MYRRHA INCONTRA SVIMEZ di Giorgio Salvatori – Numero 15 – Dicembre 2019

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MYRRHA INCONTRA SVIMEZ

 

Giorgio-Salvatori

Cari amici di Myrrha, si cambia. In questo numero i “doni del Sud’’ vengono letti non più, soltanto, estrapolandoli dal loro contesto e messi a fuoco nella loro eccellenza o unicità, ma anche nella cornice, contraddittoria, della storica complessità del Meridione.  

In altre parole ci addentriamo consapevolmente in un’analisi più articolata della realtà del nostro Sud per descriverne anche chiusure corporative e rigidità consolidate. Stiamo parlando di quei comparti immobili, da sempre refrattari ad ogni forma di cambiamento nonché di quelle azioni di contrasto messe in atto da forze storicamente ostili all’evoluzione sociale, economica e culturale delle popolazioni meridionali.

 

In questa nuova prospettiva, Myrrha si apre ad un orizzonte più ampio, 

grazie all’esperienza provvida e illuminante dell’istituzione 

che più e meglio conosce forze e debolezze storiche 

del Meridione: la Svimez,


l’associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, che studia e analizza i dati che caratterizzano il complesso processo delle dinamiche sociali ed economiche del Sud.

 

È, questa, l’occasione per 

riflettere, con severità, su quali e quanti blocchi strutturali rallentino il lungo processo di integrazione e di fusione reale tra Settentrione e Meridione della Penisola,

 

su quanto e come la mafia, le mafie, riescano a distrarre, a proprio vantaggio, risorse vitali e produttive del Sud e del Nord del Paese e, infine, su quanto l’assenza di un’azione forte e costante, da parte delle istituzioni, contribuisca a comprimere il coraggio e le occasionali esplosioni di protesta, di reazione civile, della stragrande maggioranza delle genti meridionali contro i soprusi delle mafie. 

 

Tra questi due poli, non bisogna dimenticarlo, non c’è soltanto la complicità, l’ignavia o il colpevole cinismo di alcuni politici. C’è anche quell’azione mai compiutamente indagata, ma sottilmente nefasta, dispiegata dai rappresentanti di strati consistenti delle amministrazioni centrali e periferiche che, per non perdere i benefici della propria condizione di intermediari di risorse, fondamentali per il progresso di un territorio, restano arroccati nei propri fortilizi burocratici, elargendo servizi come satrapi che abusano quotidianamente dei propri poteri verso cittadini trattati come sudditi.

In queste pagine leggerete interventi di giornalisti, analisti e studiosi del problema meridionale. Cercheranno di far luce sulle cause delle contraddizioni

 

e degli ostacoli che impediscono al Sud di decollare nonostante le grandi potenzialità, le eccellenze, i “doni’’ particolari, la voglia di “volare” (preferibilmente restando nei cieli meridionali) dei maltrattati giovani del Sud.  

 

In questa specifica circostanza, il mosaico meridionale verrà esposto e interpretato alla luce degli ultimi elementi emersi dagli studi degli esperti della Svimez.

Si parte dall’approfondita analisi dello stato generale della situazione meridionale

 

di Giuseppe Soriero, autorevole membro della Presidenza dell’Istituto. Soriero evidenzia i punti fondamentali del divario Nord-Sud in base ai dati aggiornati del rapporto Svimez 2019 e ne mette in risalto due aspetti fondamentali: non si esce dalla crisi meridionale accentuando lo scontro, dialettico e politico, tra gli assertori della “rapina del Nord a danno del Sud” e quelli del “fardello del Sud sulle spalle del Nord’’ e neppure sottovalutando l’arretramento del più opulento Settentrione rispetto ai sorprendenti traguardi del PIL conseguiti da alcuni Paesi europei.

A questa analisi circostanziata si aggiungono anche le vivaci interpretazioni e le “variazioni sul tema” di due firme note di Myrrha:

 

Carmen Lasorella e Roberta Lucchini. Lavorando sui dati Svimez, la prima ci guiderà a conoscere meglio le valenze soffocate del Sud, in primis la compressa risorsa femminile, e lancerà una sfida a chi, nelle istituzioni, sia finalmente in grado di raccoglierla vincendo una colpevole indolenza. La seconda si tufferà nei numeri e nelle analisi evidenziando criticità, punti di forza, possibili vie di uscita dalla paralisi forzata in cui le forze ostili al cambiamento hanno finora ostacolato il pieno sviluppo delle intelligenze e della creatività dei migliori figli del nostro Meridione. Uno stallo che, di fatto, punisce non solo il Sud, ma l’intero Paese e che dovrebbe rafforzare, all’opposto delle logore polemiche nordiste o delle nostalgie neoborboniche, la volontà di chi si batte per consolidare finalmente l’unità nazionale offrendo ad ogni cittadino dello Stivale pari opportunità e occasioni di sviluppo.

Certamente non ci rallegra il raffronto, spietato, tra la supposta qualità della vita, 

nelle varie città italiane, recentemente stilata dal Sole 24 Ore.

 

Una sfilza di primi posti assegnati, da Milano a Como, per ben 40 posizioni, a città del Nord, e una valanga di ultimi posti, salvo pochissime eccezioni, a decine di città meridionali. In questa classifica Napoli risulta ottantunesima, Crotone e Caltanissetta chiudono l’elenco addirittura alla centoseiesima e alla centosettesima posizione. Opinabile o obiettiva che sia, questa classifica suona comunque come una clamorosa batosta mediatica di cui non si può sminuire l’impatto sociale e psicologico che essa dispiega sulle legittime aspettative di riscatto della società civile meridionale.  

 

Non ignorare, non offendersi, non sottovalutare.

Il Sud può e deve reagire, ma le istituzioni non possono restare a guardare né attendere oltre.

 

Non bastano riconoscimenti di merito individuali né, tantomeno, celebrazioni ufficiali e targhe alla memoria. La rinascita della Nazione ha bisogno del concorso operoso e coraggioso di tutti, cittadini e istituzioni, dal Nord al Sud del Paese

Nessuno si illuda. Non abbiamo un’alternativa.
La disfatta del Sud sarebbe la sconfitta di tutti. 

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L’UNICA VIA POSSIBILE? di Roberta Lucchini – Numero 15 – Dicembre 2019

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L’UNICA  VIA POSSIBILE?*

 

La storia di Anna – non di fantasia – è una delle tante, note vicende che affollano sempre più insistentemente le rubriche dei media dedicate al mondo dell’occupazione, in special modo giovanile.  

Nata ad Adelfia, in provincia di Bari, studi classici, poi laurea con il massimo dei voti in discipline economiche, ottima conoscenza della lingua inglese, tanta voglia di affermarsi e far fruttare i sacrifici suoi e dei suoi genitori, Anna, finisce, a 25 anni per rientrare nel novero di quelle 19,6 mila unità che nel 2017 hanno lasciato la Puglia con destinazione Centro-Nord della Penisola. Cifra che è quota parte del bilancio di 110 mila persone le quali, sempre nel 2017, si sono spostate dal Mezzogiorno verso la più prospera e allettante Italia centro-settentrionale. Come ci ricorda puntualmente il rapporto Svimez 2019,

 

nello stesso 2017 si sono cancellate dai Registri anagrafici meridionali

circa 132.000 persone

 

e, a fronte di tutto ciò, il saldo migratorio è rimasto fortemente negativo, sia considerando l’anno in questione (-68.602 unità) che un periodo più lungo, vale a dire un quindicennio (2002-2017, -852.113); ciò soprattutto senza che si sia potuto compensare il forte drenaggio di soggetti giovani e/o con titolo di studio superiore (i laureati, per intenderci) con una immigrazione di qualità equivalente. E’ un trend tristemente noto, sebbene a leggere questi numeri non si smetta di stupirsi, rabbrividendo: 

dall’inizio del nuovo secolo – ci ricorda la Svimez – ben 2 milioni 15 mila residenti hanno lasciato il Mezzogiorno, la metà di questi con età compresa

fra i 15 e i 34 anni, un quinto con titolo di studio superiore.


Una perdita inestimabile di capitale umano, di forza lavoro, di spinta propulsiva che va ad arricchire tessuti socio-economici distanti, senza un effettivo ritorno di natura finanziaria verso i luoghi d’origine. Questo progressivo dissanguamento confluisce ad alimentare la tendenza, anch’essa ormai riconosciuta, tuttavia non per questo meno allarmante, rappresentata dal progressivo spopolamento, sì, delle Regioni meridionali, ma pure dell’intero Paese, secondo una dinamica chiaramente evidenziata negli studi di organismi dal respiro globale: il Dipartimento degli Affari Sociali delle Nazioni Unite, ad esempio, nel suo World Population Prospects 2019, stima che la popolazione a livello mondiale raggiungerà, nel 2100, oltre 10 miliardi di individui. Il trend di crescita è sostenuto in tutti i Continenti, l’Africa da sola triplicherà i propri abitanti. Tutti avanzeranno. Tuttavia, nella nostra cara, vecchia Europa, pur con qualche significativa eccezione (Francia e Regno Unito, ad esempio), si assisterà ad un importante calo demografico, segnatamente nei Paesi mediterranei e, fra questi, segnatamente in Italia (un inquietante -30%) e, al suo interno, segnatamente nel Meridione… 
 

Anche dal punto di vista demografico, dunque, si verifica quello che la Svimez stessa ha definito come “doppio divario”: la distanza fra Meridione in difficoltà 

nei confronti del Centro-Nord leva produttiva è diventata 

quella del Paese-Italia nei confronti del resto d’Europa, 

se non del mondo.


Tuttavia questo andamento non è certo consolatorio. Stretto nella morsa asfissiante del combinato disposto di emigrazione, invecchiamento della popolazione (anche lavorativa) e calo della natalità, il Mezzogiorno rischia di implodere.  

 

D’altronde, immaginare di poter imbrigliare al Sud braccia e cervelli alle condizioni date è esercizio di pura fantasia. Anna e i suoi colleghi coetanei ne sono la prova tangibile. Con una spesa della Pubblica Amministrazione in costante decrescita dal 2000 in avanti (con maggiore penalizzazione al Sud: la spesa pubblica attualmente è pari a 14.000 Euro pro-capite per i cittadini centrosettentrionali, di 11.000 Euro per i meridionali);  

con un PIL in calo dello 0,2% al Sud rispetto ad un +0,3% del Centro-Nord nel 2019, che ha portato alla contrazione dei consumi dello 0,5% (come si può, d’altro canto, immaginare di produrre ricchezza se la forza lavoro viene a diminuire e, seppure vi siano indicazioni di una lieve ripresa dell’occupazione, la qualità degli impieghi offerti è scarsa, sia dal punto di vista retributivo che della stabilità?);  

con una persistente divergenza del livello dei servizi al cittadino, che senza ombra di dubbio può indurre a parlare di “diritti erosi-impoveriti-defraudati“ per chi vive al Sud rispetto agli altri;  

con tutto ciò premesso e con tutti gli ulteriori, omessi indicatori socio-economici che non fanno bene all’umore, è impossibile immaginare per il Mezzogiorno d’Italia un futuro diverso dalla desertificazione umana.

E’ necessario “rovesciare il paradigma”, secondo una formula
che a noi di Myrrha piace molto e nella quale ci riconosciamo:

 

non più concentrarsi sull’idea di trattenere, quasi che un territorio, piuttosto che luogo delle opportunità, rappresenti una sorta di prigione dalla quale l’evadere sia l’unico, prevedibile corollario; quanto invece favorirne l’attrattività, stimolare il desiderio non solo di restare per chi vi è nato, ma addirittura di trasferirvisi e scommettere su prospettive di benessere e appagamento futuri per coloro che sono alla ricerca di una soluzione.

Una via d’uscita esiste.

 

Tutte le nefaste previsioni di cui sopra e le tante altre qui non riportate hanno tutte un’appendice: accadrà quanto predetto “a politiche invariate”. Bisogna pertanto invertire la rotta, incidere sulle scelte, essendo chiaro che i meccanismi fin qui individuati si sono rivelati inidonei e non è il caso di nascondere responsabilità che risiedono nel Meridione stesso e nelle amministrazioni locali.  

 

Cosa fare, dunque?

Come suggeriscono esperti di ogni settore disciplinare, non esiste la panacea,


soprattutto considerando quanto sopra detto circa quella sorta di sgocciolamento alla rovescia che sta propagando le difficoltà del Meridione nel resto del Paese e che richiede dunque una risposta unitaria all’insegna della coesione, piuttosto che della spinta autonomistica. Fra i tanti possibili spunti di riflessione, quindi, se ne privilegiano qui un paio. Posto che senza lavoro non c’è speranza e neppure una Repubblica, azzardando una lettura a contrario del dettato costituzionale, si guardi anzitutto al buono che c’è e non lo si lasci al proprio destino, dando piuttosto piena attuazione all’art. 3, secondo comma, della nostra Costituzione. Si guardi a tutte le iniziative imprenditoriali che molti giovani e non solo stanno mettendo in atto per far fruttare idee e territorio (significativo, in questo ambito, il sostegno di Invitalia e del programma Resto al Sud, seguito da altre proposte analoghe da parte di Istituti bancari); oppure si considerino le imprese storiche, nei più disparati settori produttivi, dal tessile all’alimentare, che sono e vogliono restare eccellenze meridionali.

Si mettano anzitutto costoro nelle condizioni di promuovere la circolazione, il movimento, il flusso – secondo uno dei principi-cardine che regola la vita dell’Universo, ben prima della nostra Unione europea

 

– e, conseguentemente, di prendere vantaggio dallo scambio, che sia di merci o di persone o di idee o contenuti, operando finalmente con decisione sul sistema infrastrutturale, non solo stradale, ferroviario, aereo o portuale, quand’anche digitale, che, ancora una volta, penalizza il Sud. In questo senso, senza ripercorrere le annose questioni legate alla classificazione della rete viaria italiana, non si può ignorare l’iniziativa Rientro Strade, con la quale, a seguito del D.P.C.M. 20 febbraio 2018, l’ANAS sta riprendendo sotto la propria gestione 3500 km di strade ex statali e provinciali. Orbene: perché non approfittare di questa occasione per dare un segnale forte al Meridione ed alla sua esigenza di ben collegarsi e collegare, limitandosi invece ad interessare di questo provvedimento solo un 40% del chilometraggio complessivo (circa 1220 km), ripartito nelle 6 Regioni peninsulari meridionali, lasciando invece la parte del leone a 5 Regioni del Centro-Nord? Come se non bastasse, l’Anas “restituisce” alla gestione degli enti territoriali meridionali almeno 350 km di strade (non pervenuta la quota di Abruzzo e Molise, che va quindi sommata a tale cifra – cfr. www.stradeanas.it), mentre ciò non accade per le restanti Regioni (tranne che per l’Umbria, 45 km).

Non si dimentichi che il Sud rappresenta il 40% del territorio italiano 

e non si trascuri l’assoluta necessità di uno sforzo manutentorio significativo 

del sistema stradale secondario, in particolare nel Mezzogiorno.

 

Non va dimenticato, infatti, che un’altra ragione della progressiva perdita di popolazione, con altissima incidenza nelle aree interne – anche in questo ambito i problemi del Meridione sono comuni al resto d’Italia, sebbene lì maggiormente amplificati – risiede nel costante deperimento delle vie di comunicazione extraurbane, una delle più gravi conseguenze della riforma tronca avviata con la legge Delrio, che ha privato le Province delle sostanze per intervenire sui molti chilometri di strade di pertinenza. Il ritrovarsi nella difficoltà di circolare agevolmente per raggiungere i luoghi del produrre ha causato negli anni, e sempre di più provoca, un allontanamento dai centri minori, ove lo spopolamento equivale anche ad abbandono del patrimonio edilizio ed ambientale. Ciò assume valenza ancor più significativa nel caso dei piccoli abitati montani e dei magnifici borghi che punteggiano le pendici delle nostre colline e rilievi. A tal proposito, vale la pena di sottolineare come, in maniera crescente,

questi piccoli agglomerati, nei quali al Sud si concentra l’1,6% 

della popolazione, si stiano organizzando in una sorta 

di “resistenza per la sopravvivenza”

 

facendosi artefici di iniziative occupazionali (come le cooperative di paese) e culturali di tutto rispetto, le quali, con l’intento di valorizzare storia, tradizioni, produzioni agricole, costumi locali, personaggi più o meno noti, sono innesco di un fervore turistico e di attenzioni che, di per se stessi, rinfocolano le esigue economie locali.  

 

Secondo spunto di riflessione:

serve agire sul capitale umano, con un investimento di lungo periodo, 

il cui ritorno si godrà dopo un consistente arco temporale.

 

Serve, cioè, intervenire sul sistema di istruzione e formazione, perché sottovalutare o addirittura ignorare i dati sulla dispersione scolastica al Sud, sulla penuria di servizi offerti in questo settore, sui deludenti risultati delle prove Invalsi significa non avere un progetto di sviluppo che intervenga sulle persone. Non già quando esse abbiano raggiunto l’età da lavoro, bensì in una fase decisamente pregressa, in maniera da ridurre, fra l’altro, l’appeal della malavita su soggetti deboli anche culturalmente e fornendo invece strumenti cognitivi, spirito critico e competenze che stimolino un afflato costruttivo e non autolesionistico, consapevolezza di un patrimonio inestimabile e non atteggiamenti passivi se non addirittura ostili al progresso.  

 

Per concludere. Il problema demografico del Mezzogiorno, conseguenza delle tante storture endogene non sanate nel tempo, è esacerbato dalla crisi economica che ha interrotto una possibile convergenza con la zona geografica più avanzata del Paese, oltreché dalla concomitanza di altri elementi esogeni (si pensi, ad esempio, al grande impatto che nell’Unione europea è stato provocato dall’ingresso di Stati con vaste aree rurali e di povertà, bisognevoli di molto sostegno) che la classe politica, centrale e locale, non è stata così lungimirante da saper governare. Tuttavia, un consolidamento delle politiche occupazionali che tendano all’investimento e non al mero assistenzialismo, seppur imprescindibili, non sono sufficienti per colmare il gap, tornando almeno ai livelli economici pre-crisi. 

Ciò che serve davvero è ricordare che dietro le statistiche, 

i numeri, i bilanci, le previsioni ci sono esseri umani,

 

ci sono le tante Anna e i suoi colleghi che, stretti nel loro giovane bagaglio, guardano ad un futuro altrove con il cuore gonfio di tristezza e negli occhi la sconfitta: la partenza deve diventare una libera scelta e non l’unica via possibile. 

 

 

 

*Articolo aggiornato al 20 novembre 2019 

 

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD di Carmen Lasorella – Numero 15 – Dicembre 2019

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UNA RIVOLUZIONE PER IL SUD

 

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Ogni anno, puntuali, arrivano i rapporti. In testa, quello Svimez sull’economia e la società del Mezzogiorno. Sarebbe stato meraviglioso, ma non ci sono state sorprese: il Sud continua inesorabilmente a scivolare verso il fondo di tutte le classifiche. 

E’ quella scena dei cartoons con il pupazzo baffuto, che usa le unghie e i denti, eppure va giù e poi ancora giù, perché la parete è di vetro ed è bagnata di sapone. Magari però si trattasse di vetro e di sapone! Ci sarebbero trasparenza e pulizia…invece sono l’opacità e la sporcizia, che pesano sul futuro del Sud, con la zavorra pesante di un sistema incapace di riconoscerlo – il futuro – già che non si vuole cambiare.

 

Eppure, qualcosa di nuovo nell’edizione 2019 c’è stata. 

 

Anzi, gli aspetti nuovi sono stati due: uno buono ed uno cattivo. Cominciamo dal secondo.  

 

L’Italia non ha più il tumore endemico del Mezzogiorno, o meglio, non ha più solo quello, perché la metastasi si è estesa all’intera nazione. Sul divario Nord/Sud si è innestato il divario Paese/Europa. C’è da stupirsi? Viviamo una crisi, che, almeno sotto il cielo italiano, dura da più di dieci anni.

Una crisi di valori, di principi; una crisi della politica, incapace di rigenerarsi; 

una crisi economica, che ci ha portato alla stagnazione e poi alla povertà; 

una crisi del sistema sociale, che non sa più includere, 

che non affianca, non sostiene. 

 

Una crisi sgarbata e sgrammaticata. C’è da meravigliarsi, sì, perché viene da chiedersi: come mai non è accaduto prima? Come può il corpo di un paese continuare a vivere con una parte malata? Bisogna curare l’intero corpo, in ogni sua parte, per stare bene. E’ logico! Invece, si è generato il paradosso, che perfino dinanzi all’ovvietà e al ragionamento, nell’evidenza dei numeri, dopo i silenzi dei politici per trent’anni e la rassegnazione dei meridionali per molti anni di più,

i sofisticatori seriali hanno perfezionato la materia condita 

con l’odio e la propaganda. 

 

“Il Nord deve stare per suo conto, viva l’autonomia dei ricchi!” “I poveri del Sud non saranno certo tutti ladri e mafiosi, ma sprecano risorse, non ci sanno fare… Brutti e sporchi, come sono, che subiscano il proprio destino, che si accompagnino agli immigrati, esseri inferiori come loro…”  

 

Hanno sparso veleno ai quattro venti, questi untori dei fatti, e

sono riusciti ad intossicare perfino l’anima di tanta brava gente, 

al Nord come al Sud, che ora pensa di vivere bene 

con un pezzo del corpo del Paese,

 

che con un pezzo naturalmente non potrà farcela e dunque rimarrà impotente ai piedi del patibolo dell’Italia tutta, che scivola giù, nonostante le unghie e i denti, come il pupazzo baffuto.  

 

La previsione degli analisti Svimez, sui livelli attuali di occupazione, produttività e saldo migratorio dicono che l’Italia perderà quasi un quarto del suo prodotto interno lordo e il Sud quasi un terzo in meno di 50 anni. Una previsione catastrofica, se non fosse che l’arco temporale di 50 anni di questi tempi è troppo lungo nel conto delle accelerazioni che segnano la nostra epoca. Ma al di là delle verosimiglianze, non possiamo negare le certezze.

Urge ragionare di soluzioni e soprattutto va evitato il rischio di un’Italia 

nelle mani degli untori, allontanando anche quelle dei criminali.


Veniamo alla buona notizia?  

 

Un fattore: facile, duttile, forte, inesauribile, decisivo, a buon prezzo, che potrebbe cambiare le previsioni disastrose appena accennate. 

 

Il fattore D probabilmente non avrà vita facile e incontrerà scetticismi e paranoie, come sempre è avvenuto in passato, ma la Svimez sul punto è tassativa:

a determinare il futuro del Mezzogiorno sarà l’occupazione femminile. 


Usando un felice acronimo, che mi ha suggerito proprio un recente contatto ravvicinato con il Sud, sarà finalmente   

 

“METODO” ovvero MEZZOGIORNO TOCCA alle DONNE.  

 

Non si tratta di rivincite o di battaglie, rievocando stagioni passate, la questione anche in questo caso risponderebbe solo alla logica e all’evidenza. E’ vero o no che il PIL diminuisce quando diminuisce la popolazione e dunque il lavoro che questa produce? E’ vero o no che scende anche quando questo lavoro non è qualificato ed aggiornato sui parametri correnti? Parlando di donne, cosa significa?

Nel Mezzogiorno, le donne dovranno poter sommare 

il proprio lavoro a quello degli uomini. 


Le donne occupate invece sono oggi in media appena il 30%, mentre in Europa quella media supera il 60; sono in troppe a fare il part-time, imposto e non volontario, che ritorna sul 30% del totale con una perdita evidente di potere contrattuale; bassissimo è il tasso di natalità e così l’abbandono del lavoro nel caso di un figlio; il grado d’istruzione rispetto al centro-nord d’Italia ed agli altri paesi UE è in sensibile ritardo. Allora? Se la percentuale di lavoro femminile cominciasse a salire verso il 60%, se ci fossero servizi per le donne (ausili, asili, ecc.) che favorissero la scelta di un figlio, senza abbandonare il lavoro, con un part-time scelto e non subito, se ci fosse la possibilità di studiare di più e meglio, come oramai non solo le più giovani, in maggioranza, vorrebbero poter fare, diventerebbe straordinaria la spinta al rilancio del Sud!  

 

METODO e aggiungerei tenacia, determinazione, organizzazione. Tutte prerogative femminili. E’ giunto dunque il tempo delle donne al Sud ed alle donne toccherà essere sulla scena, finalmente, da protagoniste.

Qualora gli uomini al potere nel Mezzogiorno e nel resto del Paese 

dovessero ostacolare questo percorso, con fermezza, 

vorrà dire che si cambierà il paradigma. 


Il sì deve essere forte e chiaro. Usando le piazze reali e virtuali, con il supporto convergente – almeno una volta – dei mezzi di informazione. Bisognerà dire basta! E bisognerà dirlo da subito. Le donne oramai devono andare avanti, senza ulteriori indugi, senza le donne la rivoluzione non si può fare e nel Mezzogiorno è diventata inevitabile. Serve uno choc! Non bastano più i passi, forse non basteranno neanche i salti. Ma servono fonti di energia nuova e pulita. Non solo in senso metaforico: è diventato indispensabile in termini letterali!

Al fattore D, considerata leva economica, si aggiungeranno allora altri due fattori: 

il Green Deal e l’Innovazione.  


Ovvero bisognerà puntare con decisione sull’opzione Bio: bioeconomia e biotecnologia. 

 

Il rapporto Svimez ci informa che il valore della bioeconomia meridionale si aggira tra i 50 e i 60 miliardi di euro, più o meno un quinto di quella nazionale. Che i modelli aziendali Nord/Sud nel tempo si sono avvicinati, che è aumentata la dimensione e la superficie media delle imprese agricole, che

si sta costruendo – benché a fatica – un modello di bioeconomia circolare, 

capace di coniugare economia, ecologia e società. 

 

In questo modello si è inserita anche la chimica verde e nell’ambito del cluster nazionale è nata SPRING. La  Primavera  ci  sta,  di  sicuro,  ma  SPRING  è  un  acronimo:  Sustainable Process and Resources for Innovation  and National Growth. SPRING  ha  oramai  5  anni  di  vita  ed  è  diventata  un’associazione no profit, che mette insieme imprese, università e fondazioni. 

 

L’obiettivo prioritario è quello di abbattere all’incirca del 50 per cento le emissioni di CO2 entro i prossimi anni e pare che ogni euro investito nel progetto ne stia restituendo 10, oltre ad avere offerto occasioni di lavoro ad almeno 2 milioni di addetti in tutta Italia.

La prossima tappa sarà quella di aumentare in modo sensibile la produzione, così come gli investimenti, e di migliorare il circuito della sostenibilità.


In Italia, e soprattutto nel Sud, infatti, i nuovi progetti incontrano difficoltà a radicarsi nel contesto meridionale, perché non sviluppano la coesione necessaria tra i vari protagonisti sulla scena, che non si cementano guardando agli obbiettivi, ma si frantumano nei litigi. La politica c’entra… e non solo quella.

Ancora più dinamico si presenta il settore bio-tecnologico. 


Nel Mezzogiorno, in meno di 10 anni, le imprese biotech sono cresciute di una volta e mezzo l’incremento rilevato al Centro Italia e il doppio rispetto al Nord. Viaggiavano su una percentuale addirittura del +70% nel 2016, rallentata però negli ultimi anni, nel solco della flessione economica nazionale. Sono biotech verdi, bianche e rosse, come la nostra bandiera. Ovvero studiate e applicate nei settori commerciali e industriali, in quelli della zootecnia e dell’agricoltura, nel campo medico.

 

Le imprese di questo comparto si avviano a rappresentare il 30 % del fatturato biotech generato nel Mezzogiorno, 

 

che ha trovato la sua punta di diamante in Campania, dove si coltivano progetti di ricerca all’Università Federico II di Napoli, nelle Academy finanziate dalle imprese ed anche nella Scuola Superiore Meridionale, sostenuta dallo Stato. E’ un bell’andare. Fa piacere parlarne… tuttavia ci riferiamo ad ambiti di eccellenza limitati. Sono attività che non fanno sistema. Le Reti della conoscenza e del trasferimento tecnologico potranno senz’altro rendere fertile il contesto territoriale, ma prima bisognerà smuovere la terra e dissodarla in profondità, coinvolgendo oltre le braccia, le teste e i cuori. Se serviranno i caterpillar, si useranno i caterpillar e alla guida ci saranno le donne …. una minaccia? Lo è, perché non se ne può fare più a meno. 

 

 

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QUESTO SUD di Giuseppe Soriero – Numero 15 – Dicembre 2019

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QUESTO SUD

 

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“Rete delle infrastrutture” e “Rete dei talenti” – Due obiettivi impellenti.
“In particolar modo è necessario ridurre il divario che sta ulteriormente crescendo tra Nord e Sud d’Italia.  

A subirne le conseguenze non sono soltanto le comunità meridionali ma l’intero Paese, frenato nelle sue potenzialità di sviluppo” – ha proclamato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio per il nuovo anno 2020.

Avevamo colto già codesta sua sensibilità quando, il 14 novembre scorso, la delegazione Svimez ha illustrato al Quirinale il recente Rapporto 2019,

 

presentato alla Camera dei Deputati il 4 novembre, alla presenza del Presidente del Consiglio Conte. La rivista Myrrha, presente alla Camera, adesso lodevolmente apre le proprie pagine a commenti sul tema, per ispirare ulteriore fiducia nei doni del Sud. 

 

A ben pensarci,

 

la fiducia nelle proprie energie è stato il filo conduttore del discorso 

del Presidente Mattarella,  

 

poiché a suo avviso “per promuovere fiducia, è decisivo il buon funzionamento delle pubbliche istituzioni che devono alimentarla, favorendo coesione sociale…. La democrazia si rafforza se le istituzioni tengono viva una ragionevole speranza”.  

E’ questo il sentiero irto e stretto lungo cui si muove da anni la valutazione periodica del Rapporto Svimez: nutrire di speranza la battaglia meridionalista, aggiornando continuamente la lettura critica delle difficoltà meridionali la cui soluzione è elemento strategico per il futuro dell’Italia. Il Nord da solo non ce la può fare, l’Italia ha bisogno dello sviluppo del Sud. Non a caso la descrizione quest’anno paventa i caratteri di un nuovo divario tra l’Italia e l’Europa.

Insomma, negli ultimi dodici mesi è aumentato non solo il dualismo tra Nord e Sud, 

ma l’affanno dell’intero sistema Italia rispetto al resto d’Europa. 

 

“Ristagnano soprattutto i consumi (+0,2%), ancora al di sotto di -9 punti percentuali nei confronti del 2018, rispetto al Centro-Nord, dove crescono del +0.7%, recuperando e superando i livelli precrisi”. 

Tuttavia il Nord Italia non è più tra le locomotive d’Europa dacché talune regioni dei nuovi Stati membri dell’Est superano per PIL alcune regioni ricche italiane, essendo quelle “avvantaggiate dalle asimmetrie nei regimi fiscali, nel costo del lavoro, e in altri fattori che determinano ampi differenziali regionali di competitività”  

 

Fatto 100 il Prodotto interno lordo dell’ Area europea (dei 28 Stati membri), dalle ricerche Svimez si desume che tra il 2006 e 2017 il valore della  Lombardia cede da 138 a 128; il Veneto da 121 scende a 112, l’Emilia scivola da 131 a 119; ad Est il PIL sale: a Praga da 170 a 187, a Bratislava da 147 a 179, a Bucarest da 87 a 144.

Queste cifre hanno indotto subito alcuni importanti giornali a titolare che “Il Nord spegne i motori dell’industria e si ferma anche la locomotiva Italia”, 

 

narrando essi anche il raffreddamento dei ritmi di crescita in Germania, il prevalere della Brexit in Gran Bretagna, il crollo dell’export UE che arriva a lambire aree sicure che finora avevano trainato l’economia italiana, dalla Brianza ad alcune zone dell’Emilia.  

 

La crisi internazionale insomma ha clamorosamente squarciato il velo rendendo lo scenario più netto: o le due aree del Nord e del Sud cresceranno insieme o la ripresa dell’Italia rimarrà sempre più tiepida proprio mentre il Mediterraneo è in ebollizione e spinge comunque verso la modifica di secolari equilibri con protagonisti del tutto inediti: la Cina, con ambiziosi investimenti lungo “La via della seta”; la Russia, che impone un ruolo primario nello scacchiere geopolitico; e adesso anche la Turchia, che vota rapida l’intervento militare in Libia per pesare di più nelle acque del Mediterraneo.

 

E l’Italia che fa ?  

 

Mentre le grandi potenze del mondo si misurano su programmi internazionali d’investimento a fini bellici, militari, di egemonia industriale e commerciale, qui da noi continuano le crociate ideologiche sugli egoismi territoriali e prevalgono le polemiche localistiche sul cosiddetto “regionalismo differenziato” e su ipotesi di sviluppo “ a geometria variabile”. E’ questo il portato di una dissennata dispersione della coscienza unitaria della nazione che si frantuma lasciando ampi varchi al sentimento del “rancore” indentificato dal Censis come elemento coagulante di nuovi egoismi territoriali. E’ appena il caso di ricordare che, nell’inerzia del Sud, ripiegato nel trascinamento prevalente di misure economiche assistenziali, la bulimia nordista è riuscita a concentrare solo per le infrastrutture ben 47,5 cinque miliardi nelle aree del Nord, relegando solo 5,7 miliardi alle aree dell’anoressico Mezzogiorno.

Emblematica in tal senso la foto Svimez del dualismo ferroviario. 

 

Adesso finalmente si comincia a discettare da più parti sul rispetto del criterio del 34% nella ripartizione della spesa statale, ma ancora siamo terribilmente indietro. I dati fermi al 28,4% fotografano gli effetti di quella che alcuni commentatori, ironicamente, hanno definito la “Secessione light”, un paradossale gioco delle parti perpetrato cinicamente ai danni della coesione e della comunità nazionale.  

Proprio la ricognizione sull’uso delle risorse europee del QCS 2000-2006 e del QSN 2007-2013 ha messo in evidenza le fragilità del modello. Quanto il meccanismo italiano fosse inceppato è stato, anni fa, ad esporlo il primo Rapporto Fondazione Hume-Sole 24 Ore:

mentre complessivamente, a partire dal 1992, le disuguaglianze nel mondo 

si riducono il differenziale interno nel caso italiano cresce.  

 

E all’origine degli squilibri italiani c’è non solo il divario del PIL, ma “la fisiologia di un sistema economico che non riesce a trovare una via autonoma di creazione e di distribuzione della ricchezza attraverso il mercato, e che dagli anni ’90 resta vincolato a meccanismi di trasferimento della spesa pubblica in via di assottigliamento”.  

 

Non riuscendo lo Stato ad affrontare questi nodi strutturali del modello, solo in Italia, rispetto ad altre esperienze europee,

ogni 3 anni si è preteso di cambiar nome, tipologia e finalità dell’intervento pubblico con la chiusura e la riapertura di Ministeri e Agenzie,  

 

oscillando tra audaci sperimentazioni di funzioni e di poteri che però non sono riusciti a sradicare il pervicace “gattopardismo” diffuso negli apparati burocratici. Hic Rhodus, hic salta! A 160 anni dall’Unità d’Italia, 25 dopo l’abolizione dell’intervento straordinario e della Cassa per il Mezzogiorno, 50 anni dopo l’entrata in funzione delle Regioni e dopo 10 anni di esaltazione acritica della riforma federalista (legge 42/2009) non si riesce ancora a correggere le visioni contrapposte tra le pretese dell’ egoismo “nordista” di riservare per quei territori ingenti risorse e l’autoisolamento che il Mezzogiorno stesso si è inflitto, incapace di debellare il degrado istituzionale, la gestione clientelare dei fondi pubblici e le incursioni del poteri mafiosi in tutti i gangli dello sviluppo economico.

A questo punto un interrogativo è d’obbligo: come è plausibile stoppare 

lo stucchevole conflitto tra Nordisti e Suddisti, in breve tra gli epigoni 

del “Sacco del Nord” e i cantori dello “Scippo del Sud? 

 

Per intanto Svimez si è recata in Parlamento a documentare che le pretese di alcune Regioni del Nord di trattenere per sé il cd. residuo fiscale era non solo culturalmente, ma anche tecnicamente infondato (audizione Commissione Finanze, Camera dei Deputati, 10/12/2019). Le Regioni meridionali finora hanno solo balbettato; Governo e Parlamento si trovano in questi giorni impelagati a dirimere un contenzioso non facile, per correggere, con le proprie funzioni d’indirizzo e di controllo, i guasti indotti sia dal potere centrale che dalle classi dirigenti meridionali.  

 

Il Rapporto Svimez quest’anno, esaminando i costi enormi del divario italiano, insiste segnatamente sul bisogno di strategie di sviluppo che sappiano competere a livello internazionale.

 

E indica tra le priorità almeno due proposte strategiche che attengono 

alla dotazione di nuove infrastrutture materiali e immateriali, 

per rafforzare l’armatura urbana e per connettere in rete 

le tante competenze giovanili. 

 

Il Sud diventa così l’emblema dell’Italia che può innovare, se si considerano le potenzialità incommensurabili delle condizioni logistiche e territoriali, innanzi nell’utilizzo pieno dei grandi porti, da Gioia Tauro a Napoli a Taranto, a Palermo  che consentirebbero al Sud di essere davvero utile anche al Nord e all’Italia, di essere preziosa cerniera tra l’Europa ed il Mediterraneo.

Il Bel Paese dunque non può indugiare oltre in politiche di corto respiro, 

 

deve saper debellare l’arroganza della mafia, ed anche la complice vischiosità di qui settori della pubblica amministrazione che hanno messo a dura prova la voglia di tanti giovani di vivere e lavorare nelle città meridionali. 

 

Solo così forse sarà possibile risvegliare davvero l’anima del Sud e suscitare fiducia tra le forze più innovative.  

 

Quella fiducia che va trasmessa ai giovani – ha ricordato tuttora il Presidente Mattarella “ai quali viene sovente chiesta responsabilità, ma a cui dobbiamo al contempo affidare responsabilità”.   

 

E’ questo un aspetto di evidente rilievo! La rivendicazione di un ruolo da protagonisti scaturisce proprio da una recente indagine Svimez su un campione significativo di circa 400 allievi che studiano nelle tre università della Calabria. La risposta prevalente e perciò confortante è che

 

essi non vogliono scappare; sono pronti anzi a misurarsi, producendo idee 

per lo sviluppo, cooperando tra loro per delineare 

una vera e propria “Rete dei giovani talenti”.  

 

Una struttura cioè che, attraverso l’uso delle nuove tecnologie, sappia fare leva su tutto ciò che di positivo riescono ad esprimere adesso le università meridionali.  

 

Potrà essere una novità di assoluto rilievo, se finalmente Parlamento, Governo e Regioni decideranno di concentrare, per alcuni anni, ingenti risorse, indirizzando così un uso più virtuoso di fondi europei e nazionali. 

 

La rivista Myrrha saprà approfondire questo confronto e già altri commenti in questo numero cominciano a riflettere efficacemente sull’esodo devastante dei giovani e sull’impellente necessità della tutela dell’ambiente. Io concludo con una solo interrogativo a proposito di giovani, formazione e innovazione. L’anno 2020 si apre proprio con la istituzione di un nuovo Ministero per Università, ricerca, alta formazione; e un Ministero certo da solo non può bastare!

Può comunque indicare la direzione di marcia per una incisiva
competizione italiana, culturale e civile, a livello europeo? 

 

 

 

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