IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO Gemme del Sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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IL TEATRO-TEMPIO DI PIETRAVAIRANO

 Gemme del Sud
                  Pietravairano (CE)

 

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Pietravairano è un antico borgo di origine normanna non lontano da Caserta, 

che fino a poco più di vent’anni fa era ignaro di essere 

il custode di un tesoro straordinario.

 

Una mattina del febbraio 2001, il professor Nicolino Lombardi – dirigente scolastico con una grande passione per il volo e per l’archeologia – sta compiendo uno dei suoi tanti voli di ricognizione con lo scopo di coronare il suo più grande sogno: fare un’importante scoperta archeologica. 

 

Giunto all’altezza del Monte San Nicola, nota delle pietre bianche disposte in modo semicircolare e il suo sogno finalmente si avvera: si tratta dei resti di un antico complesso di epoca romana fino ad allora sconosciuto.

Il complesso archeologico del Teatro-tempio Romano di Pietravairano costituisce 

un raro esempio di impianto del tipo teatro-tempio risalente al II-I secolo a.C. 

Secondo gli storici, il luogo era un’area di culto fortificata già in epoca sannitica, 

che i Romani poi riconvertirono in un santuario dedicato forse a Giunone, 

a cui aggiunsero un ampio teatro scavato direttamente nella roccia.

 

Le due strutture sorgono su due terrazze a quote differenti: sulla terrazza superiore ciò che resta del tempio a pianta rettangolare; una ventina di metri più in basso, il teatro di cui si conservano la cavea semicircolare e la scaena

 

Il sentiero che dal comune di Pietravairano porta a Monte San Nicola è leggermente impegnativo in alcuni tratti ma ne vale davvero la pena: il complesso è maestoso e il panorama che si gode da qui è uno spettacolo nello spettacolo. La vista spazia in ogni direzione, dalla costa tirrenica al massiccio del Matese e regala la sensazione di dominare la vallata stando sospesi nel vuoto.

 

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO Gemme del Sud Numero 31 ottobre novembre 2024 editore Maurizio Conte

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IL POLO MUSEALE DI LATIANO

 

 Gemme del Sud
                     Latiano (BR)

 

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Nel 2018, a seguito di un lodevole progetto di riqualificazione del sistema museale, 

un vero e proprio “museo diffuso” è nato a Latiano (in provincia di Brindisi), 

per questo definita “città dei musei”. I musei civici della città 

sono stati riuniti in un unico Polo Museale

 

che trova la sede principale nell’ex Convento dei Domenicani (bellissimo edificio cinquecentesco appositamente restaurato), ma si espande anche nella Torre del Solise e nel Palazzo Imperiali, ubicati nel centro storico, e nel Parco archeologico di Muro Tenente, situato in piena campagna. 

 

I musei che costituiscono il Polo sono, nell’ex Convento dei Domenicani, quello delle Arti e Tradizioni di Puglia e quello del Sottosuolo e della Storia della Farmacia, e presso il Palazzo Imperiali la Pinacoteca Comunale ed il Centro di Documentazione Archeologica che, con la sua collezione archeologica “Antonio Marseglia”, è strettamente legato al sito del Parco Archeologico di Muro Tenente. A tali strutture si aggiunge inoltre la Casa-Museo Ribezzi Petrosillo.

Il Museo delle Arti e Tradizioni è uno dei primi di Puglia ad aver raccolto, dal 1974, testimonianze della cultura demo-etno-antropologica della regione

(oltre 4.000 oggetti e migliaia di documenti, anche fotografici, 

nonché le due notevoli sezioni speciali 

dedicate al vino ed alla ceramica).

 

Importanti sono le quattro ricchissime sezioni del Museo del Sottosuolo, che è unico in Puglia, la collezione del Museo della Storia della Farmacia, con la biblioteca specialistica fornita anche di volumi rari sull’alchimia, ed il Centro di Documentazione Archeologica, che con il suo eterogeneo repertorio di oggetti fornisce un interessante excursus dalla preistoria al Medioevo. 

 

Oltre all’esposizione delle sue pregevoli raccolte, il Polo è stato concepito per essere anche un centro polifunzionale che, ospitando diverse attività di divulgazione (mostre, convegni, eventi artistici, laboratori), ha la finalità di ampliare la fruizione dei musei da parte di un più vasto pubblico.

 

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CHIESA DI SAN BARTOLOMEO A CAMPAGNA gemme del sud numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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CHIESA DI SAN BARTOLOMEO A CAMPAGNA

 

 Gemme del Sud
                  Campagna (SA)

 

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A Campagna, in provincia di Salerno, si trova la Chiesa di San Bartolomeo, luogo particolarmente significativo poiché nel 1573 Giordano Bruno vi compì il noviziato e celebrò la sua prima messa, come ricorda una lapide sulla facciata dell’edificio.

 

La chiesa, situata nella parte medievale della città, la più antica, fa parte 

dell’ex-convento domenicano di San Bartolomeo, ex-campo di internamento 

per ebrei ed oggi sede del Museo della Memoria e della Pace, 

meritevole anch’esso di essere visitato.

 

L’edificio è di notevole pregio e contiene inoltre due preziosi gioielli artistici: un Crocifisso ligneo e la cripta, contenente alcuni resti di defunti mummificati. 

 

Il bellissimo Crocifisso è uno dei rari esempi di Cristo velato ed ha una storia particolare. San Bernardino da Siena, giunto a Campagna nel 1440 come nunzio apostolico, fu accolto da una processione cui parteciparono tutte le chiese del paese, esponendo la statua del loro santo più importante. Alla vista del suggestivo Crocifisso portato dai domenicani, il Santo cadde in ginocchio ed iniziò a pregare invocando il “Santissimo Nome di Dio”. Per le incredibili sembianze umane del Cristo, ne ordinò poi la vestizione con abito rosso ed il velamento. Il 14 settembre, con cadenza settennale (a parte rare eccezioni, come per il Giubileo del 2000), iI Crocifisso viene portato in una suggestiva processione, detta appunto “del Santissimo Nome di Dio”, molto sentita e partecipata dalla popolazione locale.

La facciata della chiesa è semplice e lineare. L’interno, nel quale coesistono 

elementi artistici di varie epoche, è a navata centrale, sormontata 

da un grande soffitto ligneo a cassettoni dalle belle foglie 

d’oro zecchino in stile barocco e recante nel mezzo 

un dipinto attribuito a Francesco Solimena.

 

Nel transetto vi sono due cappelle, dedicate rispettivamente alla Madonna del Rosario ed al Santissimo Nome di Dio. In quest’ultima, sull’altare in legno, anch’esso decorato da foglie in oro zecchino in stile barocco, si eleva il Cristo velato. 

 

Il pavimento è rivestito da maioliche a disegno geometrico risalenti all’Ottocento, mentre gli arredi sono cinquecenteschi, con rifacimenti del Settecento.

 

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UN UOMO IN PIEDI di Marina Alberghini numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

Benedisse l’unione la Dea lunare Diana, della natura gioiosa regina delle selve e dei boschi, di quella Natura incomparabile che splendeva nel luogo dove era nata quella magia musicale. Luogo incantato che fu chiamato Partenope, dal nome della Sirena suicida per amore, perché anche l’amore era indispensabile a quell’ alchimia, ne era anzi una componente essenziale, inscindibile

Quel luogo, dove cantavano Mare, Bellezza, Musica e Amore si chiamò in seguito Napoli, ed essendo un dono degli Dei, ammaliò per secoli 

i viaggiatori di ogni Paese,

 

che non potevano sapere che quella bellezza, quel fascino che apparivano nuovi ai loro occhi, erano anche misteriosamente antichi. Perché Napoli è il più sontuoso palinsesto di grandi culture stratificate. 

Di quell’antica bellezza, delle sue fortune poi declinate, tanti hanno parlato, ma alcuni sono stati glorificati in eccesso, altri, con meriti spesso maggiori, sono stati tenuti nell’ombra. Molti i nomi celebrati tra chi parla a sproposito di Napoli, ma quanti conoscono, ad esempio, quello di Giuseppe Marotta, scrittore tra i pochi che compresero pienamente la straordinaria poesia e umanità napoletane? E infatti il suo nome è caduto nel dimenticatoio. Per fortuna, nonostante le scopiazzature, fra gli storici emerge ancora un gigante: Luciano Salera.   

 

Sapevo della lotta del Sud per restare indipendente, il mio nonno napoletano, figlio di un ufficiale borbonico, mi raccontava quello che, secondo lui, aveva combinato Garibaldi, e in seguito anche mio marito, benché fosse bolognese, mi diceva sempre che Garibaldi e compagni avevano, consapevolmente o no, distrutto la più grande civiltà italiana dell’epoca. Poi otto anni a Napoli, dove mio marito era stato chiamato a fondare l’Aeritalia, mi riconfermarono nell’amore per una città incomparabile.

Ma mai avrei pensato di conoscere, incarnato, uno dei maggiori conoscitori 

di quella lotta dimenticata che raccontava nei suoi libri e il cui stile 

non era piatto e noioso come quello degli storici ufficiali, 

ma vivo, splendente e carnale.  


Come conobbi quell’uomo che era fatto di mare e come il mare poteva essere tempestoso e ferire, ma essere anche sereno e brillante delle mille luci del sole?     

 

L’incontro ebbe qualcosa di misteriosamente già previsto e d’altronde io non credo nelle coincidenze ma che tutto abbia un fine nella nostra vita perché guidato da un filo misterioso. Era una sera di ottobre del 2009. Mio marito Giordano, dopo 40 anni di matrimonio felice, da un anno era volato in Cielo e io avevo preferito restare sola nella nostra casa rifiutando di trasferirmi dai parenti. Lavoravo ai miei libri, ma a volte ero molto triste. Specialmente con l’arrivo dell’autunno, in quella sera fiesolana del 29 ottobre, sentivo il vuoto attorno a me.

Ma quella sera si rivelò speciale… Sul grande tavolo antico del salone 

era aperto il quotidiano Il Giornale. Stavo preparando la cena 

e buttai un occhio sulle Lettere dei Lettori. Una mi colpì. 

C’era una tale forza in quella lettera che rivendicava 

le ingiustizie passate di un popolo che era stato 

depredato e colonizzato!


Una forza tale che sentii l’impulso di dire a quella persona che aveva ragione, che la pensavo uguale! Che aveva ragione da vendere! Che io avevo scritto della grande civiltà dei Borboni nel mio libro sul Presepio Napoletano! Una cosa davvero inusitata, perché non sono mai stata propensa a scrivere a sconosciuti. Mai.

Vidi la firma: Luciano Salera, Napoli. Anche qui agì il destino perché, 

se avesse firmato la mail con uno pseudonimo, tutto sarebbe finito lì.


Cercai il telefono nell’elenco abbonati e lo chiamai. La sensazione immediata fu che fossimo due vecchi amici che si erano ritrovati, una sensazione reciproca di felicità. Che iniziò con uno scambio di libri e con lui che mi mandava ricette di cucina napoletana insieme con i ricordi dei nostri cari sposi defunti. Andò avanti per più di dieci anni. Parlavamo di tutto e tutti i giorni in un rapporto fatto di mail e di telefonate che arricchirono la nostra vita.   

 

Da quel primo incontro, non pensate che io stia esagerando, egli mi apparve come un antico Cavaliere senza Macchia e senza Paura, fedele per sempre alla sua “Patria napolitana”, come la chiamava, ai suoi colori che erano quelli dei Borboni. E l’arma di quel Cavaliere era la penna. Ho letto tanti libri di storia: alcuni leggeri e a volte umoristici oppure aneddotici, come quelli di Cervi e Montanelli, altri molto documentati, come Declino e caduta dell’Impero Romano, di Edoardo Gibbon, troppo austero per i miei gusti. Invece Luciano coniugava un filo di finissimo humour alla serietà delle sue documentazioni, spesso vere scoperte.

Dopo la morte della moglie adorata, anche lui come me aveva deciso di vivere solo nella dimora che aveva visto crescere una famiglia unita e felice. 

Si dedicava totalmente ai suoi libri. Amici pochi, ma buoni,

come Giorgio Salvatori che lo intervistò al tg2, il magistrato Edoardo Vitale, e l’editore Pietro Golia, che curò per Controcorrente due sue pubblicazioni “Garibaldi, Fauché e i predatori del Regno del Sud” (2006) e “La Storia Manipolata 1860-1861- Documenti e Testimonianze” (2009). Inoltre era circondato dell’affetto delle due figlie, Giorgia e Antonella, e delle nipoti che amava teneramente.

 

Ma  quando  lo  conobbi  io  aveva già  problemi  di  salute ed era diventato un misantropo. Col tempo si aperse con me completamente. Ma sempre da lontano, io a Fiesole, lui a Napoli. Forse lui, che era molto orgoglioso, non  avrebbe  voluto  farsi  vedere  nell’avanzare di un rapido declino, fisicamente diverso da come era stato. Era  un  uomo  molto  sensibile ma di una sensibilità maschia, mai l’ho sentito piangersi addosso. Anzi, se gli dicevo  di curarsi si  arrabbiava. Gli  scocciava  anche  sentirsi chiedere come stava. Era capace di momenti d’ira pensando al destino della sua  Patria Napolitana, e allora faceva paura. Ma a volte  poteva  tramutarsi  in un  umorista  divertentissimo che  mi faceva  piangere dal  ridere facendomi sentire una quindicenne. Posso dire che da quando non c’è più io non ho più riso come allora?
Si è portato via la mia allegria e sono improvvisamente invecchiata.

 

Era un vulcano, un uomo luminoso, i suoi momenti burrascosi 

erano nuvole che coprono il sole e che poi sparivano.


Io mi abbeveravo alla sua sterminata cultura, al punto tale che, grazie a lui, ritengo di essere cresciuta anche spiritualmente. Diceva spesso che Napoli non è una città, ma una nazione. Intuizione felicissima, infatti Napoli non ha niente a che fare con le altre città della Campania e del Sud perché è una stratificazione di molte e grandi civiltà, a cominciare dalla greca. Il suo orgoglio lo portava addirittura a non promuovere i suoi libri o a cercare editori. Fui io a fargli conoscere l’editore Solfanelli e a portare il suo
“La fuga di Garibaldi e il giallo della morte di Anita” (edizione Solfanelli, 2016), alla giuria del Premio Firenze. Ne scaturì un premio e una menzione d’onore. Ogni suo successo lo sentivo come mio. Inoltre mi affiancai a lui, inviando lettere ai giornali, nella sua lotta per ristabilire la verità sul Sud depredato e mistificato. 

Era geniale. Una personalità multiforme sempre determinata a chiedere il massimo a se stesso. Difficile definirlo. tenebroso, insondabile, ironico, focoso, gelido, romantico, scontroso, spiritoso, ma affettuoso, passionale, folle, cupo, iroso, fascinoso, misterioso, indomabile, incomprensibile, sboccato, raffinato… cambiava sempre, pur restando se stesso. 

Con gli editori non fu mai un uomo facile. Delegava tutto a me. Solo con Golia aveva un rapporto fraterno ma anche con lui una volta qualcosa si spezzò. Perché Luciano sapeva anche essere verbalmente violento, e riuscì a volte a farmi piangere, ma poi tornava il sereno e le volte che mi fece ridere o sorridere furono molte di più! 

Tenerissimo quando parlava delle figlie e in particolare delle nipoti. Ma si preoccupava di quando sarebbero cresciute in un mondo così corrotto e io lo consolavo dicendogli che tutto dipende sempre dalla base ricevuta in famiglia. Questo contava. E ho potuto averne la conferma oggi, constatando i successi accademici e professionali delle nipoti.

 

Quando cominciava un libro me ne parlava a lungo. Poi me lo mandava 

per sapere che ne pensassi e perché gli correggessi le bozze.


Perché  lui  scriveva di getto e non rileggeva. C’erano  momenti  in  cui  era  amareggiato al pensiero dei troppi arrivisti: scrittori  da  quattro soldi, spesso  solo  giornalisti, pseudo  scrittori che saccheggiavano i suoi  libri e che, mediante vantaggiose  amicizie,  balzavano agli  onori di citazioni su giornali e in TV con libri troppo spesso scritti male. Gli  dispiaceva  non  per  sé,  perché  rifuggiva da onori  e  successo,  ma perché il suo pensiero, le sue ricerche, andavano in giro storpiati. Un altro suo dispiacere era di non aver fatto Lettere, come gli sarebbe piaciuto (e come sarebbe stato giusto) ma Economia e Commercio, per volere del padre.

 

Io gli mandavo via via i miei libri a ogni uscita, e un divertente diario 

dove lui vestiva i panni di un greco antico protagonista di mille avventure. 

Per lui scrissi anche una poesia,

 

“Uomo solitario’’, che gli piacque molto: Uomo solitario e racchiuso / nella torre del tuo orgoglio.              / Sale invano la voce del mare / a ricordarti il rigoglio / della stagione carnale. / Nella tua casa silente / vuoi respirare soltanto / la polvere antica / di libri vissuti / Amaramente scrivendo / di cupe ingiustizie 

/ Di anni perduti.   

 

Negli ultimi anni era molto peggiorato, quasi paralizzato nelle gambe, e si disperava temendo di sopravvivere a sé stesso e di essere di peso alle figlie. Poi è arrivato il Covid e credo lo avrà accolto come un amico.   

 

Perché le aquile non sono fatte per restare in gabbia.

 

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RICORDO DI LUCIANO SALERA

   UNO STORICO DEL SUD DA NON DIMENTICARE 

 

 

CECILIO FRIOZZI DI CARIATI: IL PRINCIPE 007 di Demetrio Baffa Trasci Amalfitani numero 31 ottobre novembre 2024 Editore Maurizio Conte

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CECILIO FRIOZZI DI CARIATI: IL PRINCIPE 007

 

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Ma la realtà supera sempre la fantasia e infatti Cecilio, molto più dell’immaginario James Bond, univa in sé nobiltà, bellezza, fascino, intelligenza, spregiudicatezza, intuito ed una smisurata ricchezza personale. Egli fu l’ultimo erede dei titoli di Principe di Cariati, Principe di Montacuto, Duca di Castrovillari, Duca di Seminara, Marchese di Romagnano, Conte di Santa Cristina, Barone di Palmi e Barone di GarreriI, più una lunga sfilza di signorie minori, ma fu anche e, soprattutto, un avventuriero ed una spia.II

Cecilio nacque all’Ambasciata italiana di Pechino il 22 gennaio 1890, 

dove il padre Lorenzo era Segretario di Legazione, mentre sua madre 

Amata d’Ehrenoff era figlia del potente Ministro d

el Regno di Svezia e Norvegia in Cina


ultima rappresentante della sua antica e nobile famiglia, vedova in prime nozze di un Wallenberg, la più ricca famiglia svedese, il cui patrimonio ammonta a svariati miliardi di dollari.   

 

Sin da bambino studiò in Inghilterra, presso il prestigioso Eton CollegeIII. Allo scoppio della Prima guerra mondiale lo troviamo in India, dove lavorava ufficialmente come ingegnere petrolifero, ma questa era solo una copertura: in realtà la sua carriera nello spionaggio era già brillante1

Cecilio sapeva guidare ogni sorta di mezzo, dalle moto, alle auto, agli aeroplani, passando ovviamente per i carri armati, era appassionato 

di corse automobilistiche e di equitazione,


nel 1915 brevettò l’innovativo “impermeabile Friozzi”IV, rivoluzionario per l’epoca, costituito da un quadrato di tela cerata foderato di lana, con un foro al centro per la testa, versatile ed utile sia per le corse a cavallo in quanto lasciava libere le braccia, sia come coperta da campeggio.   

 

Il Principe di Cariati fu anche un grande seduttore e nel 1921 fu protagonista di un celebre scandalo dell’epoca, quando a Londra convolò a nozze con l’inglese Amelia Spratley-Johnson che per lui abbandonò a New York il figlio di sei anni e il primo marito, il barone polacco Maximilian Stanford de Sheyder-Shottland. Con lei si trasferì dapprima in Persia, lavorando presso una compagnia petrolifera anglo-persiana e, quindi, definitivamente in India, ma sfortunatamente da queste nozze non nacquero figli e la giovane Amelia morirà purtroppo in un incidente automobilistico nei pressi di Rawalpindi nel 1929. 

Pochi anni dopo si risposò con l’inglese Grace Hampshire, anche se il matrimonio durò poco e decise così di rientrare in Europa verso la metà degli anni ’30, trasferendosi a Firenze nella villa che la famiglia possedeva e dedicandosi alla sua nuova passione: gli aeroplani.   

 

Nel 1938 conobbe a casa della famiglia Rosselli del Turco una giovane italiana, Giulia Rio[ii], che sposò poco tempo dopo e da cui ebbe un’unica figlia, Vita, morta però a pochi mesi.IV

È proprio negli anni della Seconda guerra mondiale che la vita del Principe Cecilio inizia a prendere una piega ancora più avventurosa: convinto antifascista, 

lasciò il suo Paese e venne arruolato, benché cittadino italiano, 

presso il servizio segreto britannico.


Dagli archivi inglesi recentemente in parte desecretati scopriamo alcune missioni che lo videro protagonista, soprattutto in India, Estremo Oriente, Sud America, Tibet e nel Terzo Reich. Qui, nella Germania nazista sappiamo che si spacciava per un conte polacco e, insieme alla terza moglie, che gli fu abilissima complice col nome di Julia Chochoska, venivano invitati ad importanti ed esclusivi ricevimenti, dove scoprirono segreti, rubarono documenti e conobbero Adolf Hitler, correndo anche il rischio di venire scoperti e fucilati sul posto!

 

Durante la guerra venne catturato in India per presunte attività di spionaggio 

in favore dell’Italia di cui comunque aveva mantenuto sempre la cittadinanza,


ma egli, mentendo spudoratamente, e grazie alla sua ottima conoscenza, tra le tante, anche della lingua inglese, convinse la polizia di non essere mai stato in Italia, di non parlare italiano e di essere un innocuo e mediocre ingegnere e fu rilasciato. A poco valsero gli allarmi che successivamente arrivarono da Londra e che lo definivano come un agente segreto straniero ‘pericolosissimo’ perché a quel punto l’astuto Cecilio era già lontano e al sicuro!

Tornò in Italia appena in tempo per assistere alla fine del Regno 

e alla nascita della Repubblica e, nel febbraio del 1949, 

lo troviamo a Firenze dove si occupò di liquidare 

i suoi ultimi beni, per poi partire alla volta 

del Pacifico meridionale,


dove visse fino alla morte, senza disdegnare altre sporadiche missioni in giro per il mondo a favore dell’Alleanza atlantica contro il totalitarismo sovietico, in omaggio alla sua forma mentis profondamente liberale.   

 

Si calcola che alla sua morte il patrimonio di Cecilio Friozzi ultimo Principe di Cariati ammontava alla spropositata somma di ben 2000 miliardi di lire dell’epoca; ma il mistero che avvolse tutta la sua vita non lo abbandonò neanche dopo la morte, in quanto sembra che sua erede fu sua figlia Vita, la quale in realtà non era morta, ma venne dal furbo genitore spedita in America sotto falso nome per crescere ricca e al sicuro, lontana dai pericoli della Guerra mondiale.  

 

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RETABLOS di Gloria Salazar numero 31 ottobre novembre 2024 editore maurizio conte

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Chi ha reminiscenze scolastiche ricorderà di non aver mai sentito parlare dell’arte rinascimentale sarda.  

 

Quando si pensa alla Sardegna sotto il profilo artistico viene in mente tutt’altro. Tutti conoscono la civiltà nuragica con i suoi bronzetti e le sue misteriose torri, molti sanno dell’esistenza degli splendidi esempi di architettura romanica, forse qualcuno penserà agli artisti contemporanei; ma la pittura medioevale e rinascimentale sarda – se mettiamo da parte gli scritti di pochi storici dell’arte, in particolare Corrado Maltese, e i fondamentali studi di ambito locale – è sfuggita, almeno come movimento, ai radar della storiografia dell’arte nazionale. 

 

In una terra contesa per secoli tra l’Italia (Pisa, Genova e poi il Piemonte) e la Spagna, lo studio dell’arte sarda è rimasto terra di nessuno. Eppure in Sardegna vi sono, pressoché ignote, interessanti testimonianze di arte pittorica, cicli di affreschi e dipinti Medioevali di grande suggestione

 

Ma la manifestazione più notevole dell’arte sarda è rappresentata dai retabli

 

vasta espressione di un importante fenomeno artistico, altrettanto sconosciuto, fiorito nell’isola nel XV e XVI secolo.  

 

Paradossalmente, o forse no, negli ultimi anni la Spagna si è dimostrata maggiormente interessata alla storia ed alle vicende artistiche isolane, piuttosto che l’Italia stessa; probabilmente come conseguenza della dominazione iberica, sotto la quale la Sardegna si è trovata dal XIV al XVIII secolo. 

 

Ed è proprio dalla Spagna che nel ‘400 venne importata in Sardegna la fattispecie del retablo, termine derivato dal latino “retro tabula”, ossia dietro la tavola (dell’altare). I retabli – italianizzazione dello spagnolo retablos – per alcuni aspetti corrispondono ai nostri polittici. Hanno come caratteristica principale una struttura imponente in legno scolpito e dorato, suddivisa in numerosi scomparti posti su vari ordini, nei quali sono inseriti statue e dipinti su tavola, prevalentemente a fondo oro. La loro più impressionante rappresentazione è costituita dal Retablo Mayor della Cattedrale di Siviglia, il più grande del mondo, un’opera monumentale che misura quasi 30 metri di altezza e 20 di larghezza.

 

Anche in Sardegna i retabli sono pale d’altare maestose ricoperte d’oro. Incorniciano dipinti dai colori vividi, pervasi da una leggiadria iconografica 

che sotto certi aspetti rimanda all’arte gotica.


Sono opera di artisti sardi e sardo catalani, della maggior parte dei quali, purtroppo, non è noto il nome, e che sono conosciuti perciò come “Maestro” della località in cui si trovano i loro principali lavori. 

La Sardegna era stata una terra di conquista e per certi versi, seppure un’isola, idealmente anche una terra di confine, e come tale aveva subito le influenze dell’una e dell’altra sponda limitrofe al suo territorio. Per questa ragione

 

gli stilemi delle pitture dei retabli sardi sono riconducibili
sia a quelli coevi dell’arte spagnola che a quelli italiani;

non scevri, anzi spesso fortemente connotati, da richiami fiamminghi. D’altronde all’epoca l’impero spagnolo, di cui la Sardegna faceva parte, si estendeva fino alle Fiandre, della cui Scuola artistica la penisola iberica aveva recepito totalmente i modelli. 

Il Retablo di San Bernardino, datato al 1455, è noto per essere il più antico retablo sardo ed è conservato, come molti altri, nella Pinacoteca Nazionale di Cagliari.

 

Ma è nel Retablo di Tuili che si rinviene la più alta raffigurazione
dell’arte pittorica rinascimentale della Sardegna,
opera del cosiddetto Maestro di Castelsardo,


cui fu attribuito tale nome per i frammenti di un retablo rinvenuti nell’omonima località. L’artista, la cui vera identità non è stata stabilita con certezza, era contemporaneo – per fornire una collocazione temporale – di Botticelli e Perugino. Recentemente è stato ipotizzato si potesse trattare di Gioacchino Cavaro, forse zio di Pietro Cavaro, pittore appartenente ad una prolifica dinastia. Quest’ultimo fece parte, insieme al figlio Michele, della più famosa Scuola d’arte del Rinascimento sardo, la Scuola di Stampace – attiva dalla fine del XV secolo – che prese il nome da un quartiere storico di Cagliari dove si trovavano le botteghe degli artisti.  

Ne furono protagonisti, oltre ai Cavaro, Antioco Mainas, insieme ad altri pittori minori, anch’essi autori, quasi sempre anonimi, dei dipinti di innumerevoli retabli.

 

Alla scoperta di queste opere d’arte della Sardegna si potrebbe ispirare
un inconsueto itinerario di viaggio nell’isola, una “via dei retabli”.


Infatti tali opere, o parti di esse, oltre che nella già menzionata Pinacoteca di Cagliari, che ne custodisce la principale raccolta, e nel Museo Diocesano della città, si trovano in numerose chiese e musei sparsi su tutto il territorio. Per citare alcuni tra i più notevoli ricordiamo i retabli di: Villamar; Perfugas (il più grande della Sardegna, con 54 tavole); Ozieri, con le splendide opere dell’omonimo Maestro, alcune visibili anche a Benetutti, a Ploaghe e a Bortigali, a proposito del quale Federico Zeri disse: “si potrà definire il Maestro di Ozieri un pittore sardo nella stessa misura in cui Chopin può dirsi risolto nell’etichetta di compositore polacco”; Ardara (il più alto – 10 metri – tra quelli sopravvissuti nella loro interezza); Dolianova; Codrongianos; Iglesias; Lunamatrona; Suelli; Oliena; Olzai; Gonnostramatza; Milis. Senza dimenticare la collezione conservata nel Museo Antiquarium Arborense di Oristano e quella del Museo Diocesano di Alghero.

I retabli perdurarono a lungo come “forma d’arte”. Con l’avvento del Barocco l’aspetto architettonico della struttura assunse un’importanza preponderante
ed i dipinti furono soppiantati da sculture lignee.


Anche di questa tipologia esistono in Sardegna vari esempi, tra i quali: lo spettacolare retablo di San Pietro a Sassari, alto 12 metri; e l’imponente retablo di Sant’Antioco ad Iglesias.

 

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN FANTASMATICO MONACO BAMBINO di Francesca Romana De Paolis numero 31 ottobre novembre 2024 Ed. Maurizio Conte

 

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IL VENTRE DI NAPOLI NASCONDE UN.FANTASMATICO MONACO BAMBINO

 

Soffia nelle orecchie di chi dorme, arraffa oggetti nelle case dei malvisti, accetta di buon grado le monete, spesso è foriero di buona sorte e si diverte a corteggiare le belle donne. 

Si tratta del 

 

Munaciello, il più stimato e temuto, il più antico e rispettato spirito 

del folklore partenopeo.


lMatilde Serao, celebre giornalista e scrittrice napoletana, racconta che le origini di questo piccolo monaco dispettoso, potrebbero essere legate a una vicenda accaduta intorno alla metà del Quattrocento a Napoli, durante il regno di Alfonso V d’Aragona.   

 

All’epoca, si consumava in gran segreto una storia d’amore tra Caterina Frezza, figlia di un ricco mercante di stoffe e il garzone Stefano Mariconda. Per raggiungere nottetempo la sua amata, sembra che Stefano, non gradito dalla famiglia di Caterina, dovesse arrampicarsi e camminare sui tetti della città. Una sera sventurata egli cadde e morì. 

Poco dopo, la sua Catarinella fu rinchiusa in un convento e diede alla luce un bambino malformato. Le suore, allora, accorsero in aiuto vestendolo con abiti monacali, per nascondere le sue deformità.

 

Quando fu in grado di camminare, questi se ne andava in giro 

per il quartiere Porto con saio e cappuccio alla francescana. 

Si guadagnò così il soprannome di “Munaciello” (piccolo monaco). 


Secondo la leggenda egli scomparve prematuramente e da allora si iniziò a credere che la sua anima girasse per Napoli e avesse misteriosi poteri magici.   

 

È possibile che un rifugio del monaco bambino si trovi a Marina del Cantone e più precisamente nella Torre di Montalto, presso Sant’Agata sui Due Golfi a Massa Lubrense. Altre voci raccontano che il Munaciello abiti le vecchie abbazie e i monasteri del centro di Napoli oppure le ville partenopee.

All’origine rinascimentale dello spiritello esoterico se ne aggiunge un’altra, 

legata al Sette-Ottocento.


E, in particolare, alla figura dei pozzari. Uomini minuti, abbigliati con mantello ed elmetto, dunque simili a piccoli monaci, che si occupavano della manutenzione e la pulizia delle cisterne in tufo che costellano la Napoli sotterranea. Le cisterne avevano cunicoli verticali scavati nella roccia, collegati direttamente ai soprastanti palazzi nobiliari.

 

Si racconta che, grazie alla facilità con cui i pozzari avevano accesso alle case, 

essi di tanto in tanto – specie quando non venivano retribuiti – vi sostassero 

per fare uno spuntino, conquistare la donna del focolare e rubacchiare. 

Ancora oggi se qualche oggetto domestico scompare, 

a Napoli si dice che è stato il Munaciello.


Insomma, tutto porta a credere che si tratti di una presenza bizzarra e un po’ canaglia. Però le sue apparizioni, sia reali che in sogno, sono descritte come miracolose, poiché il monaco indica a chi lo vede i numeri fortunati da giocare al Lotto e realizza i desideri. Questo a patto che nessuno riveli la sua presenza, poiché farlo porterebbe invece la cattiva sorte. 

La duplice e ambigua natura dello spiritello – generosa e molesta, irriverente, ma anche sacra, disturbante e sorprendente – lo rende simile ad una sorta di allegoria del destino. Non a caso un antico proverbio napoletano recita così: “O Munaciello: a chi arricchisce, a chi appezzentisce”.

La città che sorge all’ombra del Vesuvio è ancora fervidamente traboccante 

di segnali che fanno pensare all’esistenza del piccolo monaco.

La chiesa di Sant’Eframo Vecchio, il quartiere di Secondigliano, Piazza Garibaldi in centro, una casa in via dei Tribunali sono solo alcuni dei luoghi protagonisti di apparizioni, improvvisi arricchimenti, tranelli e fortune. 

E, a Castellammare di Stabia, tra il vulcano e la costiera sorrentina, nei pressi dell’antico terziero di Scanzano, c’è una strada rivolta a monte, proprio intitolata al Munaciello.

E anzi, a un particolare Munaciello, che da pizzichi 

e fa sgambetti a chiunque passi per di lì.


Secondo Carl Gustav Jung alcune figure del mondo favolistico soprannaturale rappresentano le forze sotterranee dell’inconscio. Risorse psichiche di cui gli esseri umani non sono consapevoli e che hanno a che fare con l’istinto e l’intuizione. Le figure cui si riferiva Jung sono i nani e gli gnomi, appartenenti alla cultura nordica, ai quali tuttavia, il piccolo monaco partenopeo sembra accostarsi per tipologia.

Ad ogni buon conto, il Munaciello resta ad oggi il fantasma più pop 

del nostro meridione. È stato protagonista di opere teatrali, 

cinematografiche e di canzoni.


Compare anzitutto nella famosa commedia di Eduardo de Filippo “Questi fantasmi”, in cui il personaggio dell’amante è vestito come un monaco. Fa capolino nella canzone “O’ Munaciello” (1891) di Roberto Bracco. E arriva fino agli anni Duemila, poiché “Munaciello” è il soprannome dato a uno dei boss nella serie tv “Gomorra” (2014-2021). Ma soprattutto il monaco bambino, compare nell’incipit del film “E’ stata la mano di Dio” (2021) di Paolo Sorrentino, dove la zia del protagonista gli da un bacio sulla nuca, su invito di San Gennaro, come gesto propiziatorio per la propria fertilità. 

  

 

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA di Claudia Papasodaro numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 editore maurizio conte

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LA SCALINATA MONUMENTALE DI VIA GIUDECCA

 

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 L’eredità culturale è un insieme di risorse ereditate dal passato che le popolazioni identificano, indipendentemente da chi ne detenga la proprietà, come riflesso ed espressione dei loro valori, credenze, conoscenze e tradizioni, in continua evoluzione. Essa comprende tutti gli aspetti dell’ambiente che sono il risultato dell’interazione nel corso del tempo fra le popolazioni e i luoghi;   Una comunità di eredità è costituita da un insieme di persone che attribuisce valore ad aspetti specifici dell’eredità culturale, e che desidera, nel quadro di un’azione pubblica, sostenerli e trasmetterli alle generazioni future.

 

Convenzione di Faro, art. 2

La ratifica della Convenzione di Faro da parte dell’Italia, avvenuta nel 2020, ha rappresentato un momento significativo per il nostro ordinamento. Non solo perché tale Convenzione riconosce il patrimonio culturale come elemento fondamentale per lo sviluppo civile (questo principio era già sancito dalla nostra Costituzione), ma soprattutto perché introduce il “diritto al patrimonio culturale”, coinvolgendo i cittadini in nuove forme di tutela e valorizzazione. 

 

Ed è bello scoprire che 

proprio al Sud, ed in particolare in Calabria, questi principi abbiano trovato

spontanea attuazione, dando vita ad una straordinaria 

storia di cittadinanza attiva


cominciata ormai qualche anno fa, ma che vale la pena ancora oggi raccontare. 

 

Tutto nasce da un appello lanciato sui social il 31 marzo 2021 attraverso un gruppo facebook denominato “ILOVERC”. Un appello rivolto alla cittadinanza di Reggio Calabria per correre in soccorso di un luogo simbolo della città abbandonato da più di un decennio: la Scalinata Monumentale di via Giudecca. 

 

Questa storica scalinata è una delle opere di contenimento del dislivello di terreno fra il centro storico e la zona collinare sovrastante, costruita tra il 1916 e il 1930 per facilitare il collegamento pedonale tra la parte bassa e la parte alta della città. Il suo aspetto, nonostante l’inserimento delle ringhiere che hanno sostituito in molti tratti gli originari parapetti in mattoni alleggerendo la struttura, risulta davvero imponente: presenta una doppia rampa con terrazzamenti su ben 12 livelli e 23 scalinate di forma e dimensioni differenti. Il tutto crea  

uno scenografico effetto a cannocchiale che dall’alto attraversa la città sino a toccare

il mare. Un luogo davvero suggestivo e dall’alto valore storico e paesaggistico. 

Ma soprattutto un luogo identitario,

 

presente nelle memorie di tutta la comunità reggina. 

 

Grazie alla risonanza dei social, l’11 aprile 2021 un gruppo di sconosciuti si incontra ai piedi della scalinata. Sono persone giunte da ogni parte della città con un unico obiettivo comune: restituire dignità a quel luogo terribilmente offeso e reso inaccessibile da anni di incuria. 

 

I cittadini decidono dunque di unire le forze per la realizzazione di un interesse collettivo, in una nuova forma di libertà solidale e responsabile. Il 20 aprile 2021 il gruppo fb “ILOVERC” si trasforma in “Articolo118.RC” per richiamare il Principio di Sussidiarietà sancito dalla nostra Costituzione, in virtù del quale i partecipanti all’iniziativa stavano agendo. 

 

Nei tre mesi successivi tantissimi reggini si uniscono alla pulizia della scalinata. Ogni giorno, 

la bellezza di quei 180 gradini, che scandiscono il dislivello fra la Via Posidonea 

e la via Reggio Campi, veniva sempre più fuori, fino all’ultima rampa che, 

ripulita dalle sterpaglie altissime, ha restituito la meravigliosa vista 

sullo Stretto di Messina

 

Completata la fase di pulizia, i volontari non si fermano e decidono di occuparsi anche dell’abbellimento delle terrazze, arricchendo le aiuole con piante e fiori colorati. La Scalinata della Giudecca è finalmente pronta a vivere la sua rinascita: sui suoi gradini c’è di nuovo gente, artisti di ogni genere cominciano ad improvvisare performances ed arrivano anche i turisti. La scalinata non solo recupera la sua funzione di passaggio strategico per la città, ma torna ad essere luogo di ritrovo per la comunità e teatro di manifestazioni ed eventi culturali. 

 

Il progetto di riqualificazione e valorizzazione prosegue, si evolve e si fa sempre più articolato. Il 24 settembre 2022 i volontari costituiscono l’associazione “Scalinata Monumentale di via Giudecca APS”, che ottiene un importantissimo risultato entrando, poco dopo, a far parte della Rete delle Comunità Patrimoniali Italiane (CPI) presenti su “Faro Italia Platform”, un’iniziativa della Rete Faro Italia con il supporto finanziario del Consiglio d’Europa.   

 

Di luoghi come la Scalinata della Giudecca in Italia ne abbiamo molti. L’auspicio è che questa bellissima storia di cittadinanza attiva possa essere un esempio per tante altre comunità, affinché prendano coscienza della portata rivoluzionaria che il loro ruolo può avere nella tutela, nella valorizzazione e a volte, come in questo caso, nella rinascita del nostro straordinario patrimonio.

 

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO di Francesca de Paolis numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 ed maurizio conte

 

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LA LEGGENDA DELLE TESTE DI MORO

anfore ed otri abbellite da fiori e limoni; piastrelle dipinte a mano con motivi fitomorfi. Sono questi i manufatti artigianali tipici della Sicilia: terra dove si addensano i profumi dei capperi e dei fichi, degli agrumi e dei giardini. Regione di mare e pescatori, di vini, anfiteatri ed altre bellezze antiche.

Fra tanti misteri esotici, c’è una storia di laggiù – di quell’isola così sfarzosamente mediterranea – che in pochi conoscono e che noi, per vezzo e smodata curiosità di arcani più che per scarno amore di verità, desideriamo raccontare.

A tutti è noto che Caltagirone, luogo in cui si affollarono i migliori artisti di ogni tempo, 

è capitale siciliana di ceramiche, esportate in tutto il mondo.


Catania e Taormina brulicano di botteghe allestite di terrecotte. E basta volgere lo sguardo alle finestre, all’ingresso delle case o dei ristoranti per ammirare e riconoscere il simbolo per eccellenza della ceramica siciliana: le Teste di Moro. 

 

Stravaganti vasi a forma di testa, dalle parvenze vagamente orientali, ai quali negli ultimi anni si sono ispirati anche i gioiellieri. Così, oggi capita di vedere, appesi ai lobi dei più barocchi, piccoli volti di ceramica, sempre in coppia. Una testa, dalla faccia nera, è di un arabo, con turbante, baffi e monili, l’altra raffigura una giovane normanna.

Non si tratta di un’iconografia inventata, frutto del fastoso virtuosismo 

di qualche artigiano, ma di una moda che ha attraversato i secoli, 

affondando le sue radici in una storia sicula del XII secolo.


Era il 1100, durante l’egemonia araba, quando una fanciulla del quartiere di Al Hàlisah di Palermo, oggi chiamato Kalsa, si innamorò di un Moro che era in città di passaggio, e ne fu ricambiata. 

 

Dopo qualche tempo di incontri amorosi, però, l’uomo rivelò all’amata che sarebbe presto dovuto ripartire, poiché in Oriente lo aspettavano moglie e figli. Folle di rabbia, la fanciulla, di tempra combattiva, come è d’uso fra le splendidamente vigorose e tenaci donne del Sud, uccise l’amante nottetempo. Gli tagliò la testa e la usò come vaso per piantarci del basilico che, per non si sa quale strana alchimia, crebbe più rigoglioso che mai. Tanto che il vicinato cominciò a commissionare vasi a forma di testa di moro, usandoli come ornamenti per i propri balconi. 

 

Di questa leggenda siciliana, nella quale si aggrovigliano passione e vendetta, tradimento e gelosia, sono sature dunque le famosissime Teste di Moro in ceramica dipinta prodotte in terra trinacria. Rese nelle più diverse varianti, ad assecondare il gusto di tutti coloro che, anche non conoscendone la storia, sono subito attratti dal loro eccentrico fascino. 

 

A distanza di duecento anni,

 

chi dimostrò di essere stato sedotto dalla storia delle Teste di Moro 

fu niente di meno che una delle tre corone della nostra letteratura: 

Giovanni Boccaccio


Nella ricchissima e variegata raccolta di novelle del Decameron (1349-1351), in particolare nella quinta storia, narrata da Filomena, si parla di una vicenda molto simile. Che certo il nostro novelliere trasse dalla Sicilia. 

La novella di Boccaccio racconta di una certa Lisabetta da Messina che amava in gran segreto Lorenzo, un giovane di Pisa, che non avrebbe potuto frequentare, poiché era di umili origini. Quando la famiglia lo scoprì, i fratelli di Lisabetta, tre ricchi mercanti, uccisero Lorenzo e lo seppellirono nelle campagne. 

La giovane affranta ebbe, tuttavia, una visione in sogno: il suo amato defunto le rivelò il luogo della propria sepoltura. 

 

Così Lisabetta si recò nel luogo indicato, dissotterrò Lorenzo, ne recise la testa e la portò a casa con sé, nascondendola in un vaso di basilico. Di giorno in giorno la giovane andava a piangere per il suo Lorenzo sopra a quel vaso. E fu così che le lacrime d’amore versate da Lisabetta annaffiarono il basilico, che divenne più florido e lussureggiante che mai. 

 

È certo che gli abitanti del posto sapranno offrire una dovizia di particolari in più sulla leggenda, ma prima di avventurarci in Sicilia per saperne di più, per intessere in Trinacria travagliate storie d’amore, o semplicemente per comprare delle splendide e ornamentali Teste di Moro, c’è un dettaglio da notare.

Il basilico ricorre sia nella storia originale delle Teste di Moro 

che nella versione di Boccaccio.


L’illustre scrittore toscano poteva scegliere un’altra pianta per la sua Lisabetta da Messina, invece sceglie la stessa. Il basilico, infatti, è una pianta fortemente simbolica, dal significato ambivalente. È ritenuto di buon auspicio per l’aldilà. Antichi egizi e greci lo usavano per le imbalsamature. Cinesi ed arabi ne conoscevano le proprietà medicinali, i crociati ne riempivano le navi per renderle profumate e nel Medioevo era utilizzato per guarire numerose ferite. Inoltre, in Occidente, al basilico, portatore di fertilità, è attribuito un significato erotico. Mentre sull’isola di Creta il basilico rappresenta una pianta nefasta. 

 

È un po’ come se nel basilico, rigoglioso ed olezzante, squisitamente mediterraneo, si celassero tutti quegli umori, sentimenti, accenti, venature di cui si compone la suggestiva storia che si cela dietro le Teste di Moro.

 

 

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO Gemme del Sud numero 30 dicembre 2023 gennaio 2024 Editore Maurizio conte

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LA VILLA ROMANA DI POSITANO

 

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                       Positano

 

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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C. causò la distruzione di abitati in un ampio raggio di chilometri e, oltre alle famose Ercolano e Pompei, colpì anche la costiera amalfitana, come testimoniano i resti della ricca domus marittima di Positano, costruita nel I secolo a.C., sepolta dai materiali piroclastici. 

 

Un settore dell’antica struttura si trova sotto la cripta superiore della chiesa di Santa Maria Assunta, ad una profondità di circa 11 metri, in una interessante stratificazione culturale da cui provengono suppellettili e diversi materiali esposti nel rinnovato MAR, il Museo Archeologico di Positano.

 

Le campagne di scavo iniziate nel 2003 hanno rimosso cenere e pomici dell’eruzione ed individuato una porzione della villa che, attraverso rampe e terrazze, 

degradava sulla baia ed hanno portato alla luce un ambiente triclinare, 

accessibile ai visitatori, che probabilmente sul lato sud aveva 

un portico colonnato che affacciava sul mare.

 

Le pareti di questo vano sono decorate da magnifici affreschi e stucchi con motivi riconducibili al Quarto stile pompeiano ed il pavimento è in un raffinato mosaico bicromatico. 

 

Sulle pareti sono dipinti scorci di architetture prospettiche, edicole, colonne e architravi a metope, ricchi tendaggi, mostri marini, delfini guizzanti, ippocampi, animali vari, uccelli, amorini, pannelli con ghirlande, medaglioni con ritratti e scene mitologiche, un paesaggio marino e nature morte in un susseguirsi di colori tra i quali spiccano il rosso, il giallo, il verde ed il blu. 

 

La vicinanza con Roma, l’amenità dei luoghi e il clima salubre, fecero della costa campana la mèta preferita dall’aristocrazia romana che vi costruì lussuose residenze con rigogliosi giardini e panorami mozzafiato sul mare dove trovare ristoro e dedicarsi all’otium.

 

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