La leggenda narra che Tancredi d’Altavilla, durante una battuta di caccia, sia rimasto impietrito davanti all’immagine della Vergine, comparsa tra le corna di una cerva: nel luogo del miracolo, il nobile normanno avrebbe fatto elevare un tempio in onore di Maria. Le tradizioni esigono dunque che il nome di Cerrate derivi da Cervate e prima ancora, appunto, da cerva.
Il modulo lessicale in cui si articola il monumento nel suo complesso potrebbe per certi versi rammentare gli enclos parroissiaux bretoni: attorno al nucleo centrale del luogo di culto vero e proprio si dipana una serie di edifici ancillari. A differenza però dei recinti parrocchiali di Bretagna, i manufatti “laici” di Cerrate (ovvero la Casa del Massaro, il pozzetto cinquecentesco, il frantoio ipogeo o gli alloggi per i mezzadri) non si qualificano come coevi alla Chiesa, ma le si sono sedimentati attorno lungo l’arco dei secoli.
L’Abbazia, romanica, è di eccezionale fattura: l’esterno, con facciata a capanna tripartito, è sobrio ed elegante. Il portale, ad arco, è impreziosito da un’edicola sorretta da colonne, a loro volta sormontate da suini. L’arcata narra il ciclo della Natività di Cristo e ospita vari personaggi (delizioso il gruppo dei tre Magi, vestiti alla maniera di pope ortodosso; così teneramente convincente Santa Elisabetta, nell’atto di poggiare il capo sulla spalla di Maria, in un gesto di sororale intimità).
Il portico offre al visitatore l’occasione di indugiare su elementi figurativi splendidamente eseguiti e commoventi. Tra i capitelli della loggia spuntano cespugli di pietra, racconti fantastici e bestiari dal sapore squisitamente medievale, si affollano sirene, arpie, grifi, draghi e centauri: particolarmente pregevole è la raffigurazione del monaco in lotta con dei ramarri, a loro volta sopraffatti da aquile.
L’interno dell’Abbazia, a tre navate, corre fino all’altare centrale sotto un ciborio duecentesco e contiene un prezioso ciclo di affreschi due e trecenteschi raffiguranti quegli stessi santi guerrieri (San Giorgio e San Demetrio), che guidarono le potenze crociate contro i Turchi e consentirono l’espugnazione di Antiochia: la propaganda normanna aveva forse preteso un dazio, piegando a sé il talento degli artisti di scuola bizantina.
1 Sulla vita di Boemondo cfr. UTET, 1967, p. 222. 2 Pietro Serio, Appunti per una storia di Campi Salentina, 1963, pp 53-54. 3 Gli storici evidenziano che quello di “basiliano” è un vocabolo solo convenzionale, non essendo di fatto mai esistito un ordine monacale con questo nome. 4 Lara Leovino, Bell’Italia n. 360, Ed. Aprile 2016. 5 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. 6 Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 21. Notevole importanza per gli scambi commerciali della zona ebbe la fiera che, per cinque giorni (dal 20 al 25 Aprile di ogni anno), animava gli atrii dell’Abbazia. Preciso che l’istituzione ufficiale della fiera avvenne per volontà di Giovanni Antonio Del Balzo Orsini, con decreto del 20 Dicembre 1452. 7Teodoro Pellegrino, Santa Maria a Cerrate, Capone Editore (2004), p. 26-27: è appurato che lo scrittorio di Cerrate avesse rapporti con quello celeberrimo di Casole, nei pressi di Otranto.
nella sua Alessiade: «Ora [Boemondo] era uno, per dirla in breve, di cui non s’era visto prima uguale nella terra dei Romani, fosse barbaro o Greco (perché egli, agli occhi dello spettatore, era una meraviglia, e la sua reputazione era terrorizzante). (…) Era così fatto di intelligenza e corporeità che coraggio e passione innalzavano le loro creste nel suo intimo ed entrambi lo rendevano incline alla guerra. Il suo ingegno era multiforme, scaltro e capace di trovare una via di fuga in ogni emergenza».
Qui ci si lascia ammaliare dalle suggestioni di un Medioevo che ritorna come magma dolce dalle profondità dei secoli; ci si attarda su ogni dettaglio, su ogni singolo animale (reale o immaginario) sapientemente evocato sui capitelli di ciascuna delle colonnine del portico, sul fantasma di scomparse comunità di monaci, sul tramestio dei loro passi sul selciato o sul suono ormai perduto dei loro canti. Qui riecheggia ancora il nome della rosa, che, nel susseguirsi d’iscrizioni in greco, arabo e latino, tra le navate abbaziali, riemerge dal passato.