DEMOGRAFIA IN BASILICATA di Angelo Raffaele Colangelo – Numero 13 – Gennaio 2019

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DEMOGRAFIA IN BASILICATA

 

Molteplici e profondi sono stati i cambiamenti che ha subito la popolazione della Basilicata dall’Unità ad oggi. Alcuni divari insorti dopo l’unità sono stati superati, altri se ne sono aggiunti. Tuttavia in oltre un secolo e mezzo non si è prodotta una vera convergenza della regione lucana, e più in generale del Mezzogiorno, con la parte più dinamica del paese. E forse sta qui la vera debolezza della politica: la mancanza di una strategia coerente e risolutiva della questione lucana e meridionale. Tutto ciò si riflette sulla società locale, sulle persone, sulle famiglie, sospinte a “difendersi” dal cambiamento, rifugiandosi in una concezione familistica priva di sbocco. Va letto in questo contesto, ad esempio, il fenomeno della fecondità delle donne lucane, un tempo portate ad esempio per l’intero paese (1), ed oggi tra i livelli più bassi e involutivi. Come va letto in tale contesto la continua fuga soprattutto di giovani dalla regione. Fenomeni che sono all’origine della “desertificazione demografica” del territorio regionale. Nello spazio limitato di questo articolo è difficile dare conto di tutte le trasformazioni e le emergenze demografiche; cercherò di evidenziarne le principali, a partire dalla consistenza della popolazione residente registrata nei 15 censimenti che si sono succeduti in 150 anni di storia unitaria.(2) Cercherò anche di cogliere sinteticamente i fattori che ne hanno condizionato l’evoluzione (o involuzione), accennando conclusivamente ai processi di spopolamento che stanno interessando larga parte del territorio regionale.

 

La Popolazione Lucana dall’Unità ad oggi.

 

Il dato che immediatamente colpisce è lo scarso sviluppo della popolazione lucana nel secolo e mezzo di storia unitaria: 509.060 sono le unità censite nel 1861, 578.036 quelle censite nel 2011. In 150 anni, insomma, la popolazione regionale è cresciuta di appena 68.976 unità, pari ad un incremento del 13,55%, corrispondente ad un tasso medio annuo di appena lo 0,09%. Tra le regioni italiane soltanto il Molise riesce a fare peggio, registrando addirittura un regresso assoluto della popolazione residente (passando dalle 355.138 unità del 1861 alle 313.660 unità del 2011, con una perdita di 41.478 residenti pari all’11,68%). Nel periodo considerato la popolazione del paese, nel suo complesso, cresce di 37.257.267 pari al 168%, con una variazione media annua pari all’1,12%.

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 (*) L’andamento demografico anomalo del comparto è condizionato dal fatto che Veneto e Friuli Venezia Giulia sono presenti dal censimento del 1871, mentre il Trentino Alto Adige è presente dal 1921(**) Le province di Roma e di Viterbo sono presenti dal censimento del 1871

È il Mezzogiorno continentale a presentare il minore sviluppo della popolazione tra le diverse ripartizioni del territorio nazionale. Ma tra le regioni che compongono il Sud, la Basilicata risulta tra le più fragili. Nei 150 anni considerati, infatti, la popolazione meridionale (escluso la Basilicata) passa da 6.105.376 a 13.399.395 abitanti con un incremento assoluto di 7.294.019 pari al 119,46%; insomma raddoppia la propria consistenza. Inoltre, a fronte di una popolazione sostanzialmente stazionaria in Basilicata, nelle altre regioni meridionali – fatta eccezione per il Molise – la popolazione cresce significativamente: in Abruzzo (+52,29%), in Calabria (+69,64%), in Campania (+140,05%) e in Puglia (+203,65%).

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In conclusione, la popolazione residente in Basilicata in un secolo e mezzo non è cresciuta. Tuttavia questo sintetico dato è il risultato di un percorso alquanto accidentato e tormentato (non solo demograficamente). Possiamo distinguere diversi periodi nella vicenda della popolazione lucana contemporanea. Un primo periodo, quello del ventennio immediatamente successivo all’unità (1861-1881), nel quale, nonostante la presenza di un profondo disagio sociale, la popolazione cresce, anche se con un ritmo modesto (tasso medio annuo dello 0,29%, contro un tasso medio nazionale dell’1,5% e del resto del Sud dello 0,6%). Un secondo periodo, quello del quarantennio a cavallo del secolo (1881-1921), quando la popolazione lucana decresce fortemente, ad un ritmo medio annuo dello 0,22%. Nel quarantennio considerato l’Italia nel suo insieme cresce ad un ritmo medio annuo dello 0,90%, e la popolazione del resto del Mezzogiorno cresce con un tasso medio annuo dello 0,7%. È il periodo della grande emigrazione transoceanica, che produce fenomeni di spopolamento diffuso sul territorio della regione. (3) Un terzo periodo, il trentennio che va dal primo al secondo dopoguerra (1921-51), quando la popolazione lucana cresce ad un ritmo più elevato della media italiana (tasso medio annuo dell’0,92%, contro una media nazionale dello 0,69%). Anche il resto del Mezzogiorno continentale cresce nel periodo ad un ritmo medio annuo dello 0,92%. È un periodo demograficamente positivo, sotto l’influenza di due fattori determinanti: il persistere di un regime demografico condizionato ancora dall’alta fecondità delle donne lucane e dalle difficoltà ad emigrare, per le restrizioni operate dagli Stati Uniti d’America. Un quarto periodo, dal 1951 in poi, quando la regione sperimenta un nuovo periodo di flessione demografica, soprattutto nel ventennio 1951-71 e dal 2001 in poi. Nell’intero sessantennio la popolazione regionale diminuisce con un ritmo medio annuo dello 0,13%, mentre il paese cresce con un tasso annuo dello 0,42% e il resto del Sud dello 0,31% annuo. Ed è soprattutto nell’ultimo ventennio che la perdita di popolazione diventa drammatica: contro un paese che comunque cresce al un ritmo dello 0,23% annuo ed il resto del Sud sostanzialmente stazionario (tasso medio annuo dello 0,03%), la popolazione lucana decresce con un tasso medio annuo dello 0,27%.

 

Fattori naturali e migratori nella dinamica della popolazione.

 

Al momento dell’Unità il modello demografico lucano – ma anche quello dell’intero paese – rifletteva le condizioni di antico regime. La fecondità era ancora di tipo naturale, nel senso che il comportamento riproduttivo non mutava in funzione dei figli avuti. La nascita, insomma, era un evento al quale non si sapeva come far fronte (si pensi ai neonati abbandonati, ai cosiddetti “esposti”). E la morte era ancora profondamente “ingiusta”, nel senso che recideva la vita nel fiore degli anni, e particolarmente in età infantile. La transizione ad un regime demografico moderno, caratterizzato da bassa natalità e bassa mortalità, in Italia è avvenuta tardi, e in modo particolare nel Mezzogiorno e in Basilicata. Il processo si avvia a cavallo tra XIX e XX secolo, e il regime demografico moderno si afferma soltanto nel secondo dopoguerra. Con riferimento al territorio regionale, il quoziente di natalità per 1000 abitanti passa da 42,1 nel triennio 1862-64 a 35,9 nel triennio 1900-02, riducendosi di 6,2 punti, contestualmente il quoziente di mortalità passa da 39,3 a 28,3, riducendosi di 11 punti, per cui in quasi quarant’anni il tasso di incremento naturale lucano diventa più che doppio (dal 2,9 per mille al 7,6 per mille). La tendenza alla discesa dei tassi prosegue nel tempo, e nel triennio 1961-63 si attesta al 23,6 per mille per la natalità ed all’8,7 per mille per la mortalità: in sessant’anni il primo quoziente si riduce di 12,3 punti ed il secondo di 19,6 punti. Di conseguenza il tasso di incremento naturale sale al 14,9 per mille, quasi doppio rispetto all’inizio del secolo. Negli ultimi cinquant’anni, invece, si verifica un vero e proprio tracollo nelle condizioni demografiche della regione, con un tasso di natalità che sprofonda al 7,65 per mille nel triennio 2010-12 ed un tasso di mortalità che, per effetto dell’invecchiamento della popolazione, subisce un lieve rialzo, collocandosi al 9,7 per mille, e ne consegue un tasso di decremento naturale di circa il 2 per mille.

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Il processo di invecchiamento della popolazione lucana è evidente, se si considera che la quota degli anziani (quelli in età da 65 anni in poi) passa dal 6,6% del 1951 al 20,5% del 2011; nello stesso periodo la quota dei giovanissimi (in età fino a 14 anni) passa dal 29% al 13,3%. Di conseguenza l’indice di vecchiaia (rapporto tra anziani e giovanissimi) passa dal 344,4% al 752,6% (insomma, se vi erano circa 3,5 anziani ogni giovanissimo nel 1951, ve ne sono ben 7,5 nel 2011), e l’indice di dipendenza (rapporto tra anziani e classi centrali di età 14-64 anni) passa dal 10,3% al 30,9% (insomma, se prima vi era un anziano ogni 10 persone in età lavorativa, ora ve n’è 1 ogni 4). L’altro grande fattore di trasformazione demografico e sociale è stato il fenomeno emigratorio. A causa, certo, della pressione demografica sul territorio, ma anche per l’arretratezza dei rapporti produttivi nelle campagne. È la combinazione dei due fattori (demografico e socio-produttivo) a generare una spinta espulsiva così importante, che assume i connotati dell’esodo nel momento in cui i luoghi di attrazione si rendono disponibili e i sistemi di comunicazione rendono più agevolato il movimento. Il flusso di espatrio, infatti, si mostra presto potente: nel periodo 1876-1913 emigrano 376.627 persone, la gran parte (354.110) verso i paesi oltre oceanici, e solo poco più di 20 mila verso i paesi europei. La meta principale sono gli Stati Uniti (199.475 unità, il 53% dell’intero contingente), seguiti dall’Argentina (77.649, il 22%) e dal Brasile (50.484, il 13%); la meta europea più ambita è la Francia (11.132, il 3% del contingente migratorio). La media annua di espatrio ammonta a 9.911 unità, su una popolazione media del periodo che non supera le 550 mila unità. Dopo il periodo bellico, nel quale partono soltanto 13.159 unità, per lo più ricongiungimenti familiari, il flusso riprende subito con vigore, ma dura solo pochi anni a causa del contingentamento all’ingresso deciso dagli Stati Uniti d’America e alla successiva crisi economica mondiale. In tutto il periodo 1919-1925 emigrano 41.228 lucani, con una media annua pari a 5.890. Dopo il 1925 l’esodo dei lucani via via si spegne. In tutto il cinquantennio 1876-1925 sono espatriati dalla regione 431.014 lucani, dei quali 228.260 hanno raggiunto gli Stati Uniti, 92.563 si sono diretti verso le terre argentine, 55.683 sono approdati in Brasile e 13.165 nella vicina Francia, per citare solo le mete più frequentate. La media annua di espatrio in tutto il cinquantennio è di 8.620 unità. Ad emigrare è soprattutto il maschio (303.627 unità, pari al 70,4% del contingente) che parte da solo (270.239 unità pari al 62,7% del contingente); tuttavia, rispetto al complesso dell’emigrazione italiana del periodo, la presenza delle donne (127.387 pari al 29,6%) e soprattutto dei minori (160.775 unità pari al 37,3%) si mostra significativa nel contingente lucano, a segnalare che gli emigranti lucani esprimono più degli altri l’intenzione di partire per non ritornare. La figura professionale più presente nel contingente emigratorio è l’addetto ai lavori campestri (63,8%), seguito a distanza dagli addetti ai lavori di sterro (10,9%), ma anche la presenza di figure artigianali e professionali è significativa (13,3%), a testimonianza che il progetto emigratorio, in realtà, interessa tutta la società lucana. Non tutto il contingente che espatria, ovviamente, diventa perdita demografica definitiva per la regione: c’è chi parte e non ritorna, e c’è chi dopo essere tornato riparte nuovamente (il cosiddetto flusso circolare), ma c’è anche chi dopo un po’ di tempo ritorna definitivamente. Le statistiche ufficiali non registrano le ripartenze né, fino al 1905, i rientri; è quindi complicato avere cifre esatte su quella che viene definita “emigrazione netta”, ossia la perdita netta di lucani che si sono spostati definitivamente all’estero. Le statistiche ufficiali (4) registrano che, nel periodo 1906-25, sono 58.302 emigrati di ritorno, meno del 30% del flusso in uscita. Anche assumendo tale percentuale come valida per tutto il periodo 1876-1925, avremmo comunque una perdita di popolazione per emigrazione superiore alle 300 mila unità (oltre la metà dei residenti in regione al 1881), con un tasso di emigrazione netta pari all’1,16% sulla media della popolazione dal 1881 al 1921, ben più alto del tasso di crescita naturale della popolazione lucana nel periodo. Al termine del secondo conflitto mondiale la pressione demografica sul territorio torna ad essere notevole, ma non si trasforma immediatamente in flusso emigratorio, per il persistere del contingentamento degli sbarchi negli USA e per le condizioni non più favorevoli nelle tradizionali destinazioni latino-americane (Argentina, Brasile), mentre le nuove destinazioni – come l’Australia – non corrispondono pienamente alle aspirazioni dei potenziali emigrati e lo sbocco europeo è ancora molto limitato (quelli svizzero e tedesco si apriranno solo dalla seconda metà degli anni cinquanta). Nel decennio 1946-55 emigrano dalla regione 43.728 unità (10.163 sono i rimpatri, pari al 23,2% degli espatri), ma già nel ventennio successivo il flusso in uscita sale a 194.776 emigranti (76.190 sono i rimpatri, pari al 39,1% degli espatri). La crescita del flusso di ritorno è dovuto al fatto che l’emigrante lucano predilige ormai la destinazione continentale, e diversi paesi europei praticano politiche di scoraggiamento all’insediamento definitivo sul proprio territorio. La vicinanza tra luogo di provenienza e quello di destinazione, e i relativamente bassi costo di trasferimento, inoltre, consentono all’emigrante di partecipare ad un mercato del lavoro allargato, capace di fargli cogliere ogni opportunità di lavoro temporaneo che si crea nei paesi esteri, nel nord d’Italia o nella stessa regione. In sostanza il progetto emigratorio lucano diventa sempre meno un progetto di vita, da condividere con la propria famiglia. L’emigrante è un lavoratore che si muove prevalentemente da solo, pronto a cogliere le opportunità di una domanda di lavoro che nel continente europeo tende ad unificarsi. La partecipazione femminile è scarsa nel movimento emigratorio continentale (solo del 10%, nel quadriennio 1959-63), mentre permane elevata (50% nel contingente) nel movimento transoceanico. Il 43% dell’emigrazione continentale lucana si dirige verso la Svizzera e il 32% verso la Germania Federale, nazioni che forniscono anche alte percentuali di rimpatrio (rispettivamente 29% e 13%).

 

Espatri e rimpatri 1876-2014 : Basilicata, Italia e Sud

 

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Nel secondo dopoguerra parte anche un intenso movimento migratorio interno, con destinazione le regioni del cosiddetto triangolo industriale (Liguria-Lombardia-Piemonte), la cui entità è stimata attraverso il trasferimento di residenza (iscrizioni e cancellazioni anagrafiche). La registrazione anagrafica coglie, tuttavia, solo approssimativamente il movimento reale, perché non sempre chi si muove trasferisce la propria residenza, e comunque non lo fa con contemporaneità; tuttavia questa rimane l’unica fonte statistica per rilevare il movimento migratorio interno. Il fenomeno assume ritmi elevati nel triennio 1961-63 (71.887 cancellazioni a fronte di 34.019 iscrizioni, con una perdita netta di 37.868 unità, corrispondente ad una media annua di 12.623 residenti) e nel triennio 1968-71 (67.216 cancellazioni a fronte di 34.611 iscrizioni, con una perdita netta di 32.605 unità, corrispondente ad una media annua di 10.868 residenti). Dal 1972 in poi il flusso netto si ridimensiona, ma non si esaurisce. Fino al 1981 le destinazioni prevalenti sono le regioni del Nord Ovest, ed in particolare la Lombardia (con unità nette trasferite) ed il Piemonte (con 49.085). Dopo il 1981 il flusso si riduce nelle dimensioni e si distribuisce nelle principali regioni sia del Nord che del Centro Italia; in particolare, perde importanza il Piemonte, mentre emerge il polo attrattivo dell’Emilia Romagna.

 

Saldi dei movimenti anagrafici tra comuni della Basilicata e comuni del

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Muta anche la qualità delle risorse umane che abbandonano la regione: sempre più giovanile e scolarizzata, anche femminile; spesso ci si sposta per proseguire gli studi e non si fa più ritorno.

 

Lo spopolamento attuale

 

Questa continua sottrazione di risorse umane, soprattutto giovanili, non solo ha effetti negativi sulla consistenza della popolazione residente in regione, ma altera profondamente la sua struttura per età. In particolare assottiglia le classi di età demograficamente più produttive, con effetti sulla consistenza della quota di popolazione prolifica e quindi sulla fecondità generale. Quest’ultima è depressa, inoltre, dalla carenza di servizi di conciliazione tra famiglia e lavoro e dal carico, sulla componente femminile, dei servizi di assistenza a una popolazione sempre più anziana. Studi demografici sulla fecondità, sia a livello europeo che nazionale, hanno mostrato come le aree con minori servizi di conciliazione subiscono un doppio effetto negativo: l’occupazione femminile stenta a decollare e la fecondità si riduce sempre di più. In questo modo si spiega l’inattesa inversione territoriale nella fecondità in Italia, dove regioni tradizionalmente feconde come la Basilicata fanno sempre meno figli, mentre le regioni settentrionali vedono un incremento relativo delle nascite. E ciò non soltanto per effetto delle immigrate, il cui comportamento riproduttivo sta via via allineandosi a quella delle italiane, ma proprio per la maggiore disponibilità di servizi di conciliazione.

Numero medio di figli per donna ed età media della donna al parto

 

 

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Sono queste le ragioni che portano alla crescita del “malessere demografico” nella regione lucana. Il demografo Antonio Golino, analizzando il fenomeno dello spopolamento nelle regioni italiane, con riferimento al 1991, per la Basilicata parla di “malessere demografico relativamente diffuso e crescente”. (5) I comuni più compromessi (“in grave crisi demografica”) risultavano 11 e quelli comunque in difficoltà (“tasso di incremento naturale medio annuo…sceso al di sotto dello zero”) ben 69. Ricalcolando con i medesimi criteri i valori dei comuni lucani con i dati del censimento 2011 viene fuori che i comuni più compromessi salgono a 67 e quelli comunque in difficoltà a 51. È stato osservato (6) che in presenza di condizioni di arretratezza e di diffuso malessere sociale (oltre che demografico), le aspettative dei cittadini e i meccanismi di consenso finiscono per adattarsi ali livelli più bassi, facendo quindi venir meno la necessaria spinta critica verso i soggetti pubblici, i quali finiscono per non trovare le motivazioni per una politica di cambiamento. Sono convinto che ciò accresce la responsabilità di una classe dirigente che intende prendersi cura dei cittadini che amministra e del territorio che governa, e per costruire risposte adeguate e coerenti a queste condizioni di malessere è opportuno avere piena cognizione delle cause che ancora le determinano.

Note

 

(1) “La Lucania ha un primato che la mette alla testa di tutte le regioni italiane: il primato della fecondità, la quale è la giustificazione demografica e quindi storica dell’impero” (B. Mussolini, comizio a Potenza del 27 agosto 936). Citato in R. Villari “Il sud nella storia d’Italia”, vol. II, Laterza 1974

(2) Nei primi censimenti unitari viene rilevata soltanto la popolazione presente. Tuttavia l’ISTAT ha ricostruito quella residente per tutti i censimenti e per tutti i comuni. Cfr. ISTAT “Popolazione residente dei comuni. Censimenti dal 1861 al 1991”, Roma 1994

(3) Come testimonia Francesco Saverio Nitti nella sua “Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria” del 1910, riportata in “Scritti sulla questione meridionale”, Laterza 1968

(4) Commissariato Generale per l’Emigrazione “Annuario dell’emigrazione italiana dal 1876 al 1925”, Roma 1926

(5) Golino-Mussino-Savioli “Il malessere demografico in Italia”, il Mulino 2000

(6) Casavola-Utili “Il Mezzogiorno: politiche per la crescita e riduzione delle disuguaglianze”, nel volume curato da Guerzoni “La riforma del welfare. Dieci anni dopo la Commissione Onofri”, Il Mulino 2008

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