GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA DI NAPOLI Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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GLI ABITI DEGLI ARAGONESI AL DOMA….     DI NAPOLI

 

 Gemme del Sud
                          Napoli

 

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Il Museo della basilica di San Domenico Maggiore, 

nell’antico centro storico di Napoli, conserva un tesoro unico e raro:


abiti damascati, sottovesti, cappelli, scarpe, veli, cuscini di seta ed oggetti personali originari del XVI secolo appartenuti ad esponenti della casata aragonese e nobili loro contemporanei. 

 

Questi materiali sono stati rinvenuti all’interno di arche sepolcrali, bauli in legno che contenevano le spoglie mummificate dei defunti e i loro corredi. Originariamente posti nel coro della basilica, questi feretri oggi sono custoditi nella Sagrestia della chiesa sopra un ballatoio conosciuto come il passetto dei morti. 

 

In occasione di uno studio delle salme condotto negli anni Ottanta dalla Divisione di Paleopatologia dell’Università di Pisa, tutti i reperti, tra cui il vestiario, sono stati rimossi dalle tombe e sottoposti ad un accurato restauro per poi essere esposti permanentemente al pubblico nella Sala degli Arredi Sacri del museo.

 

In questa collezione di alto valore storico spiccano l’abito in taffetà e gros 

di Maria d’Aragona, l’abito di raso ed il cappello in velluto di Pietro d’Aragona, 

il cuscino funebre in seta di Ferdinando I detto Ferrante 

e l’abito damascato con nastri di seta 

di Isabella Sforza d’Aragona.

 

Quest’ultimo è stato oggetto di studio e riprodotto fedelmente dalla bottega sartoriale di Manifatture Digitali Cinema Prato all’interno di un loro master del 2020. 

 

I pregiati vestiari sono testimoni della moda in voga presso la corte aragonese e della qualità raggiunta dalla produzione tessile di allora, la cui raffinatezza e preziosità è possibile intuire nella varia ritrattistica dell’epoca.

 

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 Abito originario di Isabella d’Aragona e  riproduzione dell’abito di Isabella d’Aragona, MDC di Prato

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SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO E IL BAROCCO LECCESE Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

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SAN GIOVANNI BATTISTA AL ROSARIO e il BAROCCO LECCESE

 

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                         Lecce

 

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Lo spirito del XVI secolo si manifesta in una delle sue interpretazioni più suggestive nel Salento e soprattutto a Lecce che, durante la metà di tale secolo, si trasforma da severa città fortificata a splendente esempio di città d’arte.

 

Fiorisce il barocco, facilmente riconoscibile per le sue forme straordinarie ed appariscenti, sorprendenti composizioni di decorazioni floreali, animali grotteschi, figure fantastiche ed allegoriche che si mescolano tra loro e fregiano le facciate degli edifici civili e di culto, dalla particolarissima chiesa di Santa Croce, fino agli esempi più tradizionali, come la chiesa di San Giovanni Battista al Rosario, che si lasciano ammirare per le loro facciate in pietra leccese

 

Qui la luce gioca un ruolo fondamentale, illuminando i dettagli e rivelando alla vista delicate composizioni che appaiono come tenui merletti.

 

La chiesa di San Giovanni Battista al Rosario si trova nel centro storico della città e fu ricostruita a fine Seicento su una preesistente struttura medievale per volere dei domenicani. La facciata, pur nella sua magnificenza barocca, non dimentica un impianto classico ed è divisa in due ordini architettonici separati da una balaustra. Il frontespizio è un tripudio di uccelli, fiori e putti, ma non mancano le figure care ai domenicani: il portale d’ingresso, incorniciato da due giganti colonne, è sormontato dalla raffigurazione di San Domenico di Guzman, ai suoi lati San Giovanni Battista e San Francesco ed in cima alla facciata la statua di San Tommaso d’Aquino, andata per metà perduta. 

 

La pianta a croce greca soffre della mancanza della cupola progettata e mai costruita e la copertura è realizzata con un tetto ligneo. Una particolarità della chiesa è il pulpito, unico a Lecce eretto in pietra leccese (gli altri sono lignei), che raffigura l’Apocalisse di San Giovanni di Patmos, tema sicuramente adatto all’ordine dei predicatori domenicani.

 

 

 

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IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA Gemme del Sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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IL FESTIVAL DELLA ZAMPOGNA

 

 Gemme del Sud
                     Scapoli (IS)

 

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Scapoli è un delizioso centro abitato circondato dalle meraviglie del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Si è sviluppato intorno ad una fortezza appartenente all’antica abbazia di Castel Volturno, fondata nell’VIII secolo d.C., oggi chiamata Palazzo Marchesale dei Battiloro. Le sue mura a strapiombo sulla roccia servivano a difesa dell’edificio e della sua popolazione da eventuali invasori.

 

Partendo dall’incantevole androne del palazzo denominato Sporto, attraverso le aperture del cammino detto “Scarupato”, si possono ammirare le cime di Monte Marrone e Monte Mare delle Mainarde.

 

Ma la particolarità di Scapoli sta in un’antica tradizione: la fabbricazione 

della zampogna, che qui si tramanda da secoli.

 

La zampogna di Scapoli è celebre ovunque ed ancora oggi: passeggiando per il borgo, si possono osservare gli artigiani al lavoro mentre ne creano nuovi esemplari. 

 

Quella di Scapoli è una vera e propria devozione. 

 

Per connettere il passato al futuro di questo prodigioso strumento è stato innanzitutto allestito il Museo Internazionale della Zampogna.

 

Ogni anno a luglio, poi, va in scena un festival che richiama gli appassionati 

di mezzo mondo, attratti dal folklore e dalla tradizione di questi suoni antichi, 

tanto da trasformare, in questo periodo, il piccolo borgo in un luogo magico, 

 

Se non vi trovaste a Scapoli in quei giorni, non vi rattristate: il Circolo della Zampogna cura una mostra permanente che raccoglie antiche cornamuse e zampogne e chissà…potreste ascoltare il suo suono passeggiando tra un vicolo e l’altro. 

 

 

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I MISTERI DI CAMPOBASSO gemme del sud numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

I MISTERI DI CAMPOBASSO

 

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                 Campobasso

 

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Ogni anno, in occasione della festività del Corpus Domini, per le vie di Campobasso si svolge 

 

la processione dei Misteri, una delle tradizioni più suggestive 

e spettacolari di tutto il Molise. 


Già nel Medioevo si usava festeggiare il giorno del Corpus Domini con delle rappresentazioni sacre allestite su dei palchi collocati nei pressi delle chiese. Nella metà del Settecento, alcune Confraternite del luogo commissionarono a Paolo Saverio Di Zinno, talentuoso scultore locale, la realizzazione delle macchine processionali. L’artista ne inventò e realizzò, con la collaborazione di sapienti fabbri locali, ben diciotto, sei delle quali purtroppo andarono distrutte durante il terremoto del 1805. I “Misteri”, o “Ingegni”, sono macchine costituite da basi di legno sulle quali sono applicate strutture in ferro ramificate dove vengono posizionati dei figuranti, per lo più bambini, che rappresentano angeli, diavoli, santi e altre figure sacre. 

 

Dopo oltre duecento anni, i Misteri sono ancora funzionanti 

e vengono portati in spalla per le vie della città.

 

Il passo cadenzato dei portatori, facendo oscillare le strutture, crea l’illusione di vedere i personaggi volare: uno spettacolo che emoziona i visitatori che ogni anno accorrono numerosi a Campobasso per ammirare il passaggio di questi veri e propri “quadri viventi”. Grazie alla dedizione e all’impegno dell’Associazione Misteri e tradizioni, 

nel 2006 è stato inaugurato il Museo dei Misteri, 

situato nel centro della città

 

dove vengono custodite e conservate le Macchine, che si possono ammirare insieme a foto, vestiti d’epoca e altre testimonianze che raccontano la storia di questa tradizione straordinaria.

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ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL. INTELLETTUALE E PATRIOTA di Gianluca Anglana numero 28 maggio giugno 2023 Ed. Maurizio Conte

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ELEONORA DE FONSECA PIMENTEL 

INTELLETTUALE E PATRIOTA

 

Un esperimento fallito. L’eroismo di coloro che lo vollero ebbe a che fare con l’ingenuità, la purezza dell’idealismo, l’inconsistenza del sogno.

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Utopie annichilite dalla reazione del regime, dalla rapacità francese, dall’ostilità della Chiesa e dalla diffidenza della plebe. Tra i protagonisti di questa pagina cruenta e luminosa della storia del Mezzogiorno, una donna.

 

Si chiamava Eleonora de Fonseca Pimentel, pensatrice, 

intellettuale, tra le prime giornaliste d’Europa.

 

Nacque a Roma il 13 gennaio 1752. La sua famiglia, di nobiltà portoghese, traslocò a Napoli: a causa di tensioni diplomatiche con la Santa Sede, da Lisbona arrivò l’esortazione agli espatriati lusitani a lasciare la città eterna per sottrarsi alle possibili ritorsioni pontificie. 

Durante la parentesi rivoluzionaria, le fu affidato il compito di gestire l’organo di stampa che, nelle intenzioni dei rivoltosi, avrebbe dovuto diffondere le ragioni dell’insurrezione. Accettò, sebbene con perplessità, dubbi, titubanze.   

 

Il “Monitore napoletano” ambiva a inoculare le nuove idee nel corpo stanco dello Stato borbonico, scongiurare che restassero intrappolate nei salotti degli aristocratici e dei borghesi insubordinati. Nella realtà il giornale ebbe poca fortuna e nessuna presa tra le masse incolte, che prestavano orecchio con sospettoso sarcasmo a quelle teorie bislacche sulla libertà, sull’uguaglianza, sulla fraternità. La plebe della capitale era anzi incline alla conservazione dello status quo, mentre le istanze dei ribelli faticavano a penetrare nelle remote province del regno.

Come i suoi fratelli di lotta, anche Eleonora immaginava un mondo diverso: più equo, meno oppresso, orientato dalla conoscenza e dall’emancipazione,

attraverso l’istruzione, degli strati inferiori della società.

Aveva intuito che il potere teme il dissenso colto, disinveste sul sapere per un’elementare esigenza di autoconservazione: «educare il popolo» ripeteva, ribadiva, si illudeva. Poetessa del suo tempo, sognava di trasformare i sudditi in cittadini liberi e responsabili. Sognava. 

La disillusione parlava invece la lingua scabra di Vincenzo Cuoco: «il popolo non è obbligato a sapere la storia romana per essere felice». E tradiva le divergenze e i contrasti tra i patrioti. 

Era già siderale la distanza che, come un abisso, separava un manipolo di intellettuali visionari dal popolo rassegnato a una quotidianità insozzata dal lerciume di stenti, soprusi, espedienti come all’unica opzione possibile. C’era il padre che provvedeva ai figli suoi: «viva lo re, lo pate, tata nostro». Eleonora era doppiamente straniera: per stirpe e per convinzioni.

 

Era stata una bambina dalla curiosità vorace, precoce nell’apprendere. 

Quindi una ragazza affamata di conoscere, conscia dei propri talenti 

al punto di guadagnarsi l’accesso all’Accademia dell’Arcadia 

 

e intessere un rapporto epistolare con Metastasio e con Voltaire. Infine la dama ammessa a Palazzo, dove i suoi sonetti e i suoi epitalami in omaggio alla coppia regnante furono accolti con burocratica gratitudine e il riconoscimento di un sussidio in denaro: in una Corte che concedeva credito alle novità filosofiche del Settecento, alle arti e alle scommesse della “monarchia illuminata”, i suoi meriti letterari trovarono accoglienza.

Ma poi tutto andò in pezzi.

Ogni velleità di cambiamento naufragò nell’onda di orrore e violenza vomitata su tutto il Continente dalla Francia regicida: il re di Napoli, Ferdinando IV di Borbone, si trincerò in un dispotismo torvo. Verso i Giacobini che le avevano ghigliottinato la sorella nel 1793, la regina Maria Carolina d’Asburgo sviluppò un odio implacabile, caparbio, paranoico. I progetti dei rivoluzionari, i loro entusiasmi, tutto fu travolto dalle armate sanfediste del Cardinale Ruffo e dalla caduta di Sant’Elmo. Napoli. 20 agosto 1799. Piazza Mercato. Epilogo.

 

È deciso che la sua sia l’ultima delle esecuzioni. Il sadismo della vendetta regia 

esige che Eleonora veda morire tutti prima che tocchi a lei: 

Gennaro Serra di Cassano, Monsignor Natale, 

Nicola Pacifico.

 

È ormai senza scampo, stritolata nella morsa tra l’avversione dei monarchi, che le negano il privilegio aristocratico della decapitazione, e il rancore dei lazzari e delle popolane, per i quali aveva sognato un futuro di riscatto. Nel vicolo Sospiro de ‘mpisi, sulla strada verso il patibolo incontra il dileggio, l’umiliazione, l’acredine, la rabbia. È riconosciuta: «a signora ‘onna Lionora che cantava ‘ncopp’ ‘o triato… mo la facimm’ abballà mmiezz’o Mercato».

La piazza del Mercato è ora una fiera pronta a divorarla, un palcoscenico mostruoso, un San Carlo orribilmente sconfinato. 

E l’ultimo atto è proprio il suo, fine della sua vita e di un secolo intero. 

Mentre sale sullo scaletto, guarda in faccia la città che ha amato, il microcosmo dove realtà e recita si mescolano da sempre in un intrico irresolubile. Mormora poche sillabe.  

 

Si arrende al cappio. 

E poi la spinta di Mastro Donato, boia della forca. 

E il rumore sordo della corda attorno al collo. 

E le urla festanti del popolo sulla piazza, le risate sguaiate, gli insulti, le oscenità. 

Donna Eleonora, intellettuale e patriota, poetessa e scrittrice, esce di scena così. E svanisce. 

Come al risveglio svanisce la materia effimera, e impalpabile, dei sogni.

 

 

 

 

 

 

 

 

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RIVOLUZIONE NAPOLETANA
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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO di Federico Failla numero 28 maggio giugno 2023 Editore Maurizio Conte

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SUD ITALIA ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO

 

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Val di Noto e gastronomia è un’associazione che viene naturale. La capacità di valorizzare pienamente, e spesso in maniera sorprendente, i magnifici prodotti del territorio ha reso questo scorcio di Sicilia una delle aree più interessanti da esplorare sotto il profilo culinario. In questa cornice si colloca una delle eccellenze della cucina del Val di Noto: il gelato.   

 

Cresciuto proprio in una cultura in cui le discussioni estive sul gelato possono protrarsi fino a tarda notte e creare tensioni non da poco su aspetti cruciali del prodotto (quale deve essere il colore del gelato al pistacchio? Funziona l’abbinamento cioccolato-limone? Il gelato di ricotta ha un suo perché?), ogni volta che ho affrontato una nuova esperienza all’estero sono andato sempre a scoprire le realtà locali del gelato. Per essere chiari, mai cercata la replica dei sapori siciliani, sarebbe un’ottica errata e perdente. Al contrario, l’obiettivo è stato quello di esplorare e sperimentare nuovi gusti e combinazioni, dal gelato viola di taro, al gusto di fagioli rossi, al gelato di riso, immancabile in Asia. 

 

Ma talvolta, oltre i gusti, le combinazioni e le tecniche che vengono utilizzate,

sono le storie delle gelaterie che diventano altrettanto gustose. 

E da qui parte la breve storia della gelateria “Ragusa” a Jakarta, 

aperta negli anni ’30 dello scorso secolo.


Storia dai contorni non chiari, contraddittori, avvolta da una nebbiolina che non permette di mettere a fuoco tutti i dettagli, dunque perfettamente in linea con le caratteristiche dell’Indonesia ed in particolare di Java. Nella continua scoperta di storie, cibi, persone e culture che popolano questo meraviglioso Paese, mi sono imbattuto quasi subito nella gelateria “Ragusa”, che naturalmente ha attirato la mia curiosità.   

 

Le informazioni raccolte durante e dopo la mia permanenza in Indonesia non sono state univoche: dal nome, che secondo alcuni indica il luogo di provenienza dei proprietari originari della gelateria e secondo invece la versione che ha riscontri più concreti il cognome degli stessi, al motivo stesso per cui i nostri connazionali si trovassero a Jakarta negli anni ’30.

 

La versione che presenta elementi riscontrabili in maniera più solida, anche grazie 

al materiale raccolto dal nostro Console Onorario a Bali, è che i fratelli Ragusa provenissero da Grottaglie in Puglia e che fossero arrivati a Batavia 

(il nome che aveva l’attuale Jakarta durante il periodo coloniale olandese) 

alla fine degli anni ’20.

Qui i contorni della storia iniziano a diventare meno chiari e netti: sembra che i Ragusa, di professione sarti, stessero viaggiando in nave per l’Australia e fossero stati convinti a fare una sosta a Batavia da alcuni passeggeri a bordo della loro imbarcazione. Alcune testimonianze invece asseriscono che i Ragusa fossero arrivati a Batavia per frequentare una scuola di cucito, una tesi che appare ardita e poco verosimile: perché da Grottaglie negli anni ’20 ci si sarebbe dovuti dirigere a Batavia per imparare il cucito o altre arti sartoriali?

 

All’interno della gelateria si trovano invero le foto dei quattro fratelli Ragusa, Luigi, Vincenzo, Pasquale e Francesco, foto color seppia che aggiungono autenticità alla narrazione prevalente. Stando a quanto si tramanda, Luigi e Vincenzo erano venuti in contatto con una signora olandese residente a Bandung proprietaria di una fattoria, disposta a fornire il latte per la nuova avventura commerciale dei Ragusa. La tesi che fossero pugliesi viene ulteriormente avvalorata dal fatto che i fratelli Ragusa lasciarono l’Indonesia nel 1972 e si stabilirono a Taranto. La gelateria venne ereditata dal cognato di Francesco, che si era sposato con Liliana Yo, una cinese indonesiana.

Riconosciuta nel 2012 come la più antica gelateria in Indonesia ancora in attività, 


ha avuto nei decenni alterne fortune ed ha anche offerto prodotti che sono cambiati nel tempo, dai gusti tradizionali fino ad arrivare al gelato agli spaghetti, ottenuti dalla polpa del cocco.

 

In conclusione, 

l’arrivo e la permanenza di una famiglia di sarti pugliesi in Indonesia ha lasciato un’impronta duratura nel panorama gastronomico di Jakarta, 

visto che ancora oggi la gelateria “Ragusa” 

è attiva ed operante.


Questa vicenda mi ha affascinato da sempre, perché trovare storie di italiani nei paesi con una forte presenza di nostre comunità è semplice, ma lo è meno trovarle in Indonesia, dove la nostra presenza è stata storicamente sporadica. Anche se, in verità, in Indonesia è morto Nino Bixio e Pigafetta ha fatto tappa con la nave Trinidad nella spedizione della circumnavigazione del globo nella quale rimase ucciso Magellano, senza dimenticare, inoltre, le missionarie e i missionari italiani (il primo sinologo europeo è stato padre Ruggeri, pugliese di Spinazzola), gli esploratori e gli etnologi ed etnologi come Modigliani.

 

Sono storie quelle degli italiani nell’Asia orientale e sud-orientale, molti dei quali provenienti dal Meridione, che meritano di essere meglio conosciute, 

perché testimoniano del coraggio e dell’intraprendenza 

di molti nostri connazionali

 

a costruirsi il proprio futuro anche in terre lontane e nelle quali non erano già presenti comunità di compatrioti. E mi piace pensare che il grande successo dello stile di vita italiano, del made in Italy e dell’Italia in generale in questa parte di mondo sia anche dovuto a quanto seminato dai vari fratelli Ragusa che vi hanno abitato.

 

 

 

 

 

 

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LA SARDEGNA DEI MISTERI di Gloria Salazar numero 28 maggio-giugno 2023 editore Maurizio Conte

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LA SARDEGNA DEI MISTERI

 

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La Sardegna ha conservato più di ogni altra regione italiana una cultura antica 

e misteriosa e costumi tipici particolari;

 

a partire dagli innumerevoli abiti tradizionali (ogni centro abitato ha il suo), che il primo maggio di ogni anno sfilano contemporaneamente a Cagliari per la sagra di Sant’Efisio in una delle processioni religiose più antiche (risale al 1656) e lunghe (65 km) del mondo. Non sono da meno le maschere del carnevale sardo – ad esempio gli impressionanti Mamuthones di Mamoiada – e le giostre spericolate e spettacolari, e tra queste S’Ardia di Sedilo – un palio di Siena più sfrenato – o la Sartiglia, che si tiene ad Oristano ininterrottamente almeno dal 1546.

In Sardegna non mancano neppure retaggi di epoche arcaiche:


i “fassoni” del golfo di Cabras, imbarcazioni simili a quelle degli antichi egizi; o le launeddas, strumenti musicali a fiato identici al flauto di Pan; e le “pinnette” i rifugi dei pastori costruiti come le capanne dell’età della pietra. Tra queste peculiarità ataviche c’è anche il “Canto a tenore”, riconosciuto dall’UNESCO come patrimonio culturale immateriale.

La cultura sarda è fatta inoltre di eccellenze artigianali tramandate da tempi immemorabili, in particolare “un’arte” che ha qualcosa di magico:

la filatura del bisso – anche detto “seta marina” 


– a Sant’Antioco; un materiale prodotto dalle conchiglie, che una volta tessuto risplende (quasi) come l’oro. Così come avvolte da un’aura di magia e mistero – al di là dei celeberrimi nuraghe – sono le numerosissime “domus de janas” (le “case delle fate”), tombe preistoriche scavate nella roccia, e tra queste l’imponente Sa Rocca a Sedini, che come i Sassi di Matera è stata trasformata in abitazione. Oppure le tombe a capanna, simili a quelle etrusche, ma di qualche migliaio di anni più antiche; ad esempio: Montessu a Villaperuccio, S’Incantu a Monte Siseri e S’Anghelu Ruju (L’Angelo rosso) ad Alghero. Luoghi suggestivi già a partire dai loro nomi, come lo sono le “tombe dei giganti” – tra le quali quella di S’Ena e Thomes a Dorgali – ed i “pozzi sacri”; in particolare quello di Santa Cristina a Paulilatino, costruito con precisione da “cantiere industriale” undici secoli avanti Cristo, ed in cui il sole entra solo agli equinozi (evidenziando le conoscenze astronomiche dei protosardi).  

Misteriosi e suggestivi sono anche i tanti edifici abbandonati 

ed i villaggi fantasma della regione,

ad esempio: Gairo vecchio; il Villaggio Asproni; il villaggio di Monte Narba; Grugua con la villa Modigliani (che appartenne alla famiglia del celebre Amedeo); il borgo di Sant’Angelo a Fluminimaggiore; Tratalias vecchia; le rovine minerarie di Ingurtosu, e la chiesa di San Pantaleo a Martis. Località così numerose che è stato creato un apposito sito internet, dall’evocativo nome di “Sardegna Abbandonata”, per censirle tutte; lo stesso obiettivo che si prefigge il sito “Nurnet” per quelle nuragiche. In Sardegna ci sono anche delle specificità zoologiche: non esistono le vipere, ma in compenso vi dimorano il ragno violino, l’unico velenoso italiano, e cavallini bradi (della Giara) piccoli come pony; così come più piccole sono anche altre specie indigene, ad esempio i cinghiali.

Sotto il profilo naturalistico l’isola conta due parchi nazionali e numerose altre riserve naturali marine e terrestri di inviolata bellezza; tra queste la biosfera di Tepilora, tutelata anch’essa dall’agenzia dell’ONU.


La natura ha creato in Sardegna monumenti di notevole impatto: l’Orso di Palau, scolpito nel granito dall’azione del vento e del mare; S’Archittu nel comune di Cuglieri, un grande arco di pietra (“lunare”) bianca sul mare; Sa Preta Istampata a Galtellí, un’alta parete rocciosa forata nel mezzo; o la piscina naturale di Cane Malu a Bosa. Ed ancora: la grotta di Su Mannau a Fluminimaggiore, tra le 10 più belle d’Italia secondo il TCI; la grotta marina “Sardegna” a Masua (così detta per la sagoma della sua imboccatura che ricorda i contorni dell’isola), con un colore dell’acqua che nulla ha da invidiare a quello delle più famose della nostra penisola; e soprattutto la grotta subacquea di Nereo a Capo Caccia, con i suoi 500 metri complessivi la più grande d’Europa e del Mediterraneo. Uno dei record dell’isola, che tra l’altro è anche la regione meno sismica d’Italia.

Ma le suggestioni non finiscono qui, perché in Sardegna ci sono anche delle foreste pietrificate; scenari incantati che custodiscono tipologie differenti di alberi fossili; 

tra le più notevoli quella di Martis.


Infine l’ipotesi avanzata – non senza ragione – qualche tempo fa, interrogandosi sul motivo per il quale è scomparsa la sua più antica – ed autoctona – civiltà, quella nuragica (una civiltà straordinariamente all’avanguardia per la sua epoca): la Sardegna era forse Atlantide?

 

 

 

 

 

 

 

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IL MAMMUT E LA CITTÀ RICOSTRUITA di Gianluigi D’Alfonso numero 28 maggio-giugno 2023 Editore Maurizio Conte

IL MAMMUT…  E LA CITTÀ RICOSTRUITA

 

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trovato in provincia dell’Aquila nel 1954, è tornato di recente ad essere esposto nel Forte Spagnolo Aquilano, rappresentando uno dei simboli della ricostruzione della città abruzzese dopo il terribile sisma del 2009.

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E sì perché il terremoto che colpì la città de L’Aquila alle 3:32 del mattino del 6 aprile 2009, tra le innumerevoli devastazioni che cambiarono il volto del bellissimo capoluogo abruzzese e provocarono il tragico bilancio di 309 vittime, determinò anche seri danni alla struttura del Forte cinquecentesco Spagnolo che ospitava l’esposizione del mastodonte nonché importanti lesioni a parte dello scheletro e della struttura portante del Mammut. 

 

Da figlio di genitori aquilani ricordo sin da piccolo, in occasione delle affascinanti visite presso la sala del bastione est del Forte Spagnolo a

questo raro esemplare di animale preistorico, di aver subito considerato 

il Mammut uno dei simboli di questa bellissima città.


Probabilmente perché anche lui “immoto manet” protetto all’interno della Fortezza Spagnola ed in questo suo troneggiare impersona plasticamente la robustezza e la fierezza delle genti d’Abruzzo. 

 

Ma facciamo un balzo indietro e ripercorriamo brevemente l’interessante storia del Mammuthus Meridionalis Vestinus,

tra i pochi esemplari rinvenuti in Europa in buone condizioni, per l’integrità 

dello scheletro e l’ottimale stato di conservazione, grazie al clima rigido, 

quasi dolomitico, che caratterizzava i territori abruzzesi.

Esso fu subito considerato uno dei reperti più importanti della preistoria italiana, uno degli esemplari più completi esistenti insieme a quelli esposti a Parigi, a Leningrado e negli Usa.   

 

La Conca dell’Aquila nella preistoria era occupata da un grande lago dove vivevano elefanti e rinoceronti, ippopotami, cervi e cinghiali e

nel marzo del 1954, a seguito di scavi per la ricerca dell’acqua, in località Madonna della Strada a Scoppito, fu rinvenuto lo scheletro quasi integro 

di un Elephas Meridionalis Nesti,


noto come Mammut, diffusosi nella penisola italiana all’inizio del Quaternario. 

 

All’esemplare maschio e anziano dell’Aquila, morto probabilmente di vecchiaia a 55 anni, attorno a 1.500.000 anni fa, fu attribuita la denominazione prima di Archidiskodon meridionalis vestinus, poi di Mammuthus meridionalis vestinus. Il Mammut era un “bestione” pesante all’incirca più di sedici tonnellate e alto più di quattro metri, molto simile ad un elefante, ma più robusto, con le zanne più curve e la bocca più sporgente

Il restauro seguì un percorso a più tappe. Successivamente alla sua scoperta, 

dopo circa sei anni di lavori di riparazione delle singole parti, fu esposto al pubblico 

nel 1960 nel bastione est del Forte Spagnolo, sezione paleontologica 

del Museo Nazionale dell’Aquila.

Alla fine degli anni ’80 si rese necessario un secondo restauro concluso nel giugno del 1991 effettuato in parte presso il Laboratorio di Restauro del Museo di Geologia e Paleontologia dell’Università di Firenze.

 

Si arriva, quindi, all’ultimo restauro post terremoto 2009

avvenuto anche grazie ad una generosa donazione di 600 mila euro della Guardia di Finanza che ha voluto contribuire così alla rinascita dell’Aquila dopo il sisma. L’intervento di restauro è stato realizzato dall’allora Direzione Regionale per i Beni Culturali e Paesaggistici dell’Abruzzo (oggi Segretariato Regionale per l’Abruzzo).

 

Il Mammut aquilano è ritornato nel 2022 a costituire una delle attrazioni 

del Museo Nazionale D’Abruzzo (MuNDA) de L’Aquila ma, soprattutto, 

il suo ultimo restauro con la sua “restituzione” 

al patrimonio culturale della città


ha significato un ulteriore importante passo in avanti verso la completa ricostruzione della città dell’Aquila per tornare a splendere nella sua antica e particolare bellezza.

 

 

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