

E’ necessario rendere competitiva l’economia meridionale

 

e rendere conveniente la localizzazione nel Mezzogiorno di investimenti in attività produttive ad alto valore aggiunto, capaci di competere nel grande mercato europeo e di creare occupazione che non sia né irregolare né effimera, come è attualmente quella dei lavori socialmente utili. 

La nostra terra potrà ridiventare grande quando si creeranno le condizioni per una riproposta di impegno e di messa a disposizione delle capacità professionali. Il giovane meridionale non può più continuare a rifugiarsi nella famiglia, nella precarietà lavorativa, nel clientelismo col potente di turno, nella fuga dalla propria terra. Per questo

è necessario anche un intervento deciso dello Stato perché oggi certi problemi, 

anche se locali, toccano la nazione nella sua globalità

 

– le società moderne non sono più organizzate intorno ad un centro, ma sono a rete. La competizione si sposta dal livello delle imprese a quello delle regioni economiche. Per questo si richiede uno Stato che funzioni efficacemente nei servizi e nelle politiche pubbliche essenziali, che sia imperniato sulla sussidiarietà e non declinato su macroregioni (che sarebbero solo verticismo spostato) ma

 

su livelli regionali sperimentati, dotati di autonomia fiscale 

e capacità decisionali autonome,

 

in grado di valorizzare le capacità locali attraverso un nuovo patto territoriale che accantoni venature arroganti e riconosca che alla crisi dello Stato nazionale non si reagisce con partiti e programmi localistici, ma con impostazioni di ampio respiro, tra le quali la presenza di infrastrutture materiali e immateriali e di servizi finanziari adeguati, la flessibilità nel costo del lavoro con la possibilità di stipulare contratti di area.

Non si dimentichi che si tratta di operare in un contesto internazionale del tutto diverso dal passato, in una economia globalizzata e finanziarizzata nella quale dominano i valori del mercato capitalistico, e logiche che assai poco hanno da spartire con l’intervento pubblico a sostegno delle aree deboli.

Un grande sforzo culturale si impone.

 

Le sfide del futuro possono e devono essere raccolte con lo stesso coraggio e lo stesso orgoglio dei nostri antenati. Per una seria politica di riqualificazione e di rilancio delle nostre città occorre promuovere la capacità di riscoprire pienamente le sue risorse – quelle economiche e ambientali, quelle umane e culturali, quelle storiche ed architettoniche – considerando obiettivo primario il superamento della questione meridionale, cioè del divario Nord-Sud. 

In ogni caso si tenga presente che oggi la questione meridionale va considerata nazionale sia perché il Sud con le sue risorse e i suoi svantaggi è parte integrante del Paese, sia perché i problemi dello sviluppo del Sud hanno una caduta inevitabile sulla crescita dell’Italia intera.

Non si può più pensare che il Paese sia così prospero 

 da potersi permettere un Sud palla al piede,

 

dissimulato tra le pieghe delle medie statistiche che pongono l’Italia nel novero dei Paesi più avanzati dell’Occidente. 

Si tratta di affrontare problemi di disoccupazione di massa e, più in generale, di una autentica modernizzazione, nonché di un decisivo rafforzamento dell’offerta. 

Nonostante tutto, ai giovani che hanno voglia di impegnarsi si prospettano opportunità assai più ampie che nel passato, anche in virtù di un nuovo modello di sviluppo che si sta delineando. Un modello per molti versi inedito che esige, oltre a competenze e saperi di alto profilo, anche molta fantasia.

 

 

 

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FURORE E IL FIORDO di Aurora Adorno – Speciale aglie fravaglie – Maggio-luglio 2020

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FURORE    E IL FIORDO

 

CASE

così come sopra le nostre teste” (Henry David Thoreau).

Esistono dei luoghi suggestivi, siti naturali sconosciuti ai molti, che hanno attratto raffinate celebrità di un passato non lontano e fatto la storia della musica, della danza, della pittura, del cinema e delle arti tutte.   

 

Non lontano dalla celebre Capri, l’isola che ha fatto da sfondo alle più belle storie all’italiana degli anni’50 con film come L’imperatore di Capri di Comencini, che vide il genio indiscusso di Totò girare tra i vicoli dell’isola o La baia di Napoli con Sophia Loren e Clark Gable già immortalati come star internazionali di altissimo livello,

angoli di paradiso sono stati apprezzati da raffinati estimatori. 

 Località come Furore appunto, il piccolo borgo marinaro, 

che ispirò uno dei più grandi o forse il più grande 

dei registi italiani: Roberto Rossellini,


padre del neorealismo, colui che più di molti ha reso celebre la nostra bella Italia immortalandone gli usi e le abitudini, e rendendo celebri luoghi dalla bellezza mozzafiato, senza tempo. 

Il regista si innamorò del magico Fiordo tanto da girare uno dei suoi lungometraggi intitolato appunto L’amore nel 1948. Pare che la storia sia stata ispirata al regista dalla compagna che visse con lui in quel di Furore e che

prese parte alle riprese: l’insuperabile Anna Magnani,

 

che proprio con questo film vinse il premio come migliore attrice protagonista.   

 

Furore si trova incastonata nella variopinta cornice della Costiera Amalfitana, tanto che a guardarla da lontano ci appare come il piccolo pezzo di un puzzle consacrato tra i borghi più belli d’Italia e considerato dall’UNESCO come Patrimonio Mondiale. 

Ancora d’amore si parla nel piccolo paese arroccato sull’altopiano di Agerola, difatti,

 

giunti nel centro storico si trova il Giardino della Pellerina 

e il viale denominato Cupido,

formato da quaranta pilieri laterali che ne tracciano il percorso, rivestiti di raffinate maioliche adornate da colombe variopinte. 

Il piccolo viale è percorso da panchine sulle cui spalliere sono incisi versi d’amore di D’annunzio, strofe di Vasco Rossi, Tiziano Ferro e di altri artisti internazionali; il percorso finisce nella piazzetta Afrodite in cui l’acqua zampilla nella Fontana dalle sette cannelle.   

 

Tra le casette bianche dai tetti rossi spicca Il muro dipinto, 120 opere tra dipinti e murales realizzati dal 1983 da artisti italiani e stranieri. In questo piccolo paese che conta pochi abitanti, si fa spazio il Fiordo, una profonda insenatura della roccia, sopra il torrente Schiato.

È dalle onde furiose che imperversano sugli scogli che ne deriva appunto 

il nome Furore, titolo di questa bella opera scolpita dalla natura stessa.

 

I vari percorsi di trekking e la vicinanza con Positano ed Amalfi la consacrano a meta ispirata e bella, lontana dal caos e dalle località turistiche chiassose e caotiche. 

Il paese che non c’è, così chiamato a causa della sua forma, come se le case fossero pennellate di colore che ad un certo punto spuntano lateralmente dalla montagna, conserva al suo interno la Chiesa a tre navate di San Giacomo, con i famosi affreschi e dalla quale si può ammirare il panorama mozzafiato.

 

Sembra quasi di vederla la Magnani, disperarsi per il suo amore, 

tra la natura rocciosa del paese, col sole che le illumina il viso 

negli anni che furono. 

Suggestivo l’omaggio che Rossellini fa all’inizio della seconda pellicola in bianco e nero, impreziosita dalle imperfezioni del tempo: questo film è l’omaggio all’arte di Anna Magnani

E quale amore più grande, di quello che apprezza e riconosce nell’altro la propria grandezza, il proprio valore, l’espressione pura dell’anima? 

Come lei stessa disse una volta: “Rossellini aveva capito, io sono fatta così: tutta istinto, nature, come dicono i francesi, nella vita e nel lavoro. Bisogna prendermi così se si vuole che faccia qualcosa di buono”.

In questo film diviso in due episodi: una voce umana, pièce teatrale di Jean Cocteau 

e il miracolo, il cui soggetto vede la firma del grande Federico Fellini, 

è espressa tutta la bellezza di Furore,

 

con la Magnani immensa nella sua semplicità, distesa nell’erba a scrutare il cielo mentre racconta ai santi le sue pene d’amore.   

 

Quanta grandezza in quest’opera, nelle riprese a campo lungo in cui l’obbiettivo mette in risalto, come in una sorta di microscopio, ciò che il personaggio sente e vede e come la natura circostante risponde.

 

Ed è proprio Fellini il San Giuseppe che convince la donna considerata dal paese non normale, che vive all’aperto, nella natura con le capre, 

di trovarsi davanti ad un inaspettato miracolo,

racchiudendo l’opera in una sorta di provocazione. Ecco che ancora una volta i luoghi nascosti del nostro bel paese vengono posti in risalto dall’arte.   

 

In essa artisti e poeti trovano ispirazione e la natura ancora una volta fa da protagonista, in uno scambio continuo che diviene dialogo tra la nostra storia, il presente e il futuro che guardando davanti a noi, con la chiesa di San Giacomo alle spalle, possiamo osservare. 

Ecco riassunta in Furore e nel Fiordo tutta la bellezza delle vecchie pellicole, dei dipinti e delle opere d’arte custodite in questo piccolo borgo pervaso dal profumo del mare che fa capolino sulla celebre e bella Costiera Amalfitana.  

 

Stelle al Sud 

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Stelle al Sud

 

Con la serie “Stelle al Sud” Myrrha va alla ricerca di alcuni tra i tanti personaggi celebri la cui arte si è in qualche modo intrecciata con la natura incontaminata di un Sud selvaggio e incantatore, divenuto per essi fonte di ispirazione, talvolta dimora d’elezione.

 

PALERMO AL PROFUMO DI ROSE di Franca Minnucci – Speciale aglie fravaglie – Maggio – Luglio 2020

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PALERMO AL PROFUMO DI ROSE

 

il 18 maggio, e D’Annunzio firma dalle pagine de “La Tribuna“ un articolo dal titolo Piccolo Corriere. 

In quel servizio giornalistico il poeta abruzzese riporta, traducendo direttamente dalle pagine de “Le Figaro”, il viaggio che in quel momento Guy de Maupassant faceva in Sicilia e che lo scrittore raccontava sulla famosa testata francese. 

D’Annunzio conosceva Maupassant per essere discepolo amato di Flaubert, il più “gaulois” dei novellieri giovani, autore della Maison Tellier che aveva pubblicato per i tipi di Victor Harvard. Sapeva del nuovo romanzo, Bel Ami, che non era ancora giunto a Roma, ma la cui uscita lui aspettava trepidante.

 

Quello che più colpisce D’Annunzio è un racconto che Maupassant fa, 

visitando Palermo sulle orme di Wagner;

 

questo binomio, questo rincorrersi fra le vie di Palermo di così grandi personaggi non poteva sfuggire a D’Annunzio, che del musicista tedesco era follemente innamorato. Wagner era giunto in Sicilia nell’inverno del 1881, cagionevole di salute, era alla ricerca di climi dolci e mediterranei. Aveva fatto sosta prima in diverse città del Sud e si era fermato a Ravello sulla costiera amalfitana.

Era rimasto affascinato da Villa Rufolo,

 

che è all’interno di un grande parco, con resti imponenti di architettura arabo-normanna intelligentemente recuperati qualche anno prima con un avanguardistico restauro conservativo, e resi godibili dal nobile scozzese Francis Nevile Reid. Ancora oggi si respira il passaggio di Wagner in quei luoghi e ci sembra di vederlo, di incontrarlo, sentire ancora la sua presenza, le sue arie, le sue melodie nel festival di musica classica che vive di esecuzioni sinfoniche prevalentemente del compositore tedesco; e che ancora si tiene in quel luogo.

Wagner, ideando il Parsifal, è così suggestionato dagli ambienti del parco 

che colloca a Villa Rufolo il giardino dove si riuniscono 

i Puri Cavalieri custodi del Santo Graal,

 

immortalando per sempre quegli ambienti nell’opera! 

Dopo il soggiorno a Ravello, Wagner giunge a Palermo e viene ospitato per qualche periodo con la moglie, Cosima Liszt, e il figlio Siegfried al Grand Hotel delle Palme. 

E cosa racconta Maupassant? Di voler vedere l’appartamento occupato da Wagner in quell’albergo, da quell’uomo così geniale, perché «mi pareva», dice testualmente «che egli avesse dovuto metterci qualche cosa di suo e che io avrei sicuramente ritrovato in un oggetto da lui amato, una sedia, un tavolo qualunque cosa, qualunque segno potesse indicare il suo passaggio e la traccia di una sua mania, di una sua abitudine, insomma della sua vita. Allora in primo momento – dice Maupassant – io non vidi nulla, vidi soltanto un bell’appartamento d’albergo, elegante, poi mi indicarono invece i cambiamenti fatti da lui e cominciarono a mostrarmi, proprio in mezzo alla stanza, un posto che aveva un gran divano su cui egli accumulava i tappeti luminosi e ricamati d’oro.

Ma io a quel punto aprii l’armadio e un profumo dolce, possente, ne uscì. 

Come una carezza di un’aura che fosse passata sopra un campo di rose.


Allora il padrone dell’albergo che mi conduceva mi disse: “Sì, là dentro egli era solito chiudere la biancheria dopo averla impregnata di essenza di rose, l’odore non se ne è mai andato e non se andrà mai più.” Io respiravo quell’alito di fiori chiuso nel mobile, dimenticato, prigioniero, e mi pareva di ritrovare qualche cosa di Wagner, in quell’alito che egli amava, mi pareva di ritrovare un po’ dell’anima sua in quel nonnulla delle consuetudini care e segrete che formano la vita intima, quella più bella, quella più vera, di un uomo.»1 
 

Questo episodio legato ad un profumo, un evento così impalpabile, è di una forza espressiva, la più potente che si possa immaginare e mette insieme, fonde nello stesso momento, l’emozione di tutti. 

 

Un filo rosso che conduce da Wagner a Maupassant a d’Annunzio 

e che ha come teatro Palermo, 

 

come quinta il Grand Hotel siciliano noto a noi tutti, perché è stata una dimora di Wagner ma è stata anche una dimora importante nella vita e nel pensiero di Maupassant e di D’Annunzio Il poeta beve quel profumo, lo sente e lo sentirà per sempre come essenza della armonia, della bellezza della poesia e lo inseguirà tutta la vita in quel progetto del teatro en plain air. Un sensibile intellettuale come lui avverte da subito la grande potenza comunicativa e di rinnovamento del pensiero e del progetto wagneriano, quello di Bayreuth che sarà il sogno irrealizzato suo e di Eleonora Duse.

Wagner, nel suo soggiorno isolano, si innamora follemente dì Palermo, 

la città con i suoi colori, profumi, sapori gli entra nelle fibre, lo possiede, 

lo seduce e scioglie sempre più la sua ansia comunicativa 

e la sua ispirazione artistica.

 

La città che profuma di zagare e gelsomino, con i suoi mille giardini che la dipingono di verde e quel magico sole che gli fanno sempre ripetere: “Qui c’è soltanto primavera ed estate”. Fu molto ricambiato dai palermitani e amato dalle famiglie aristocratiche del tempo, i Lanza, i Mazzarino, i Tasca d’Almerita, che facevano a gara per ospitarlo nelle proprie residenze nobiliari, dove spesso egli si esibiva al pianoforte. Il soggiorno di Wagner in Sicilia era seguito da tutto il resto del mondo dove il grande musicista era conosciuto e amato.

 

Renoir si recò appositamente a Palermo per fargli il ritratto, il più noto fra tutti, 

quello che oggi si trova al  Musée  d’Orsay di Parigi.


Wagner finì di comporre il Parsifal il 13 gennaio 1882 e lasciò Palermo il 20 marzo successivo, con un concerto d’addio a Villa Tasca. Prima di congedarsi, fece omaggio, come ricordo, della bacchetta con la quale aveva diretto, per l’ultima volta, un piccolo
ensemble orchestrale nell’esecuzione della melodia “Tempo dei Porrazzi”, dedicata alla padrona di casa, donna Beatrice Tasca. Al suo ritorno in Francia, Guy de Maupassant aveva pubblicato un primo resoconto, ancora un po’ sommario, dei propri “vagabondaggi“. I racconti dei viaggi, nella versione definitiva, appariranno successivamente in tre volumi: Au Soleil (1884), Sur l’eau (1888) e La Vie Errante (1890). Quest’ultima in particolare contiene un brano notevolissimo, degno di divenire uno slogan per la Sicilia: è “La Sicile”, capitolo che narra il viaggio effettuato da Maupassant nella “perla del Mediterraneo” (la definizione è sua), quello della primavera del 1885 tradotto e pubblicato dal poeta pescarese, come abbiamo detto, nelle pagine della “Tribuna”.

 

Come gran parte dei viaggiatori stranieri, il narratore francese è attratto soprattutto 

dai monumenti antichi, che ai suoi occhi rendono l’isola mediterranea 

“un divino museo di architetture”. 

 

«La Sicilia – annota – ha avuto la fortuna d’essere stata posseduta, di volta in volta, da popoli fecondi, venuti ora dal nord ora dal sud, i quali hanno costellato il suo territorio d’opere infinitamente varie, in cui convergono, in modo seducente e inatteso, gl’influssi più distanti. Ne è nata un’arte speciale, sconosciuta altrove, in cui domina certo l’influenza araba, incalzata da ricordi greci e perfino egizi; in cui le severità dello stile gotico, introdotto dai Normanni, vengono mitigate dalla scienza mirabile della decorazione bizantina.»2

 

Con il ritmo e nei modi di un reportage, il narratore francese annota l’arte architettonica dei Greci di Sicilia, lo stupore della Cappella Palatina, “la meraviglia delle meraviglie” per la sua bellezza ”colorata e calma”, quel sublime miracolo di fusione di arte latina-bizantina-araba e di altri monumenti normanni.

 

Le suggestioni dell’area dello zolfo, la natura dell’Etna e di Lipari, il sole, i sapori, i colori della Conca d’Oro. Rimane sedotto, prima ancora di vederla, dalla Venere Landolina di Siracusa, la Venere Anadiomene che aveva “incontrato” per caso in un catalogo. «Nell’album di un viaggiatore avevo visto la fotografia di questa sublime femmina di marmo e me ne ero innamorato come ci si innamora di una donna. Fu forse per lei che mi decisi a intraprendere questo viaggio; di lei sognavo e parlavo in ogni istante, prima ancora di averla vista!» La sua visione lo turberà e lo ammalierà fino a fargli scrivere: «La Venere di Siracusa è una donna ed è anche il simbolo della carne (…) non ha testa che importa? E’ un corpo di donna che esprime tutta l’autentica poesia della carezza (…) la donna che nasconde e rivela l’incredibile mistero della vita.»3 Dinanzi a lei resta estasiato e attratto dalla carnalità di quel corpo sensuale e morbido e a lei dedica le pagine più intense del diario.  

Al di là di ogni sdolcinato sentimentalismo,

 

il diario di Guy de Maupassant, è uno dei più alti inni alla Sicilia di tutti i tempi.

 

Questo racconto – resoconto segna forse il contatto più sensuale che mai un narratore abbia avuto con una terra, una città. L’episodio dell’albergo delle Palme fa riferimento ad un raro modello estetico di fusione emotiva e sensoriale .Quel profumo unisce tre grandi della letteratura ed è artefice di una strana alchimia e di impalpabili vibrazioni. Si è tradotto in note, in armonie, in parole se è vero, come dice Friedrich Nietzsche, che ogni parola, ogni suono ha il suo odore e che c’è un’armonia e disarmonia degli odori ed anche dei suoni e delle parole. Il Profumo annidato e nascosto nei recessi delle loro anime è riemerso come emozione pura, come suggestione, turbamento, eccitazione e questo patrimonio unico, eccezionale rende omaggio e lode alla storia e alla vita di un paese, di una città: a quella fantastica Palermo profumata di rose che già i Punici avevano chiamata “Ziz”, e cioè fiore.

 

 

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1 – Gabriele d’Annunzio, “scritti giornalistici 1882-1888”, Milano, Mondadori Editore, 1996, p. 335 

2 – Guy de Maupassant, La Sicilia , Palermo, Sellerio,1990.p.128 

3 – Guy de Maupassant, op. cit., p. 247