IL MEDITERRANEO AFFASCINA E CORROMPE di Gaia Bay Rossi – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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IL MEDITERRANEO AFFASCINA E CORROMPE

 

gaia bay rossi

che affascina e che corrompe”. 

Ad affermarlo è stato Sebastiano Tusa, prima della tragedia aerea che lo ha portato via nel 2019, in Etiopia. Palermitano, archeologo, docente di archeologia subacquea all’Università tedesca di Marburg e di Paleontologia alla Scuola Suor Orsola Benincasa di Napoli, Tusa è stato, in primis, lo straordinario Soprintendente del Mare della Regione siciliana.

 

La Soprintendenza del Mare venne istituita nel 2004

 

con il fine di tutelare e valorizzare i beni culturali, ambientali e le risorse archeologiche sottomarine, con compiti di ricerca, censimento, tutela, vigilanza, valorizzazione e fruizione del patrimonio archeologico subacqueo, storico, naturalistico e demo-antropologico dei mari siciliani e delle sue isole minori.   

 

Ma torniamo a Tusa ed al suo Mediterraneo “che corrompe”.

 

Corrompe perché impone a chi abita le sue coste una notevole capacità 

di adattamento alle diverse morfologie esistenti; e perché la facilità 

con cui permette gli scambi e le relazioni provoca contaminazioni, 

“corruzioni” in senso positivo e talvolta anche negativo.

Tra le scoperte più importanti di Sebastiano Tusa, l’esatta localizzazione della battaglia delle Egadi, lo scontro navale con i Cartaginesi che concluse la prima guerra punica a favore dei Romani, il 10 marzo del 241 a.C.. Per una sorta di strano scherzo del destino, proprio il 10 marzo l’incidente mortale ci ha privati per sempre del nostro archeologo del Mediterraneo,

 

un mare “esso stesso un museo, il Mare Nostrum”, come usava dire.

 

Già. Il Mare Nostrum, come lo chiamavano i Romani, è da sempre “culla di civiltà”, sin dalle prime forme di sedentarietà nelle culture pre-neolitiche (come quella natufita in Palestina) e poi con i progressi successivi verso società più evolute.   

 

Oggi come allora il Mediterraneo, “mare tra le terre”, crogiuolo di colori e di costumi, è il punto d’incontro di Europa, Asia e Africa. Sulle sue coste si possono trovare oltre venti fra Paesi e territori, che parlano più di venti lingue e credono nelle tre grandi religioni monoteiste (cristianesimo, ebraismo ed islamismo).

 

Queste civiltà che si sono succedute nel Mediterraneo hanno lasciato vestigia 

che fanno parte del patrimonio culturale mondiale e vanno assolutamente preservate, nella consapevolezza del fondamentale valore della varietà e molteplicità culturale.


Pensiamo alla Libia, dove si trova uno dei più grandi centri romani del Mediterraneo, Leptis Magna, o al suo corrispondente greco, a Cirene. Ma anche alla Turchia, al Marocco, passando per Siria, Giordania, Israele, Libano, Egitto, Tunisia ed Algeria. I Paesi della sponda Sud-orientale del Mediterraneo sono custodi di testimonianze uniche di millenni di storia che, insieme a quelle inestimabili nei Paesi della sponda Nord, formano il maggior giacimento culturale del mondo.

 

Non a caso, i Paesi mediterranei raccolgono oltre la metà 

dei siti dichiarati“patrimonio dell’umanità” dall’Unesco.

 

Un capitale artistico, storico e culturale che, oltre a costituire idealmente un’identità comune, può diventare anche un fattore aggregante e determinante per lo sviluppo, in un prossimo futuro, di tutta l’area.

La protezione del passato, oltre al valore “archivistico” e conservativo, 

diventa quindi la premessa per costruire un futuro migliore. 


È questo uno degli aspetti della cooperazione internazionale che l’UNESCO ha promosso in tutto il mondo, con l’aiuto di organizzazioni intergovernative tra cui spicca l’ICCROM (Centro internazionale di studi per la conservazione ed il restauro dei beni culturali), organismo per la conservazione e la protezione del patrimonio culturale mondiale. L’ICCROM è stato creato dopo la Seconda Guerra Mondiale, a seguito dei bombardamenti che avevano distrutto un’impressionante quantità di beni culturali. I suoi obiettivi principali erano quindi rappresentati dalla conservazione, dalla salvaguardia e dal restauro di quanto la tragedia bellica aveva distrutto.

 

Oggi lo sguardo dell’ICCROM sul futuro è simbolizzato anche 

da un programma che riguarda le fondamentali questioni 

di conservazione preventiva e gestione del rischio.

 

Un tema, questo, particolarmente sentito poiché le guerre purtroppo non accennano a fermarsi e le stesse calamità naturali tendono ad aumentare. Pensiamo al terremoto che ha sconvolto L’Aquila, città d’arte per eccellenza, o al bombardamento di una città patrimonio culturale del mondo come Dubrovnik, o ancora al traffico illegale di reperti e beni artistici dell’isola divisa di Cipro. Esiste una lista di patrimoni dell’umanità in pericolo, compilata dall’UNESCO, per instabilità politica, guerre o calamità naturali, che lo scorso anno vedeva Stati come la Libia, la Siria, l’Egitto e la Palestina (considerando solo quelli dell’area mediterranea) con molti dei loro siti sotto minaccia.   

 

Diventano dunque  

  

sempre più attuali i temi trattati sin dal Forum sulla “Protezione e conservazione 

del patrimonio culturale nel Mediterraneo”, promosso nel 2012 

dall’Ordine di Malta, dall’isola di Cipro, dall’UNESCO 

e dalla Commissione Europea,


che hanno dedicato una riflessione importante proprio all’impatto delle catastrofi naturali e dei conflitti sul patrimonio culturale. Il Mediterraneo, quindi, non solo quale giacimento di ricordi carichi di valore, ma anche luogo da progettare per il futuro, per tutelare un patrimonio culturale che è anche risorsa economica da preservare e valorizzare: un “Mediterraneo culturale” davvero idem sentire

In un’epoca in cui deboli sono le economie dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, solo un fronte unico, con consapevolezza e valori comuni, può rendere

 

il Mediterraneo àncora come nel mondo antico, vero baricentro 

dello sviluppo culturale internazionale.

 

Al tempo stesso, come richiesto dall’Ordine di Malta, occorre comprendere in questo programma comune anche il rispetto per la dignità umana, la democrazia, il ruolo del diritto, la solidarietà, la giustizia e la tolleranza. E la libertà religiosa, una delle chiavi principali per consentire a tutte le altre libertà di esistere.   

 

È in questi valori che si deve cercare una nuova coesione. L’uomo mediterraneo, cui dobbiamo l’ineguagliata scuola universale della Grecia antica o dell’Italia rinascimentale, con il suo individualismo non è riuscito finora a unificare l’impegno verso una prospettiva comune, ma ha anzi portato un fattore di debolezza. Si deve invece ripartire da un Mediterraneo comune, per costruire una base del nostro futuro e non solo rimpiangere il nostro passato.   

 

Un mare, eccezionalmente raccontato da Fernand Braudel nella sua opera fondamentale La Méditerranée, mentre era prigioniero in un campo di detenzione durante la Seconda Guerra Mondiale: “Che cosa è il Mediterraneo? Mille cose insieme.

Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi 

di mari. Non una civiltà, ma molte civiltà, disseminate le une sulle altre… 

un crocevia antichissimo.

 

Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E piante.” E oltre a questo, è il più ricco, di storia, cultura, dinamismo e fascino, di tutti i mari della terra.   

 

È da qui che tutti Paesi del Mediterraneo debbono ripartire per tornare a casa, tra mythos e logos, come novelli Ulisse che cercano la via del ritorno, del nostos. Anche se stanno affrontando continue tragedie, solo Paesi uniti saranno in grado di superare le Scilla e Cariddi del nostro tempo, per ritrovare alla fine il loro mitico, antico mare. Perché, citando nuovamente Braudel: “Essere stati è una condizione per essere”.

 

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MATERA DALLA GROTTA AL BED AND BREAKFAST di Pietro Dell’Aquila – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2021

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con la fine del 2019 e appena in tempo prima dello slittamento nell’annus horribilis della pandemia da Covid-19, l’ex borgo rurale trasformatosi in primo polo del terziario meridionale, più o meno avanzato, a trazione turistica si trova a fare i conti con un incerto avvenire. 

Dal rapporto della Banca d’Italia n.17 del giugno 2019 sull’economia regionale lucana risulta che

 

per l’evento le presenze nazionali e internazionali nella città si sono quintuplicate:

 

attestandosi a oltre 124.000 unità provenienti da Stati Uniti, Regno Unito e Francia e più di 320.000 dalle altre regioni italiane come la Lombardia, il Piemonte e il Lazio. Senza contare quelle arrivate dalle zone limitrofe come la Puglia, la Campania e l’interland regionale che, non avvalendosi di pernottamenti, sono di più difficile apprezzamento. Si calcola che le presenze negli esercizi alberghieri si sono triplicate e nelle strutture extra alberghiere sono aumentate a dismisura. L’incremento dei posti letto è salito del 90%. Per non dire del volume d’affari di ristoranti, trattorie e degli altri locali di ristorazione. Ovviamente il mercato edilizio, l’andamento dei prezzi al consumo e in generale il costo della vita hanno avuto una forte impennata.  

 

Rifuggendo il ruolo di succursali dell’Ente Turismo, non vale la pena soffermarsi sulle qualità attrattive del sito, peraltro ampiamente promosse dalla televisione con feste di Capodanno, sceneggiati e documentari, nonché da riviste patinate e ogni genere di altri mezzi pubblicitari, ma piuttosto

 

pare opportuno avviare una riflessione sugli esiti 

di quest’operazione di marketing territoriale 

 

ripercorrendo, sia pure sinteticamente, le tappe della trasformazione del sito materano.  

 

É appena il caso di ricordare che quest’abitato affonda le proprie radici, al pari di Petra, nel lontano Paleolitico, come risulta dalle emergenze archeologiche ritrovate, raccolte e conservate da uomini illustri come Domenico Ridola, cui è intitolato il Museo cittadino.

Per secoli un popolo di pastori e di agricoltori ha vissuto in grotte traforate, 

scolpite e scavate nel tufo di entrambi i lati dei declivi della Gravina 

e realizzato cunicoli, cisterne, chiese, ambienti ed elaborati 

complessi sotterranei, convivendo in simbiosi 

con gli animali domestici, silenti supporti 

della loro fatica.

 

Così il borgo risulta un aggregato di grotte, con andamento verticale, risalente lungo gironi degradanti sui bordi scoscesi del canion del torrente dove la comunità si ritrovava in “vicinati”; un modello esemplare di organizzazione sociale con rapporti a volte aspri e, forse, più spesso solidali per far fronte alle difficoltà dell’esistenza.   

 

Come scrive l’architetto e urbanista Americo Restucci nel suo libro “Matera, i Sassi”,

 

la Cattedrale dovette essere la prima costruzione in stile romanico pugliese 

eretta sullo sperone più alto del sito che divide il Sasso Caveoso da quello Barisano. Solamente più tardi, agli inizi del ‘500, il Conte Giovan Carlo Tramontano, sulla collina di Lapillo al confine della Civita che si andava formando lungo il bordo 

del promontorio e sulle rovine di una precedente struttura normanna, avviò la costruzione di un Castello con due torri che ancora porta il suo nome.


Il feudatario era stato fatto Conte di Matera da Ferdinando II nel 1496, nonostante la promessa fatta da quest’ultimo al popolo di lasciarlo libero avendone ricevuto la somma del riscatto. Il Tramontano si rese inviso ai materani per le imposte che pretendeva di riscuotere, per i suoi debiti e per i lavori della costruzione, tanto da indurli a una cospirazione che sfociò nel suo omicidio il 29 dicembre 1514 all’uscita dalla Cattedrale e in una viuzza adiacente che da allora prese il significativo nome di Via del Riscatto. Un altro episodio di sangue si consumò a Matera l’8 agosto del 1860, tra i primi della reazione antiunitaria sfociata nel brigantaggio lucano, quando una folla inferocita uccise il patrizio Conte Gattini a colpi di falce, insieme al suo segretario Francesco Laurent, ritenuto usurpatore dei demani.

 

Nel 1700 erano stati i fratelli Duni – il padre Francesco era stato Direttore 

della Cappella Musicale della Madonna della Bruna per oltre 

un quarantennio – ad illustrare coi loro talenti,

 

di giurista Emanuele e di musicista Egidio Romualdo, la cittadina. In particolare, come hanno messo in luce Giovanni Caserta che ne ha ricostruito la biografia e Luigi Pentasuglia che ha ritrovato, pubblicato e musicato sonetti e sinfonie, Egidio Romualdo Duni riportò prima in Francia e poi in Inghilterra i frutti della sua geniale capacità artistica. 

Ed è in questo periodo, tra il XVII e il XVIII secolo, che con il declino economico del modello agro-pastorale si va strutturando l’attuale Centro Storico con le espansioni sul piano a ridosso dei Sassi. Le costruzioni amplieranno il confine dell’abitato tra il XIX e il XX secolo.  

 

Il Fascismo lasciò la propria magniloquente impronta architettonica sui palazzi del Corso e nei casermoni delle case popolari. Nel 1926, con un semplice telegramma, il Duce elevò la cittadina al rango di Provincia ma il regime dovette rimanere sostanzialmente estraneo al mondo contadino mentre coinvolse più da vicino le classi impiegatizie. Fatto sta che il 21 settembre 1943, in seguito ad un alterco tra militari italiani e tedeschi, a Matera, prima città in Italia, si ebbe l’avvio degli scontri per la cacciata dei nazifascisti con un eccidio di 26 persone di cui 18 civili.

Com’è noto il primo scopritore della particolare identità di Matera, 

nella sua dolente bellezza, fu Carlo Levi 


che la visitò durante il suo periodo di confino nel 1936 e che la fece conoscere al mondo nelle pagine del 
Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi nel 1945: 

“Arrivai ad una strada che da un solo lato era fiancheggiata da vecchie case e dall’altro costeggiava un precipizio. In quel precipizio è Matera… Di faccia c’era un monte pelato e brullo, di un brutto color grigiastro, senza segno di coltivazioni né un solo albero: soltanto terra e pietre battute dal sole. In fondo… un torrentaccio, la Gravina, con poca acqua sporca ed impaludata tra i sassi del greto…

 

La forma di quel burrone era strana: come quella di due mezzi imbuti affiancati, separati da un piccolo sperone e riuniti in basso da un apice comune, 

dove si vedeva, di lassù, una chiesa bianca: S.Maria de Idris, 

che pareva ficcata nella terra. 

 

Questi coni rovesciati, questi imbuti si chiamano Sassi, Sasso Caveoso e Sasso Barisano. Hanno la forma con cui a scuola immaginavo l’inferno di Dante… La stradetta strettissima passava sui tetti delle case, se quelle così si possono chiamare. Sono grotte scavate nella parete di argilla indurita del burrone… Le strade sono insieme pavimenti per chi esce dalle abitazioni di sopra e tetti per quelli di sotto… Le porte erano aperte per il caldo, Io guardavo passando: e vedevo l’interno delle grottesche non prendono altra luce ed aria se non dalla porta. Alcune non hanno neppure quella: si entra dall’alto, attraverso botole e scalette.”

 

Fu, forse, per questo che Togliatti volle andarvi nel 1948 e, preso atto delle condizioni di estrema miseria in cui versavano gli abitanti di quelle grotte, ne parlò come di una “vergogna nazionale” cui occorreva porre rimedio 

nel più breve tempo possibile.


Due anni dopo, il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi arrivò a Matera, accompagnato dal giovane sottosegretario Emilio Colombo, il 23 luglio 1950. Altrettanto colpito dal disagio degli abitanti dei Sassi incaricò Colombo di approntare una Legge per risolvere il problema. Sarebbe poi tornato nel 1953, dopo il varo della Legge n.619 del 1952, per inaugurare il Borgo La Martella e consegnare le prime case agli sfrattati de Sassi, assicurando che “Lo Stato assume a suo carico la spesa per il risanamento dei quartieri Sasso Caveoso e Sasso Barisano dell’abitato di Matera e per la costruzione di case popolari particolarmente adatte per contadini, operai ed artigiani, in sostituzione di quelle attualmente esistenti in detti quartieri che saranno dichiarate inabitabili ed abbattute”.  

 

La presenza delle autorità sarà immortalata da Domenico Notarangelo in una sequenza d’immagini di grande impatto emotivo. È in questo momento che la grave questione sociale a Matera si tramuta da problema delle campagne in questione urbana e che,

per la strana e inspiegabile determinazione del caso, incontra da una parte 

il tentativo olivettiano di verificare in un contesto agricolo il modello  urbanistico sperimentato a Ivrea in ambito industriale e dall’altra 

la politica di sviluppo edilizio propugnata da Fanfani col Piano Casa 

(Legge del 29 febbraio 1949) utilizzando i fondi del Piano Marshall.


Di Olivetti a Matera e della costruzione del villaggio La Martella ha già detto Tommaso Russo nel n.14 di questa Rivista, per cui qui vale di più ricordare lo studio promosso dall’UNRRA – Casas che si protrasse dal 1951 al 1955, impegnando un qualificato gruppo di specialisti (Musatti, Friedmann, Isnardi, Nitti, Tentori, Gorio, Quaroni, Mazzarone, Orlando, De Rita, Marselli e Bracco) coadiuvati da valenti studiosi locali che daranno poi vita al Circolo “La Scaletta” e alla battagliera Rivista “Basilicata”. Le risultanze del lavoro, ora raccolte nel volume Matera 55, portarono all’ipotesi di distinguere l’agglomerato dei Sassi in una triplice categoria: una da sfollare per l’impossibilità d’interventi migliorativi, una recuperabile e una di qualità a ridosso della Città Nuova.

 

La proposta, che tendeva a un recupero graduale della zona evitando 

lo svuotamento, presentata a Emilio Colombo, non fu presa in considerazione 

per la volontà politica di procedere allo sfollamento totale, che fu attuato 

con lo spostamento di oltre 17.000 persone, per venire incontro 

ai drammatici bisogni occupazionali di quegli anni. 

 

C’è da aggiungere che nello stesso periodo era stato chiamato a redigere il Piano Regolatore della città Luigi Piccinato, che operò per la sistemazione delle abitazioni e dei servizi del Borgo Venusio e del Quartiere Serra Venerdì tra il 1951 e il 1954. Lo svuotamento dei Sassi che ne seguì ebbe però come risvolto l’abbandono al degrado di tutto l’agglomerato, attivando il dibattito culturale e l’azione amministrativa del successivo ventennio.  

 

A riaccendere l’interesse per la questione, nel 1970, la Giunta DC-PSI affidò incarico al Gruppo “Il Politecnico” diretto dal sociologo Aldo Musacchio di redigere un “Rapporto socio economico” connesso alla variante generale del piano regolatore che fu adottato nel corso del mandato amministrativo anche in relazione alla Legge 1043 del 15.12.1971 che, di fatto, superava i limiti della precedente L.126 del 1967. Per Musacchio, reduce dall’elaborazione del Piano Regolatore di Tricarico, in netta contrapposizione con le valutazioni estetizzanti della borghesia materana post-sessantottina che tentava di rivalutare l’agglomerato come reperto di una più recente archeologia urbana esaltandone “il fascino del degrado”,

 

i Sassi erano “la testimonianza del dolore del mondo” e il più grande 

monumento che la cultura contadina aveva saputo realizzare 

per raccontare la propria condizione.


Da ciò la necessità di un loro recupero in funzione produttiva riattandoli e riutilizzandoli come laboratori artigianali, locali commerciali e sedi di funzioni pubbliche. Nonostante la dichiarata e sostanziale impostazione di sinistra, il Rapporto incontrò forti ostilità fino all’accusa di “colonizzazione” dell’impianto e della proposta. Va da se che l’immeritata accoglienza del documento, unitamente alla contrapposizione col governo regionale, che gli aveva affidato il compito di redigere il Piano di Sviluppo nascondendogli le trattative in corso per l’insediamento della Liquichimica nel metapontino, amareggiò profondamente Musacchio che abbandonò la Basilicata per non farvi più ritorno.     

 

Nonostante il Concorso Internazionale del 1976, cinque piani di recupero approvati dal Comune agli inizi degli anni ottanta, cinque leggi speciali, tra cui la 771 del 1986 per la conservazione e il recupero dei Sassi di Matera,

 

la “questione Sassi” era destinata a durare nel tempo accentuando 

il degrado delle parti più antiche e più a rischio. 

 

Intanto la Città nuova viveva di edilizia e di complessi apparati burocratici che ne legittimavano la nomea di “città assistita”.

 

Soltanto negli anni novanta, per merito dell’architetto Pietro Laureano, 

la città ottenne l’iscrizione nella lista del “patrimonio dell’Umanità” 

da parte dell’UNESCO e, a seguire, la candidatura e il riconoscimento 

di Capitale della Cultura per l’anno 2019.


E ora quale futuro per questo capoluogo in un mondo senza più contadini, senza industrie dopo il crac della costruzione dei salotti e dei mobili, con strutture turistiche in disarmo o comunque in forte contrazione, esaurito l’exploit dell’afflusso del 2019, e senza più giovani che ormai emigrano per cercare altrove una risposta ai loro problemi?  

 

A volte passeggiando davanti alla sede di Palazzo Lanfranchi mi pare di rivedere la figura dello scomparso pittore Luigi Guerricchio, che più di ogni altro ha saputo comprendere e rappresentare lo spirito della sua città e della sua gente, mentre appoggiato al portone, antistante il suo laboratorio, con il suo sguardo sornione di persona scanzonata e buona, sembra riflettere sui destini di questo luogo di ragionieri che, come usava dire con grazia ironica, compravano i suoi quadri, veri capolavori dell’arte italiana, per nascondere il buco dei contatori nelle loro case. 

 

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 Foto di Giuseppe Soldo 

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matera, dalla grotta al bed and breakfast

 

 

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