IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI
Parte III
Correlato parte I
Correlato parte II
Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.
Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.
Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio,
la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?
Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.
2 – Il “ponte” calabrese
Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1):
1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filë, névë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u.
2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H);
3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G);
4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F);
5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D);
6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E);
7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C);
8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A).
Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.
3 – Il “tacco d’Italia”
La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.
Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave
di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni
della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci,
Corigliano d’Otranto, Sternatìa);
qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.
4 – Le parlate siciliane
E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che
i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni
vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,
conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse.
Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso
Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto
dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,
per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –uè– da -ò– originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’).
Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion.
I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’.
La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar.
Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.
Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144.
Correlato parte IV