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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE di Agostino Picicco – Numero 19 – Dicembre 2020 gennaio 2020

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IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE

 

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Al di là dei favoleggiati tesori nascosti dai briganti in antiche torri, le cui storie avventurose e romantiche si raccontano ancora oggi, magari con meno fascino di un tempo,

il fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario è progressivamente 

disvelato nei suoi aspetti più prosaici.


Contribuisce a quest’opera di verità la recente pubblicazione dello studioso Valentino Romano, autore di vari volumi sul tema, con particolare attenzione alle radici sociali del fenomeno. Nel volume “Un popolo alla sbarra” (Secop Edizioni), Romano porta alla luce

gli atti processuali relativi alla lotta al brigantaggio attuata 

dal Generale marchese Emilio Pallavicini, 


inviato a debellare definitivamente il fenomeno, con poteri speciali rispetto alla giustizia e ai compiti di polizia ordinari.  

Il Generale è già noto alla storia perché il 29 agosto 1862 aveva guidato la colonna che all’Aspromonte aveva fermato la spedizione che Garibaldi conduceva dalla Sicilia per la conquista di Roma e aveva ordinato l’attacco durante il quale lo stesso Garibaldi fu ferito. Superata la resistenza opposta dai volontari garibaldini,

Pallavicini ottenne la resa di Garibaldi.


Tra il 1863 ed il 1864, riuscì a sgominare le bande dei briganti, facendo pagare un grande prezzo in vite umane. Pallavicini e la sua “Colonna Mobile”, comprendente vari reparti dell’Esercito,

fu infatti inviato dallo Stato a sedare le rivolte,


settore in cui era militarmente esperto, e lo fece in modo spregiudicato pur di raggiungere gli obiettivi che si era posto, senza tenere conto del valore della vita umana e delle istanze sociali del popolo. E così riuscì a sconfiggere e distruggere nella zona murgiana della Puglia le bande di Ninco Nanco, Carmine Crocco, Ciucciariello (Riccardo Colasuonno). Ecco allora che –

esaminando le carte dell’epoca – emergono i tanti casi di briganti fucilati 

durante i trasferimenti, mentre tentano la fuga 

(così dicono i rapporti della scorta), 

e non si tratta di casi isolati.


É fondato il sospetto che si tratti di un modo per liberarsi di loro evitando pastoie burocratiche e procedure garantiste.  

Il libro di Romano rivela, grazie all’esame dei documenti processuali e di polizia, tutta una casistica, anche umana, con storie di paese, drammatiche e talvolta ironiche, di un mondo di povertà in cui si incontrano soldati, grassatori, manutengoli, pubblici amministratori che facevano a “scaricabarile” delle loro incombenze. 

Il brigantaggio, che è sempre tema attuale di studio, diventa la feritoia per esaminare la storia post unitaria, al di là degli stereotipi e delle posizioni ideologiche.  

L’esame approfondito delle sentenze, proposto dall’autore, denuncia il pressapochismo spesso doloso della giustizia militare, in qualche caso rimediato dalla magistratura ordinaria.

Essere parenti di un brigante era in sé una colpa, lo stesso incrociare per caso

i briganti per strada, portare una pagnotta in più in tasca (fosse anche per i figli) 

voleva dire voler rifornire di viveri i briganti.


Tante ingiustizie furono evitate, a prezzo di discredito e di numerosi mesi in carcere, che non prevedevano risarcimenti di alcun genere. 

Il contesto è quello di una società poverissima, dove non lavorare un giorno voleva dire la fame per la famiglia, e dove il furto in fattoria, da parte dei briganti, di un mulo o di un maiale, il primo come strumento di lavoro e il secondo come mezzo di sostentamento, era un danno gravissimo. Quanto descritto nel libro di Romano ci restituisce

una realtà complessa ancora da studiare e interpretare bene, 


perché non si è ancora trovata la verità. E il contributo dell’autore va proprio in questa direzione

 

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