AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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Giusi-Verbaro

A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

Alessandro-Gaudio(marrone)

Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

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