LA LEGGEREZZA DELLA CULTURA di Francesco Festuccia – Numero 15 – Ottobre 2019

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LA LEGGEREZZA DELLA CULTURA

 

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Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

 

Scomodiamo Calvino per parlare di una realtà particolare e forse unica, che della leggerezza fa il suo marchio di fabbrica.

Siamo andati in Calabria a stanare un gioiello di imprenditoria culturale,


un dono del Sud all’Italia, che parte da un piccolo centro nel 2004 per diventare oggi una realtà affermata a livello nazionale e oltre. 

Coccole Books, casa editrice specializzata nella letteratura per l’infanzia, decolla da Belvedere Marittimo, provincia di Cosenza, con il mare davanti e la natura selvaggia del Pollino dietro. Nasce dalla passione di una coppia (nella vita prima, nel lavoro poi) che sceglie di lasciare le proprie professioni originarie (lui ispettore assicurativo, lei avvocato) per fare insieme qualcosa di nuovo e creativo. In un settore meraviglioso, complesso, avventuroso: quello dei libri per bambini e ragazzi, dagli albi illustrati per i più piccoli alle prime storie per le elementari fino ad entrare nel mondo dei romanzi per adolescenti.  

 

Parliamo di leggerezza: all’inizio il loro progetto prende il nome irriverente di Edizioni Coccole e Caccole. Il nome poi si è trasformato, la casa editrice è cresciuta e si è allargato anche il target dei lettori. Ma lo spirito resta scanzonato.

Si parla di libri per bambini e ragazzi,

 

dove la seriosità (attenzione, non la serietà!) non deve mettere radici, perché delle cose importanti si può e si deve parlare in modo accessibile.  

Dalle finestre degli uffici della casa editrice si vede il mare, anche se, impegnati come sono, loro non riescono spesso a goderselo. Il lavoro di Ilario e Daniela conosce pochi orari e poche pause, immune ai ritmi pigri di Belvedere Marittimo al di fuori della stagione balneare, quando invece si popola di turisti attratti sì dalle spiagge della Riviera dei Cedri, ma anche dall’indimenticabile tradizione gastronomica, e dai moltissimi itinerari di mare e di montagna, di natura e di storia.  

 

Da questo sfondo ricchissimo prende le mosse il loro progetto: “Coccole Books è e vuole restare un editore indipendente, che vuole essere solidale a tematiche del territorio a cui appartiene e che vuole

 

raccontare con leggerezza e senza mai essere banale la verità anche ai ragazzi: integrazione, disabilità, mafie, scelta partigiana,
parità di genere, diritto al lavoro”.


La scelta dei titoli è curatissima, ogni libro e albo si inserisce in un progetto come tessere di un puzzle, che alla fine va a comporre l’identità della casa editrice.  

 

Ci sono i grandi personaggi raccontati in modo spesso originale, diverso, come Martin Luther King, Papa Francesco, Tina Anselmi, Samantha Cristoforetti, rivoluzionari che parlano ai ragazzi e ai bambini di scelte coraggiose e controcorrente, dell’inseguire i propri sogni e fare la cosa giusta anche quando sembra la più difficile. Ci sono le storie piccole e quotidiane rivolte ai bambini delle scuole elementari, con al centro il loro mondo e la loro lingua. E i libri rivolti al target più complesso ed esigente di adolescenti e preadolescenti, per affrontare temi più o meno intimi, più o meno universali.  

 

Un catalogo ricco e accuratamente selezionato, con uno scopo preciso:

“Pensiamo che fare libri per ragazzi possa rappresentare una concreta 

azione politica in grado di produrre cambiamento”, spiegano i due editori: 

“Una piccola rivoluzione, un segno per guardare in modo diverso le cose della vita, ma anche gli aspetti a volte complicati di un territorio”.  

 

Un’identità tenace, quella legata al territorio, che si riflette anche nel modo di lavorare, moltiplicando le buone prassi come il rispetto dell’ambiente e del lavoro. Coccole Books stampa rigorosamente in Italia e su carta riciclata, perché non sono solo le storie a fare la differenza, ma anche i professionisti che ci sono dietro, e le loro scelte, nella filiera del libro per ragazzi che è un settore diverso da quello del libro tout court.  

 

Ma per Ilario e Daniela essere editori non si consuma solo nel lavoro di selezione, produzione e promozione dei titoli. Da due anni lavorano a stretto contatto con le scuole con le Olimpiadi del Libro, che per l’edizione 2019 hanno coinvolto 13 scuole e 130 classi: circa 2500 ragazzi. E per il 2020 si replica, con già 18 istituti iscritti. Le Olimpiadi portano i libri nelle scuole attraverso il gioco, la scoperta e un po’ di sana competizione. Ogni classe sceglie un libro dal catalogo, gli alunni lo leggono e a fine progetto lo rappresentano, come spettacolo, cartelloni, canzone, progetti grafici, e nel giorno finale delle Olimpiadi la classe incontra anche l’autore scelto.

Un contesto territoriale che resta il fulcro della loro attività, portando il meglio 

della Calabria nel mondo e il meglio del mondo in Calabria

 

“Nascendo in Calabria e scegliendo di restare in questa terra, la nostra prima esigenza è stata quella di emanciparci da un contesto provinciale e proiettarci da subito in una dimensione nazionale, sia nella scelta di testi e autori che dei destinatari delle nostre pubblicazioni. Avevamo ed abbiamo ancora la necessità di raccontare quello che siamo ma anche quello che vogliamo essere e diventare”. 

 

 

 

 

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CASSANO IONIO TRA STORIA E LEGGENDA di Francesco Serra di Cassano – Numero 15 – Ottobre 2019

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CASSANO IONIO TRA STORIA      E LEGGENDA

 

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A Cassano Ionio, in provincia di Cosenza, la natura è stata avara di terra, ma le ha dato in cambio una bellezza scenografica veramente insolita, “oggetto di cupida ammirazione” ai tempi delle incursioni saracene, quando il feroce emiro Al Hasan, dopo averla conquistata nel giugno del 951, scrisse che gli era piaciuta “perché è assai bella”.

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Quanto fosse bella e importante la città, come racconta uno dei suoi biografi, Vincenzo Saletta1, è dimostrato dai numerosi tentativi fatti da Longobardi, Bizantini e Saraceni per impossessarsene.  

 

Nell’anno 969, in particolare, Cassano fu teatro di uno degli episodi più sanguinosi della sua storia. L’imperatore bizantino Niceforo Foca aveva finto di concedere la mano della principessa Teofania al giovane figlio di Ottone di Sassonia (il futuro Ottone II).

 

Ottone, per ricevere degnamente la promessa sposa del figlio, aveva inviato un folto gruppo di persone autorevoli del suo seguito, i quali, presso Cassano,

 

vennero circondati e fatti a pezzi dai soldati bizantini appoggiati dai reparti di stanza proprio nel castello di Cassano. La reazione di Ottone fu “rabbiosa e crudele”: i bizantini furono raggiunti e sopraffatti in contrada Timpone Rosso di Cassano, i prigionieri uccisi, mentre quelli più autorevoli, tra i quali i duchi Antario e Sigifredo, ebbero il naso tagliato e, così mutilati, imbarcati e inviati a Costantinopoli.

La città fu in parte saccheggiata, in parte data alle fiamme,

 

e non si sarebbe salvata dalla definitiva rovina se Ottone non si fosse determinato a perdonare gli abitanti, prendendo la residenza nel castello dentro la città, dove rimase fino al 18 aprile di quello stesso anno, per celebrarvi la Pasqua. 

 

Il problema della fondazione di Cassano2, connesso a quello della sua esatta ubicazione, è un dilemma comune a tutte le città della Magna Grecia e investe i diversi periodi storici (pre-greco, greco e magno-greco) e le relative grandi differenziazioni di costumi, società, istituzioni, alle quali si devono aggiungere le ulteriori trasformazioni avvenute in epoca bizantina e moderna

 

Ad ognuno di questi periodi corrispondono altrettante ubicazioni, 

spesso sensibilmente diverse tra loro, che non sempre 

l’indagine storico-archeologica

è riuscita ad identificare.

 

Per quel che riguarda il primitivo sito di Cassano, allorché la fondarono gli Enotri verso il secolo XIV-XV a.C. con il nome greco di Cossa, “possiamo supporre, sulla base di sicuri indizi […] che esso fosse sulle pendici nord-occidentali del monte Marzio (oggi Pietra del Castello) in una posizione approssimativamente compresa tra la contrada Acquarella ad est di Pancaro e la contrada Appicello al di sopra della riva destra del fiume Eiano”3. Gli Enotri (cultori del vino) erano un popolo dedito soprattutto alla pastorizia ed avevano come simbolo il toro, il vitulus.

La regione prese così il nome di Vitalia, da cui sarebbe poi derivato 

il nome Italia. Sopraggiunta l’emigrazione achea (sec. VIII a.C.), 

“la città si estese verso l’alto, approssimativamente attorno 

all’attuale piazzetta di S. Agostino, dove venne costruita 

la prima fortezza,

 

e verso oriente, oltre il sito dove oggi sorge il rione Pié d’Ulivo, mentre i prischi abitanti venivano sospinti verso la parte occidentale del territorio e costretti, forse in condizioni di semi-cittadini a crearsi nuove fonti di vita nelle terre dell’interno”4.  

 

Dopo la distruzione di Sibari (510 a.C.), anche Cassano venne distrutta dai Crotoniati, che inseguivano i Sibariti in rotta e, così, i suoi abitanti si dispersero, cercando rifugio nelle vicine città, dove rimasero per oltre 60 anni.

Furono i Thurini, insieme ai Sibariti che avevano interessi nel territorio circostante, 

ad aiutare i Cassanesi a ricostruire la loro città, che sorse, secondo 

quanto ricostruisce Saletta, all’incirca nella zona dove si trova 

ancora oggi, incastonata in una natura 

rigogliosa e imprevedibile,

 

circondata da sette colli (Megalite, Astrolomo, Pallice, Pierio, Strongilo, Flaminio, Termi), ai quali è legata gran parte della sua storia e intorno a cui sono stati creati i più interessanti miti della Magna Grecia. La città venne circondata di mura, che esistevano ancora in epoca romana, e l’acropoli venne costruita in alto sulle pendici della Pietra di S. Marco.  

 

I coloni greci, spiega Saletta, “per quello scrupolo religioso tanto bene delineato da Omero, non solo ricreavano nei luoghi dove sbarcavano il profilo toponomastico della patria d’origine, ma lo serbavano sempre uguale ogni volta che erano costretti a mutare sito”.

E’ probabile che la pianta della città fosse ottagonale con due strade principali 

che si incrociavano ad angolo retto, con l’agorà nei punti di incrocio, 

l’acropoli e l’abitazione dell’Egemone nella zona più alta.

 

“Tale pianta, che del resto si riferiva al sistema assiale delle città italiche […] e che risultò di grande effetto scenografico, appare, ancora oggi, chiarissima a chi osservi la città dall’alto della Pietra di Castello”5. Più a sud dell’attuale sito della Cattedrale, venne costruito il tempio di Zeus, mentre le abitazioni vennero costruite sul dorsale sassoso verso l’alto, come a Selinunte, avendo come asse maggiore e centrale l’attuale via della Silicata, abbellita da piccole case costruite ad insulae sui lati, con porte senza archi, con scale esterne appoggiate alle facciate secondo la tecnica greco-romana.   

 

Nell’anno 286 a.C., secondo quanto riferisce Plutarco, la città ebbe un nuovo incremento di popolazione con l’arrivo della vexillatio di coloni romani guidati da C. Flaminio.

La distribuzione di terre ai coloni, data la particolare situazione topografica 

della città, si effettuò verso est e verso sud-est, in tutto il territorio compreso

 tra l’attuale frazione di Lauropoli e quella di Doria, dove sono stati 

rinvenuti frammenti di laterizi e di suppellettili di epoca romana.

 

La denominazione “Lauropoli” è di più recente formazione e risale all’anno 1763, quando la frazione venne ricostruita e ripopolata dalla duchessa Laura Serra. Durante la Repubblica Romana, Cassano fu dichiarata Municipio e, in seguito, poiché parteggiava per Cesare, fu assediata da T. Annio Milone. Nei secoli successivi, dopo gli splendori dell’Ellade e il dominio di Roma (il più lungo in assoluto, dal IV secolo a.C. al 537 d.C.), Cassano rifiorì come uno dei primi comuni calabresi che abbracciò il Cristianesimo (secondo alcune testimonianze vi giunsero per annunciare il messaggio evangelico S. Pietro e S. Marco).

Quando i Bizantini riconquistarono la Calabria, Cassano fu scelta come sede 

di Diocesi, poiché le sue Comunità erano attive ed erano centro di apostolato 

per largo raggio, mentre, all’epoca degli Angioini, divenne feudo 

di Icerio de Mignac, come trascritto nel regio registro del 1284. 

 

Di un certo interesse mitologico è anche lo stemma del comune cassanese che riproduce il Liocorno, mostro leggendario dal corpo di cavallo, testa di cervo, zampe d’elefante e in fronte un solo corno. Secondo i Greci, aveva poteri straordinari e misteriosi.  

 

I sette colli, il centro storico ed il complesso termale rappresentano oggi un percorso culturale di grande interesse che, attraversando i centri di Lauropoli, Doria e Sibari lungo un territorio che si estende ad anfiteatro, da levante a ponente, conduce fino alla splendida Baia della Luna, in cui trovano posto nuovi siti turistici con gli antichi reperti archeologici, testimonianza dei popoli insediatisi in queste terre.

Il paese di Cassano appare ai visitatori anche come lo scenario di un grande presepio, dove colli, boschi, rocce e abitato richiamano in vita tradizioni antichissime 

e leggende, che hanno fuso civiltà diverse nel corso della storia 

e che costituiscono l’humus della più nobile tradizione europea.  

 

 

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1 Vincenzo Saletta, Storia di Cassano Ionio, Casa editrice Studi meridionali, 1966 

2 Fondamentale testo per la conoscenza della storia e delle leggende legate a Cassano è la monografia del 1857 a cura di Biagio Lanza, Monografia della città di Cassano, Edizioni Brenner, 1971. 

3 V. Saletta, cit. 

4 V. Saletta, cit. 

5 V. Saletta, cit. 

 

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LE DONNE E LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 15 – Ottobre 2019

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LE DONNE E            LA TRADIZIONE MUSICALE ORALE IN CALABRIA            E LUCANIA      

PARTE Ii

 

 

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In molte comunità calabro-lucane, specie nei Riti del Venerdì Santo, il canto femminile si sostanzia in spazi e forme antagonisti, sia rispetto all’ufficialità della Chiesa sia a quelli degli uomini. 

Riportiamo, a titolo d’esempio, alcune esperienze in contrasto, rilevate a Cassano allo Jonio e a San Benedetto Ullano1. Nel primo caso,

le donne fanno gruppo a sé: estranee alla organizzazione coreografica 

della processione, procedendo secondo i propri tempi, con numerose soste, 

cantando in cerchio, quasi abbracciate,


marciando spesso a ritroso, apparentemente incuranti di quel che accade nel lungo corteo davanti a loro e, di fatto, al di fuori di ogni controllo da parte della gerarchia ecclesiastica (Foto 1 – 3).  

 

Quasi una processione autonoma dell’Addolorata, all’interno della processione ufficiale2.  

 

La voce delle donne, lacerata e ricca di pathos, vìola lo spazio sonoro circostante, contrappuntando e sovrastando la composta e austera banda e gli acuti suoni delle tube, in uso agli inquietanti flagellanti incappucciati (Foto 4 – 6).

Le piccole Addoloratine, compitissime bambine, agghindate 

con il manto dell’Addolorata dalle Sette Spade

sembrano osservare, sgomente, la scena (foto 7).

 

S. Benedetto Ullano 

 

La kalimera3 costituisce, per tutte le comunità italo – albanesi, un’antichissima tradizione di rilevante interesse storico-letterario, religioso e tradizionale4.

Fra le kalimere più note della raccolta di Variboba5

facciamo riferimento a quella che, nella comunità di San Benedetto Ullano, 

è nota come E keqe penë6, intonata prevalentemente da donne.

 

La struttura quasi sillabica del testo musicale e il fine catechistico (quindi, la tassativa intelligibilità del testo verbale) non rende necessaria alcuna manipolazione e obbliga a minori adattamenti, perché possa aderire al modulo musicale tradizionale, al contrario di come avviene, invece, per altre pratiche di canto femminile7 nell’area (foto 8).

 

In questo caso, l’opposizione è rovesciata:

lmentre a Cassano sono le donne a gestire i tempi e gli spazi della processione, in autonomia e quasi in antitesi ai dettati delle gerarchie ecclesiastiche, qui, 

al contrario, è il gruppo maschile che sembra allontanarsi dai precetti, 

 

mentre intona un canto processionale, il cui testo verbale è tratto dagli Inni Sacri del Manzoni8. A causa di tali comportamenti, il gruppo maschile, è osteggiato o appena tollerato dal clero locale (foto 9). 

 

Tuttavia, specie in queste occasioni solenni, il panorama sonoro della piccola comunità sanbenedettese si complica alquanto. Il particolare assetto urbanistico, organizzato sull’impianto tradizionale in ghitonje, articolate in stretti e angusti vicoli, genera, talvolta, un vero e proprio scambio di ruoli fra i due cori, quello femminile e quello maschile, con interessanti sovrapposizioni e sostituzioni che, inevitabilmente, si riflettono sull’articolazione di entrambi i canti. In alcuni casi, infatti, la più acuta e potente tessitura femminile riesce persino ad oscurare la voce, pur potente e lacerata, del solista maschio.

lelemento che colpisce è la presenza di una dicotomia fra l’atteggiamento penitenziale – espresso in maniera evidente dai flagellanti e dal clero, 

nel primo caso; dalle pie donne, nel secondo –

 

e l’elemento godereccio e/o autonomo del popolo (in entrambi gli esempi, a parti rovesciate), che ci riporta alla mente il celeberrimo Combattimento fra Carnevale e Quaresima di Bruegel il Vecchio9: Battaglia simbolica fra il Carnevale (metà sinistra del quadro) e la Quaresima (metà di destra). Se la parte sinistra del quadro è dominata dall’osteria e dalla crapula dissoluta, la destra è occupata dall’austera mole della chiesa, nella quale entrano ed escono i fedeli: due edifici-simbolo che incarnano stili di vita e visioni del mondo antitetici: un “mondo alla rovescia”10.

 

 

 

 

 

 

 

 

incappucciati

 

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 NOTE

 

1 Entrambe in Provincia di Cosenza. S. Benedetto Ullano, comunità arbëreshë. 

2 Adamo G. (2016)  

3 Dal greco, Buongiorno. 

4 La Chiesa italo-albanese, dal ‘700 in poi, si è largamente servita dei Canti Sacri popolari per impartire la catechesi, alimentare la fede e inculcare la pietà religiosa. 

5 Molte di queste composizioni sono attribuite a un sacerdote di rito greco di San Giorgio Albanese (CS), Giulio Variboba (1704 – 1788), che, sul modello di Jacopone da Todi, nella sua opera, Gjella e Shën Mëris Virgjër, si serviva di questi canti per istruire ed evangelizzare il popolo.  

6 “Tremenda pena”: i vari momenti della passione, il tradimento, l’arresto, la flagellazione, il percorso verso il Calvario e, infine, la crocifissione e morte del Cristo sono vissuti attraverso il riflesso degli stati d’animo di Maria, che, all’acme della sofferenza, emetterà uno straziante vajtim (lamento). 

7 Cfr., De Gaudio, I.C. (1993). 

8 Non è raro rilevare una certa euforia (indotta probabilmente dall’assunzione di alcolici) nei cantori che, a turno, con tanto di corona di spine, portano la Croce durante la Processione; così come non è sporadico osservare piccoli gruppi di cantori che, nelle pause, fra una Stazione e l’altra, consumino, non visti, qualche ‘spuntino’ a base di salumi…  http://leavlab.com/portfolio/diaspora-albanese/ 

9 https://goo.gl/images/AXLJDD Jan Bruegel il Vecchio, Combattimento fra Carnevale e Quaresima, 1559, Vienna, Kunsthistorisches Museum 10 Cfr. Bachtin, M. (2001). 

BIBLIOGRAFIA

 

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Amalfi, G. (1994). Cento canti del popolo di Serrara d’Ischia. Ranisio, G. (cur.). Napoli (Iediz.1882)  

Apolito, P. (2014). Ritmi di festa. Corpo, danza, socialità. Bologna. Il Mulino Bachtin, M. (2001). L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Torino. Biblioteca Einaudi Barrio, G. (1979). Antichità e luoghi della Calabria, rist. Cosenza, Brenner Biagiola, S. (1989). Per una classificazione della musica folklorica italiana. Studio sulle ninne nanne. “Nuova rivista musicale italiana”. 1-2: 113-140 Caliò T. e Ceci L. (a cura di ). (2016). L’immaginario devoto tra mafie e antimafia: 1. Riti, culti e santi. Sanctorum. Rieti. Scritture, pratiche, immagini – (AISSCA)  Casetti, A. – Imbriani, V. (1871-72). Canti popolari delle province meridionali. Firenze. E. Loescher. (rist. anastatica Bologna 1968) De Gaudio, I (a cura di), (1990).  Gli Albanesi di Calabria, vol. 1. Università degli Studi di Bologna – ICTM (UNESCO), (libretto e trascrizioni allegati al disco Albatros VPA 8501)  De Gaudio, I.C., (1993). Tecniche polifoniche in un repertorio polivocale di tradizione orale: i Vjersh nelle comunità albanofone della Calabria, (Premio Internazionale Latina di studi musicali – sez. etnomusicologia -), “Quaderni di Musica/Realtà”. Modena. Mucchi Editore De Leo, P. (a cura di). (1988). Minoranze Etniche In Calabria e In Basilicata. Cava de’ Tirreni. Di Mauro. Donato, G. (a cura di), (1985) Polifonisti calabresi dei secoli XVI e XVII – Testi della Giornata di Studi su La Polifonia sacra e profana in Calabria nei secoli XVI e XVII – Reggio Calabria, 26 novembre 1981. Roma. Torre d’Orfeo. Duby, G. – Perrot, M. (2003) Storia delle donne in Occidente. Roma-Bari. Laterza.  Ricci, A. – Tucci, R. (a cura di) (2006). Musica arbëreshe in Calabria. Le registrazioni di Diego Carpitella e Ernesto De Martino. Roma, Squilibri Ricci, A. (2002). I suoni della poesia popolare: “poetiche” e “politiche” nel canto tradizionale calabrese, in Scafoglio, D. (cur). Le letterature popolari: Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici). Napoli: 489-507 259 Saffioti, T. (1981). Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione Spera, V. M. (2002). Vedere le parole, ascoltare le figure. In Scafoglio, Domenico (cur.). Le letterature popolari. Prospettive di ricerca e nuovi orizzonti teorico-metodologici. Napoli. ESI Valente, G. (A cura di), Il Viaggio in Calabria dell’Abate Pacichelli, Messina, La Sicilia, s.d.

 

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“CARO GIORGIO HAI RAGIONE” LETTERA A MYRRHA di Carlo Pilieci – Numero 15 – Ottobre 2019

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LETTERA A MYRRHA

 

Caro Giorgio, hai ragione. Dobbiamo uscire dall’angolo, lo possiamo fare, non dobbiamo rassegnarci.   

 

Sono nato in Calabria, dove ho trascorso la mia infanzia. E col trascorrere degli anni, vivendo lontano, ho imparato ad apprezzare ricchezze e risorse del Sud, i valori anche di accoglienza e solidarietà che in quelle terre si tramandano. Una volta per tutte va imboccata la strada del riscatto.   

 

Abbiamo un patrimonio naturale, artistico, archeologico, storico che deve essere ancora in gran parte “scoperto” e valorizzato. Sono convinto che turismo e impresa legata al territorio possano essere armi vincenti per ridurre finalmente il divario con il resto d’Italia, battere su questo terreno la criminalità. Matera, il riconoscimento come Capitale Europea della Cultura, l’afflusso di turisti cresciuto negli ultimi anni in questa città in modo esponenziale, è un esempio.   

 

Ma c’è anche da chiedersi quali e quante potenzialità’ ancora vengono bloccate dalla cronica mancanza di infrastrutture e collegamenti adeguati. Pensiamo solo a come si sviluppa in Italia la rete dell’alta velocità. E iniziative come quelle di “Myrrha”, che raccoglie e racconta grandi risorse e ricchezze e grandi problemi ancora da risolvere, possono essere uno strumento decisivo per indicare la strada giusta.   

 

Da cronista vorrei indicare anche l’esempio virtuoso e silenzioso di un’impresa agro-alimentare che a Gioiosa Ionica, il paese in cui sono nato, da anni dà lavoro a decine di persone esportando tutti i suoi prodotti di alta qualità in venti paesi del mondo, spediti all’estero attraverso i container dal porto di Gioia Tauro. Chi l’ha creata non si è fatto intimidire dalle minacce delle cosche. Il Sud può ripartire, e può far ripartire l’Italia.   

 

Un caro abbraccio a tutti, Carlo Pilieci. 

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I PATRIARCHI ARBOREI DELLA CALABRIA di Stefania Conti – Numero 15 – Ottobre 2019

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I PATRIARCHI ARBOREI DELLA CALABRIA

 

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veri e propri monumenti vegetali che, oltre a valorizzare il paesaggio, conservano la memoria di eventi dei secoli passati.

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 Sono i patriarchi arborei. Un’opera d’arte fatta non dall’uomo, ma dalla natura.

Patriarchi generosi, che ci aiutano a vivere nel senso più letterale del termine, nonostante la specie umana – e non da oggi – li maltratti e distrugga. 

L’Italia è nota per i suoi primati nella cultura, storia, arte, enogastronomia. Ma pochi sanno che ha anche quello di essere il paese con la massima biodiversità in Europa, senza dubbio uno dei più utili nei confronti dei cambiamenti climatici. Parte di questo merito è dovuto proprio a loro, i patriarchi arborei, i grandi capostipiti dei nostri boschi e delle nostre coltivazioni.

 

Pensate che un grande e antico albero con circa 700 metri quadri di chioma, 

può assorbire ogni ora circa 2 chili e mezzo di anidride carbonica 

e produrre 1,7 chili di ossigeno.

 

Inoltre, se un “patriarca” ha più di 200 anni, significa che per due secoli ha imprigionato anidride carbonica nel suo legno, senza favorire l’effetto serra.  

 

Questi monumenti vegetali sono diffusi in tutto lo Stivale. Esiste un gruppo di mecenati amanti della natura – l’Associazione Patriarchi della Natura in Italia – che con i loro soldi e il loro tempo hanno studiato da nord a sud tutti questi alberi e li hanno classificati. Dal loro imponente studio scopriamo che il Mezzogiorno ha un ricchissimo patrimonio arboreo.

Per esempio, in Calabria c’è un piccolo distretto di eccellenze. 

A Morano, provincia di Cosenza, nel parco del Pollino, esiste 

un Pino Loricato, tipico anche della confinante Basilicata. 

Ma questo è il più antico: ha più di 1500 anni.

 

Supera di 300 anni quello che era stato il simbolo stesso del Parco del Pollino (lo chiamavano “zio Peppe”), ucciso da un incendio doloso alcuni anni fa. Ah, la terribile mano dell’uomo! ma lui ha resistito, cresciuto sopra una roccia che ormai è inglobata nelle sue possenti radici e sta abbarbicato a quasi 2000 metri di altezza.  

 

Sempre in Calabria, e

sempre nella provincia di Cosenza, troviamo tre monumentali castagni di Grisolia, 

il più grande dei quali ha un tronco talmente ampio 

che lo colloca tra i primi d’Italia.

 

Gli abitanti locali lo chiamano “scilavrune”, che in dialetto significa ramarro per il verde dei muschi che vegetano sul suo tronco e che lo rendono bellissimo. Ancora a Cosenza, in località Curinga, c’è

 

il platano di Sant’Elia, chiamato così perché è nelle adiacenze 

dell’eremo di Sant’Elia Vecchio, di origine bizantina, 

eretto nel 1062.

 

Per cui l’albero potrebbe essere stato piantato dai monaci ed avere quindi quasi mille anni. Ha una elevata tolleranza all’inquinamento e una forte resistenza al calore e all’usura. Forse per questo si è salvato dalla distruzione umana.   

 

Chi invece ne ha sofferto, e parecchio, è la quercia di Brica, nel comune di Bova, in provincia di Reggio Calabria. La sua storia è un piccolo simbolo di come l’unità d’Italia non sia stata esattamente un grande affare per il Sud. La quercia Brica è della specie castagnata – chiamata così perché le sue ghiande sono commestibili e dolci e, cotte alla brace, hanno un vago sapore di caldarroste. Inoltre maturano intorno a dicembre, quando le ghiande delle querce normali non ci sono più e costituiscono un ottimo pasto sia per i maiali che per gli uomini.

Dalla contrada di Brica fino a castello di Amendolea c’era un ricchissimo bosco, probabilmente piantato dagli antichi romani


Era zona demaniale ed è stata quasi completamente devastata dai piemontesi. Avevano deciso di costruire una ferrovia sulla costa ionica della Calabria e il suo legno era perfetto per le traversine dei binari. I contadini si ribellarono e fu deciso di fare un referendum per stabilire se tagliare o meno questo bosco. Vinse alla grande il NO ma i piemontesi se ne infischiarono e tagliarono lo stesso tantissime querce, lasciando il territorio brullo e degradato ed esposto a frane. Questa di Bova è una delle poche rimaste, silente testimone di tanto scempio. 

 

 

 

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 Foto di Francesco Bevilacqua, per gentile concessione

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CARAVAGGIO A NAPOLI di Stefania Conti – Numero 14 – Maggio 2019

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CARAVAGGIO A            NAPOLI 

 

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provenienti da istituzioni nazionali e internazionali, e di ventidue quadri di artisti napoletani influenzati o, forse è meglio dire, travolti dalla sua forza innovativa.

Come si sa, Caravaggio visse per qualche tempo a Napoli. La sua fama lo aveva preceduto ed ebbe importanti commissioni. Non solo,

è proprio nel capoluogo partenopeo che inaugurò 

un suo nuovo modo di dipingere, 

più tormentato.


Fu una grandissima affermazione, un successo che non solo lo fece conoscere nei circoli culturali più innovativi e ricettivi, ma gli fece guadagnare un bel po’ di soldini. La tela delle Sette opere di Misericordia (che faceva parte del percorso della mostra), eseguita per il Pio Monte, dove ancora si trova, gli verrà pagata ben 400 ducati. Una cifra stratosferica per l’epoca.

Nell’archivio storico del Banco di Napoli – uno scrigno fondamentale per gli storici: contiene 450 anni di storia della città e del regno borbonico – sono conservati 

i documenti che ci fanno vivere istante per istante, quasi fosse un film, 

il momento in cui il giovane Merisi riceverà la somma. 


In un foglietto di carta, Tiberio del Pezzo, economo del pio Monte, dà le disposizioni e le spiegazioni del perché si deve pagare l’onorario. 

“Banco di Pietà, 9 gennaio 1607. A Tiberio del Pezzo ducati 370. et per lui a Michelangelo da Caravaggio – si legge negli antichi bancali -, dissero a compimento di ducati 400, dissero per un pezzo di un quadro che ha depinto per il Monte della Misericordia, in nome del quale esso Tiberio li paga. Et per noi il Banco del Popolo”. Senonché quella mattina il Banco della Pietà non ha in cassa i fondi per liquidare Caravaggio. Quando la storia da grande diventa minuta, quotidiana! 

 

Il pittore era noto per non avere esattamente un buon carattere (ma intanto aveva già ricevuto l’acconto di 30 ducati). Non ci è dato sapere come l’abbia presa, ma non è difficile immaginarlo. Fatto sta che – dopo le proteste dell’artista – per ricevere i soldi, il Banco di Pietà lo manda al Banco del Popolo. Anche di questo evento abbiamo memoria nell’archivio storico del Banco di Napoli.

“Banco di Santa Maria del Popolo. Pagate per noi – annotano i ligi scrivani – 

a Michelangelo da Caravaggio ducati 370 al quale si pagano 

per polizza de Tiberio del Pezzo”.


Siamo sicuri che questa volta l’inquieto pittore se ne andrà soddisfatto. 

 

Ma vogliamo parlarvi anche di un altro quadro. In realtà un mistero, uno dei tanti enigmi che hanno costellato la vita del grande Merisi.

Sempre nell’archivio storico si trova una disposizione di pagamento 

di una cifra altrettanto favolosa per una grandiosa pala d’altare,


questa volta commissionata da un privato, un mercante d’origine balcanica, tal Nicolò Radolavich. L’opera è descritta con molta precisione dai “ragionieri” del Banco.

“6 ottobre 1606. A nicolò radovich ducati 200. E per lui a Michel Angelo Caravaggio dite per il prezzo de una cona de pittura che l’ha da fare et consignare per tutto dicembre prossimo venturo d’altezza palmi 13 e mezzo 

et larghezza di palmi 8 e mezzo”.


Deve raffigurare la Madonna col Bambino, insieme ad un coro di angeli e a una serie di santi, tra cui San Domenico e San Francesco. Ebbene, di questa pala non c’è più traccia. Forse non è mai stata finita, forse è stata distrutta in un tumulto popolare, o tagliata e venduta in più pezzi. O chissà cos’altro.

A oggi l’unico indizio di uno dei primi capolavori partenopei di Caravaggio è contenuto solo nel prezioso archivio storico del Banco di Napoli.

 

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 Photo credit giuseppemasci  © 123RF.com

 

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI Parte III di Francesco Avolio – Maggio 2019

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IL MEZZOGIORNO FRA LINGUE E DIALETTI

Parte III

 

 

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 Correlato parte I

 Correlato parte II

Tutti sanno, più che altro per esperienza diretta, che tra il napoletano e il siciliano ci sono parecchie differenze linguistiche, al punto che è difficile confonderli, anche per una persona che abiti nel profondo Nord e che non abbia mai messo piede da quelle parti.

Se insomma, per chi vive più su dell’Appennino e del Po, l’Italia peninsulare appare spesso come un territorio omogeneo, senza grandi articolazioni interne, tuttavia la consapevolezza di una qualche differenza, anche linguistica, tra le due più note e popolose realtà del Mezzogiorno non può dirsi rara o poco comune.

Ma perché napoletano e siciliano sono diversi? E dove si colloca, nello spazio, 

la transizione dall’una all’altra di queste aree dialettali?


Cerchiamo di rispondere in breve a queste due domande, partendo, per comodità, dalla seconda, che ci dà elementi utili anche per rispondere alla prima.

2 – Il “ponte” calabrese


Uno dei maggiori motivi di interesse della posizione linguistica della Calabria sta nel fatto che essa appare solcata, nella sua interezza, da una serie notevole di “confini” linguistici, e proprio da quelli che distinguono i dialetti meridionali dal siciliano. Vediamoli più da vicino, muovendo da Nord verso Sud (cfr. anche la Fig. 1): 

1) il limite del vocalismo “siciliano” (linea I), che compare, in Calabria, a Sud di un discrimine che va all’incirca da Diamante, sul Tirreno, a Cassano, sullo Jonio (ma che in realtà esiste anche nel basso Cilento, in provincia di Salerno, a Sud di una linea che collega più o meno Ascea a Vallo della Lucania). Si tratta di un sistema di sole cinque vocali accentate, nel quale mancano le vocali chiuse é ed ó, e diversi suoni vocalici latini originariamente distinti si sono fusi tra loro: filu ‘filo’ < FĪLU(M), come nivi ‘neve’ < NĬVE(M) e come tila ‘tela’ < TĒLA(M) (nap. filënévë, télë), ma bbèddha ‘bella’ < BĔLLA(M); luna < LŪNA(M), come cruci ‘croce’ < CRŬCE(M) e suli ‘sole’ < SŌLE(M) (nap. lunë, crócë, sólë), ma mòrta < MŎRTUA(M). Secondo ricostruzioni ormai accettate dalla maggior parte degli studiosi, un simile sistema sarebbe il frutto del prolungato contatto, in epoca altomedievale, tra le varietà dialettali neolatine e il greco bizantino, una lingua che è stata, per secoli, di notevole prestigio e di largo uso in tutta la nostra area, e che presentava, fra l’altro, come il greco moderno, proprio un notevole conguaglio di vari suoni vocalici sulle vocali estreme i e u

2) la vocale finale neutra -ë per la maggior parte delle vocali finali (come abbiamo visto nello scorso numero), che in genere non va oltre la linea Cetraro-Bisignano-Melissa (linea H); 

3) le assimilazioni dei nessi consonantici -ND- e -MB- (quannu ‘quando’, chiummu ‘piombo’), sconosciute a Sud della linea Amantèa-Crotone (linea G); 

4) l’uso di tenere per ‘avere’, non con il valore di ausiliare: tène e spalle larghe ‘ha le spalle larghe’, diffusissimo dal Lazio in giù, è ignoto già a Nicastro e a Catanzaro (dove si dice ndavi i spaddi larghi e simili; linea F); 

5) il passato remoto come tempo perfettivo quasi unico, ormai evidente a Sud di Nicastro e Catanzaro (capiscisti? o capisti? ‘hai capito?’; linea D); 

6) la scarsa popolarità dell’infinito in diversi tipi di frasi (cfr. oltre, § 3), che comincia a Sud della stessa linea (la E); 

7) i dittonghi metafonetici (vedi il numero precedente), ignoti a Sud della linea Vibo Valentia-Stilo (fèrru vs. fiérru, bbòni vs. bbuóni; linea C); 

8) l’uso del possessivo enclitico, nelle prime due persone, con molti nomi di parentela e affinità (fìgghiuma ‘mio figlio’, fràttita ‘tuo fratello’), che raggiunge la piana di Rosarno e la Locride, ma non lo stretto di Messina (dove si dice, alla siciliana, mè figghiu, tò frati ecc.; linea A). 

Uno dei dibattiti dialettologici più vivaci della prima metà del Novecento – che ha contrapposto la scuola tedesca di Gerhard Rohlfs a quella italiana di Carlo Battisti, Giovanni Alessio e Oronzo Parlangèli – ha riguardato la persistenza e i caratteri della grecità in Calabria, del resto ancora testimoniata, con una varietà di greco arcaica ed assai particolare, ma ormai moribonda, in alcuni piccoli centri dell’Aspromonte meridionale (Gallicianò, Chorìo di Roghudi, Bova). Di tale dibattito e di queste residue comunità grecofone ci occuperemo, però, nel prossimo numero.

 

3 – Il “tacco d’Italia”


La disputa sulla persistenza del greco ha coinvolto anche i dialetti del Salento (parlati a Sud della linea Taranto-Brindisi, cfr. Fig. 2), che, come del resto quelli della Calabria meridionale, mostrano non solo elementi fonetici e grammaticali molto simili al siciliano, ma anche, per l’appunto, un fondo lessicale e tratti sintattici di ascendenza ellenica.

 

Anche al centro della penisola salentina, infatti, esiste ancora oggi un’enclave 

di lingua greca, la cosiddetta Grecìa, di cui fanno parte diversi comuni 

della provincia di Lecce (fra i quali Calimèra, Castrignano dei Greci, 

Corigliano d’Otranto, Sternatìa);

 

qui la parlata locale, detta usualmente grico, seppure in regresso anche netto, non è ancora nelle condizioni preagoniche riscontrabili, purtroppo, in Aspromonte. Fra i costrutti più sicuramente imputabili all’influsso e/o al diretto contatto con il greco, possiamo ricordare la mancanza di avverbi di luogo atoni corrispondenti agli italiani ci e vi (salentino sciamu crai, calabrese merid. jamu dumani ‘ci andremo domani’) e la già vista, scarsa popolarità dell’infinito, che, dopo verbi esprimenti volontà, intenzione, movimento viene sostituito da cu (erede di QUOD) nel Salento, o da mu, mi, ma (dal lat. MODO) in Calabria e nel Messinese, più il verbo al presente indicativo, coniugato in accordo con il soggetto della reggente (cu e mu, insomma, hanno le stesse funzioni che ha in greco (i)nà): nel Salento ulìa cu ssacciu ‘volevo sapere’ [lett. ‘volevo che so’], m’aggiu dimenticatu cu ddumandu ‘mi sono dimenticato di chiedere’, in Calabria vògghiu mu bbìu ‘voglio bere’ (gr. thèlo nà pìo), jìru mi jòcanu ‘sono andati a giocare’, pinzàu mi parti ‘ha pensato di partire’ ecc. Voci salentine del lessico quotidiano, di carattere conservativo, sono fitu ‘trottola’, sòcru ‘suocero’, spècchia ‘mucchio di sassi’, truddhu ‘trullo, casa rurale con copertura in pietra a falsa cupola’, nazzicare ‘cullare’ e altre.

4 – Le parlate siciliane

 

E torniamo ora a rispondere alla prima delle nostre due domande iniziali: perché il tipo linguistico siciliano è così particolare? Uno dei primi dati di fondo da sottolineare è che

 

i dialetti della Sicilia non sono facilmente classificabili, dato che molti fenomeni 

vi si presentano con una distribuzione “a macchie di leopardo”,


conseguenza, fra l’altro, della particolari vicende storico-demografiche dell’isola, caratterizzate da frequenti calamità naturali (terremoti), immigrazioni e anche rimescolamenti e fusioni di popolazioni diverse. 

Una delle poche distinzioni chiare, individuata nel 1951 dallo studioso 

Giorgio Piccitto, è rappresentata dalla diffusione del già visto 

dittongamento metafonetico di -è- ed -ò- ,


per influsso dei suoni originari latini -I ed -U in fine di parola (cfr. Fig. 3 e quanto detto nel numero precedente): questo, assente nelle maggior parte delle parlate occidentali, dal Trapanese all’Agrigentino occidentale (vèntu ‘vento’, pèri ‘piedi’), nonché nel Messinese e in parte del Catanese, è invece ben noto a molte di quelle centrali (Enna, Caltanissetta) e nella cuspide Sud-orientale (vièntu, pièri e simm.). Palermo, con una lunga fascia costiera circostante, che va all’incirca da Terrasini a Cefalù e a Corleone, presenta invece dittonghi non dipendenti dalla vocale finale, come in cuòsa ‘cosa’ e fièšti ‘feste’. I dittonghi metafonetici sono pure assenti in tutta la Calabria meridionale e nel basso Salento, mentre Lecce e Brindisi conoscono l’esito dittongante in –– da – originaria (bbuènu, bbuèni ‘buono, -i’, ma bbòna, bbòne ‘buona, -e’). 

Secondo gli studi condotti negli ultimi quarant’anni da Giovanni Ruffino, fra i pochi fatti tipici delle parlate della Sicilia nord-orientale ci sono la pronuncia rafforzata di b- iniziale (bbucca anziché vucca ‘bocca’), la conservazione dei nessi -ND- e -MB- (quandu ‘quando’, palùmba ‘colomba’, piuttosto che quannu, palùmma) e grecismi lessicali come armacìa ‘muro a secco’ < gr. ermakìa, còna ‘edicola sacra’ < gr. èikon, grasta ‘vaso’ < gr. gàstra, salamìra ‘geco’ < gr. samamìthion

I dialetti del centro dell’isola, ritenuti in genere più conservativi (ma non sempre ciò è vero), appaiono soprattutto caratterizzati dal passaggio di –l- a –n– prima di consonante dentale o palatale (antu ‘alto’, fanci ‘falce’), da quello di nf- a mp– (mpilàri ‘infilare’, mpurnàri ‘infornare’) e da verbi come riiri ‘sollevare’ < ERIGERE, sdruvigliàrisi ‘svegliarsi’, tiddhicàri ‘solleticare’. 

La Sicilia occidentale, infine, si distingue dalle altre zone dell’isola per la presenza di numerosi arabismi, come caddhu ‘secchio’ < ar. qādūs, casiria ‘vaso da fiori’ < ar. qasrīya, e grecismi come mira ‘cippo confinale’ < gr. mòira. Altri termini di origine araba, di più ampia estensione (spesso sono presenti anche in Calabria) e riguardanti soprattutto l’agricoltura, sono poi, tra i tanti, cirana, giuranna ‘raganella, rana’ < ar. ğarān, gèbbia ‘grande vasca’ < ar. ğābiyah, màrgiu ‘acquitrino, terreno non coltivato’ < ar. marǵ, źźagarèddha ‘nastro’ < ar. zahar. 

Dal punto di vista lessicale, i dialetti siciliani, oltre a mostrare interessanti francesismi (custurèri ‘sarto’ < fr. ant. costurier, racìna ‘uva’ < fr. raisin) e ispanismi (criata ‘serva, domestica’ < sp. criada, ormai arcaico, carnizzèri ‘macellaio’ < sp. carnicer, nella zona di Palermo), appaiono dotati, nel loro complesso, di un certo grado di innovatività rispetto alla maggior parte del Mezzogiorno (compresi il Salento e la Calabria settentrionale). Ma su questo dato di fondo – che è, in effetti, alquanto sorprendente, ed ha suscitato anch’esso vivaci discussioni e polemiche – ritorneremo nel prossimo numero.

 

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Le tre carte geolinguistche sono tratte da: F. Avolio, Bommèspr∂. Profilo linguistico dell’Italia centro-meridionale, San Severo, Gerni Editori, 1995, pp. 142-144. 

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 Correlato parte IV

 

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ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA di Fernando Popoli – Numero 14 – Maggio 2019

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ANTONIO PETITO IL RE DEI PULCINELLA

 

ma quello che viene ricordato come il più grande interprete in assoluto è Antonio Petito, un attore e commediografo che fu attivo nell’ottocento e conseguì un successo strepitoso per la sua recitazione.

Antonio, detto Totonno o’ pazzo per la sua esuberanza, era figlio d’arte, il padre Salvatore e la madre Donna Peppa, al secolo Maria Giuseppa Errico, avevano aperto un teatro in una baracca dove rappresentavano i Reali di Francia per il divertimento del popolo napoletano che accorreva numeroso per il gran divertimento. 
 

Il giovane Antonio debuttò all’età di nove anni e gli fu ceduta la maschera di Pulcinella dal padre in giovane età nel teatro San Carlino dove recitava in quegli anni. Modificò le caratteristiche del personaggio che, da popolano, diventò borghese, quasi aristocratico, indossando sulla veste bianca una redingote e un cappello a cilindro, come i veri signori, mettendo da parte il coppolone, quel lungo e morbido copricapo tipico di tutti i suoi predecessori.

 

Totonno o’ pazzo non parla solo in dialetto ma inserisce nelle sue battute 

frasi italiane e francesi ostentando una possibile aristocrazia, 

modifica il personaggio elevandolo di rango 

per dargli una dimensione accettabile 

da tutte le classi sociali.


È umano e non solo buffone, a volte triste e non sempre allegro, sentimentale e anche cialtrone, ha un repertorio vastissimo di battute che incantano il pubblico, pronto a ridere e a commuoversi alle sue performance. La grande tradizione della Maschera viene trasformata e rielaborata. Le sue origini, come si sa, sono antichissime, c’è chi le fa risalire addirittura alle atellane e al personaggio di Maccus, altri lo datano nel Seicento ad opera dell’attore Silvio Fiorillo ma quella che è rimasta maggiormente nella storia del teatro napoletano è di Petito. Totonno o’pazzo non fu solo attore ma anche brillante commediografo,

i suoi copioni sono pieni di errori, sono scritti male sotto l’aspetto grammaticale 
ma sono efficienti, hanno il senso del teatro, della recitazione, della battuta 
e riscuotono successo, applausi a scena aperta, ovazioni.

Un consenso unanime del pubblico che li considera divertentissimi. Tra le sue opere vanno ricordate soprattutto quelle di sfondo sociale:
La lotteria alfabetica, Tre banche a ‘o treciento pe mille, Nu studio ‘e spiritismo pe fa turnà li muorte ‘a l’atu munno. Petito è senz’altro una delle figure più importanti del teatro napoletano dell’Ottocento. Le sue commedie, considerate da molti dopo la sua morte solo dei canovacci, furono in seguito rivalutate e capite da Raffaele Viviani, un altro grande della commedia napoletana, che le riscoprì mettendo in scena So’ muorto e m’hanno fatto turna’ a nascere con il titolo di Siamo Tutti fratelli.
 

Anche Eduardo Scarpetta come Eduardo De Filippo presero spunti e suggerimenti dal Pulcinella di Petito proponendo il personaggio di Felice Sciosciammocca.

Dopo l’interpretazione magistrale di un Pulcinella diverso, ad un certo punto della sua carriera di attore, Petito acquisì un’altra veste: si tolse la maschera per affrontare un nuovo personaggio, tutto suo, quello di
Pascariello col quale continuò a recitare sino alla fine dei suoi giorni alternando i due personaggi. Morì in teatro recitando, la sera del 24 marzo 1876, si sentì male dietro le quinte durante lo spettacolo e fu portato agonizzante sul palcoscenico dove esalò l’ultimo respiro tra gli applausi lunghissimi del suo pubblico che intese così tributargli un ultimo saluto.

È ricordato nella storia del teatro come il più grande interprete di Pulecenella, 
mai eguagliato nel tempo.

Nel 1982 la RAI gli dedicò uno sceneggiato televisivo in sette puntate:
Petito story scritto e sceneggiato da Gennaro Magliulo ed Ettore Massarese.
 
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DONNE E TRADIZIONE MUSICALE ORALE di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 14 – Maggio 2019

LE DONNE E LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA

PARTE I

 

 

La musica e i canti tradizionali delle, con e per le donne calabresi e lucane, troppo spesso relegate nel ruolo di «madre e angelo del focolare domestico», in un panorama sonoro considerato, evidentemente, «muto» e «immobile»1.     

La ricchezza culturale nel complesso mosaico di popoli, calabrese e lucano, ha determinato profonde diversificazioni nelle espressioni musicali e coreutiche. Attraverso i canti d’amore, come nel caso citato delle comunità ellenofone, o nella danza, ad esempio, si percepisce, la differenza dei ruoli di genere all’interno della specifica comunità. 

 

Siamo in presenza, infatti, di culture aurali fra le più copiose del Mediterraneo, che si tramandano da bocca a orecchio, mediante complessi e impalpabili meccanismi, ricorrendo alla ri-elaborazione creativa di codici e grammatiche superindividuali. Tali codici si esprimono anche al femminile in tutto il ciclo della vita: nelle ninnenanne, nei canti d’amore e di sdegno2, nelle raffinate pratiche di canto polivocale, nei repertori paraliturgici della festa e della fede, nelle danze e nei canti della (e sulla) emigrazione; nelle rapsodie epiche e, persino, nel pianto rituale. 1Magrini T., 1986.

 

In questo variegato e ricco panorama, le donne si stagliano 

quali protagoniste straordinarie della Sapienza popolare. 


Nel seguire l’articolazione ciclica dei canti che accompagnano la vita, invadiamo lo spazio domestico più intimo, già richiamato. Al suo interno risuona, con la sua melopea ipnotica di versi, suoni e movimento, la figura materna, che conserva e trasmette valori e Saperi. 

 

Le ninnenanne, così come le filastrocche e altri giochi e rime infantili, sono componimenti a gestione prevalentemente femminile. Spesso fondati sulle tecniche del nonsense, dell’onomatopeia, sono adattati (e ri-composti) nella specifica performance, con le tecniche dell’oralità: stereotipie e cellule-tipo; brevi incisi o persino interi schemi-traccia con epiteti formulaici, rielaborati secondo esigenze di rima e di ritmo, accompagnati dal moto iterativo del corpo, che placa e sviluppa anche il senso della coordinazione motoria.

Le Prefiche/Reputatrici in Calabria e Basilicata 


“Bene fu osservato […], che la donna fin dai tempi remotissimi dell’antichità, ebbe la parte principale nella pietà verso i defunti”
3. Le prefiche non si estinsero col paganesimo, ma perdurarono nel medioevo, col nome di reputantes, reputatrices, cantatrices o computatrices, nonostante i divieti nelle persecuzioni delle autorità civili ed ecclesiastiche, poiché bollate quali sopravvivenze di pagana empietà.

Occorre dire che i modi della crisi del cordoglio nel mondo rurale calabrese 

e lucano si avvicinano sensibilmente ai modi spettacolari 

riscontrabili nel mondo antico,


serbandone con assoluta fedeltà alcuni tratti, compresi i momenti performativi, che vedono donne vestite di nero strapparsi i capelli ed intonare lamenti funebri per e sul defunto, con la premura di farlo per bene, di saper piangere, poiché non è meno importante il modo in cui è eseguito.

 

Il caso di Longobucco 


Ancora oggi, nel versante jonico della Provincia di Cosenza, è molto diffuso l’antico adagio: “Chi ti vuonn’ c̣hiàngere quaṭtru lannivucchise”4: le prefiche/reputatrici per antonomasia! Tale fama è giustificata dalla constatazione che, in passato, tale attività aveva raggiunto livelli particolarmente raffinati nella comunità di Longobucco, per quel che concerne tecniche esecutive e performative. L’intonazione si sviluppava secondo una forma canonica, iniziando dal grave, per poi muoversi verso l’acuto, seppur in un ambitus melodico piuttosto ridotto, cromaticamente o in glissando, per poi ritornare verso il grave.

 

In ultimo, un gemito più acuto: un urlo lacerato, di disperazione assoluta.


Il corpo era ripiegato su stesso e si abbandonava ad un dondolio cadenzato (come per le ninnenanne), accompagnando col movimento il canto/nenia; i capelli erano sciolti, per poter dissimulare l’atto di strapparli per la disperazione (anche se, in taluni casi, ciò avveniva veramente). 

 

Oggi, mentre scrivo queste poche righe, il rintocco di campane a morto m’informa del passaggio di un corteo funebre. Probabilmente suggestionato dalle recenti letture di saggi e testi afferenti a questo tema, non posso fare a meno di concentrarmi sul panorama sonoro che mi circonda. Il corteo è di tipo tradizionale: banda, corone di fiori e lamentazioni meste e a mezza voce, lungo tutto il tragitto, che si snoda, partendo dalla casa dell’estinto, verso la chiesa.

Prima dell’ingresso, un urlo disperato della vedova del de cuis 

squarcia il silenzio del piccolo borgo nel quale vivo e lavoro.


Il pianto rituale, almeno in Calabria, non è del tutto scomparso! 

Il nero è il suo colore. Il lamento la sua voce. L’urlo lacerato/lacerante il suo sfogo.

 

 

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1 «Soggetto desiderante e oggetto desiderato […] da una parte l’esibizione narcisistica dell’uomo, che canta, si qualifica e qualifica, e, dall’altra parte, il nascondimento uditivo della donna, che è esclusa dal canto, non si qualifica, ma è qualificata» Crupi, P. 1982, a proposito delle donne grecaniche.

 

2 Magrini T., 1986.

 

3 Lumini A., Rist. Anastatica, 1989.

 

«Possano piangerti quattro donne longobucchesi». Quattro perché, nella “scena” del funerale, queste si posizionavano, a coppie, alla testa e ai piedi del defunto.

 

Bibliografia 

 

Accattatis L., Vocabolario del dialetto calabrese (s.v.), Cosenza, Nigro, 1895. 

 

Altimari F., G Nanci, La ballata del fratello morto e la cavalcata fantastica, in Giséle Vanhese (a cura di), Eminescu plutonico: Poetica del fantastico Arcavacata di Rende (CS), Università della Calabria, Centro Editoriale e Librario, 2007. 

 

Angelini P., Ernesto de Martino, Roma, Carocci, 2008. 

 

Barrio G., Antichità e luoghi della Calabria, rist., Cosenza, Brenner, 1979. 

 

Brienza R., (a cura di), Mondo popolare e magia in Lucania, Roma-Matera, Basilicata editrice, 1975. 

 

Casolo F., Melica S., Il corpo che parla: Comunicazione ed espressività nel movimento umano, Milano. Vita e Pensiero, 2005. 

 

Crupi P., Roghudi, un’isola grecanica asportata, Pellegrini, Cosenza, 1982.  

 

de Martino E., Sud e magia, Roma, Donzelli, 2015. 

 

de Martino E., Morte e pianto rituale: Dal lamento funebre antico al pianto di Mari,. Torino, Universale Bollati Boringhieri, 2008. 

 

De Simone R., Il gesto somatico ritualizzato, in De Simone R., Rossi A. (a cura di), Carnevale si chiamava Vincenzo, Roma, De Luca, 1977. 

 

Del Giudice L., Ninna-nanna-nonsense? Fears, Dreams, and Falling in the Italian Lullaby, in Oral Tradition, 3/3, 1988, 270-29. 

 

Durante R., La donna nel canto popolare. La ninna nanna, Napoli, Editoriale Scientifica, 2002.

Lumini A., Studi Calabresi, Cosenza, Brenner, Rist. 1989. 

 

Magrini T., Canti d’amore e di sdegno. Funzioni e dinamiche psichiche della cultura orale, Milano, Franco Angeli, 1986. 

 

Saffioti T. (a cura di), Ninne nanne: Condizione femminile, paura e gioco verbale nella tradizione, Milano, Emme, 1981. 

 

Zumthor P., La presenza della voce: Introduzione alla poesia orale, Bologna, Il Mulino, 1984.

 

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TRENT’ANNI DI TRATTURO di Pierluigi Giorgio – Numero 14 – Maggio 2019

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TRENT’ANNI DI TRATTURO 

 

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Chi dice loro che stanno arrivando? Chi agli uccelli migratori ricorda il tempo di andare? E chi il percorso da seguire?

Eppure c’è un fermento da giorni in attesa dell’uomo che apra i cancelli: il segnale è nell’aria e preme sugli zoccoli, stimola i muggiti, morde l’impazienza…

 

Cent’ottanta chilometri da macinare di buona lena, recuperare di notte in quel tempo che resta e ripartire al mattino più baldanzose di prima nonostante la strada alle spalle:

molta strada, poco tratturo purtroppo! Ma a buon conto la meta s’avvicina, 

la si riconosce dai profumi nell’aria, dal clima più temperato, adeguato, 

dal giallo abbagliante e fragrante delle ginestre, dal rosso prorompente 

dei papaveri, dalla grassa verde erba a portata di bocca: ogni giorno 

che passa, la Puglia s’allontana, gli alpeggi della Montagnola 

di Frosolone sono sempre più a vista


Così è per gli uomini – ma quanto dormono in fondo? – Alzarsi più stanchi di prima, riunire la mandria, avviarla, contenerla nel percorso sempre più sminuzzato, proteggerla dalle auto in agguato, raccattarne qualcuna all’indietro quando si perdono, contare i giorni e le ore, i passi dietro passi, buttare giù in fretta un boccone – idea di una cena – crollare a terra ma solo a metà, con un occhio vigile al bestiame, “il capitale”, un fischio ai cani e sognare al ritorno di tuffarsi in quel tenero, agognato conforto di un abbraccio… padri, madri, figli, mogli: lande di terra e terra a dividerli per sei lunghi mesi all’anno, con gli occhi al tratturo, la lunga scia verde da seguire, finché si può, con lo sguardo all’orizzonte sin lì dove scompare, dove smarrisce nel cielo. La lunga via del cuore, simbolico cordone ombelicale da recidere mai, che unisce anime, emozioni, malinconie, desideri. Almeno lo si pensa, lo si deve pensare, per lenire la mancanza. 

 

Una volta scrissi: “Gli uomini dei Colantuono sono gente dura, determinata, forgiata ad ogni sforzo… da quando masticarono pane duro, patimento, sacrificio e un’infinità imprecisata di passi. Hanno nel petto sangue sannita e nel sangue il latte dei pascoli.

Sono avari di parole, parole non dette: contano le bestie, ne conoscono i nomi; contano i secchietti di latte, i formaggi, le albe e i tramonti; contano i passi più lenti 

e malinconici in autunno, più spediti e cadenzati in primavera 

a ritmo allegro come il battito dei loro cuori.


Ascoltano il vento e ne traggono auspici. Guardano le stelle e si perdono negli spazi, in quelle infinite notti d’addiaccio dei bivacchi… Gli occhi dei Colantuono scrutano il tratturo, quel filo infinito che li lega al passato, da sempre. E così si spera possa esser per sempre; anche se poi non sai se più ci credono… Negli spazi coltivati vedono il presente; nei risvolti incatramati dei dossi, nelle scie asfaltate che rubano il tracciato, nelle poste in Puglia svanite, leggono malinconici il futuro. Gli uomini dei Colantuono sono caparbi, testardi, tenaci, un po’ incoscienti e un po’ poeti.

La sanno la storia che le donne raccontano ai bimbi nelle lunghe notti d’autunno, quando i rami scricchiolano al vento e gli esseri migratori s’involano per altri lidi. Storia di Dio che creò i tratturi per far migrare le bestie, che altrimenti 

sarebbero morte di fame, freddo e stenti… 


Le donne…. Sì, le donne dei Colantuono, sono donne forti, da quando i loro uomini, gambe agili su per tratturi e quattro stracci in spalla ai primi freddi autunnali raccolsero la mandria e dal Molise, la guidarono in Puglia a svernare nei fertili pianori del Tavoliere Le donne della famiglia Colantuono sono donne sagge. A loro restò l’organizzazione della casa, la cura dei piccoli, le decisioni da prendere senza il conforto di consultar mariti. Sono pazienti, sanno attendere, centellinare i mesi, giorni, gli attimi che li dividono, che li separano dal ritorno dei cari – padri, sposi, figli, quelli più grandi. Guardano l’antica pista verde, la lunga, larga via del cuore, e sanno che l’altra parte di sé è al di là di quella scia: da sempre.”

Storia del passato. Questa era la transumanza di allora, quella che ebbi il privilegio 

di vivere con la famiglia dei Colantuono nel 1989 e di portarla a conoscenza 

dei più (Maurizio Costanzo compreso) in racconti zeppi 

di cuore e parole, articoli su pagine nazionali,


il primo servizio fotografico completo su di loro e ben quattro documentari: “Mal di Tratturo”, “La Lunga Via Verde”, “Artegiani: con le mani dell’Uomo”, “La Lunga Via del Cuore”. Sino a conferir loro il “Premio Internazionale La Traglia – Etnie e Comunità” nel 2016 a Jelsi. Conoscenza e visibilità che hanno spinto tanta gente da allora – a volte convinti assertori della difesa dei tratturi, stranieri, giornalisti, film-maker da tutto il mondo – ad incontrare i Colantuono, a condividere annualmente, almeno in parte, un’esperienza che almeno una volta nella vita andrebbe fatta – che i politici dovrebbero fare per toccare con mano le miserande condizioni tratturali e le fatiche dei transumanti; e non solo “presenziando agli arrivi” e benedicendo con affettata compiacenza! 

 

Carmelina Colantuono, l’ormai citata e con merito “cowgirl” in Italia, Europa ed oltreoceano, nipote di zì Felice Colantuono, il patriarca, era una giovanissima donna quando la conobbi, ancora con un futuro da decifrare, al pari dei fratelli e cugini allora adolescenti o comunque giovanissimi: continuare o fermarsi per sempre? Forse neppure l’anziano nonno avrebbe mai potuto immaginare che proprio una donna, questa intraprendente nipote – che da ragazza con malinconia e senso d’ingiustizia vedeva partire solo gli uomini della famiglia – si sarebbe un giorno rimboccata le maniche e da lì a poco avrebbe raccolto e tirato le redini di un cotal “carrozzone”.

Oggi la transumanza dei Colantuono non è più quella d’allora, pur sempre faticosa 

e impegnativa nonostante il tragitto non più a piedi ma a cavallo, i supporti logistici,

 i cellulari. Ma che non svanisca la magia, che non muoia mai il sogno! 

La transumanza è un sentimento. La transumanza per me è poesia!


Una volta Vittorio Savini scrisse, in riferimento agli Indiani d’America: “Quando un sogno muore, non è sconfitto chi sognava, ma chi ha ucciso quel sogno: è il sogno di una vita diversa, che non è il rifiuto del frigorifero o della penicillina, ma di quel modo di pensare che non ci fa mai sentire parte di qualcosa, che ci fa agire senza la dignità e l’orgoglio, perché si tratta di due impicci lungo la strada della carriera e del denaro”.

 

In merito all’andamento odierno, va dato inoltre atto a Nicola Di Niro, Direttore dell’Agenzia per lo Sviluppo Rurale e responsabile Moligal del progetto di cooperazione transnazionale, di aver saputo accogliere alla grande il testimone di quel mio inizio, di quell’intuito, con capacità organizzativa e visione ampia e concreta, di proiezione e “gemellaggio” europeo verso altre realtà internazionali consimili,

sino all’auspicabile approvazione iniziata con la candidatura della transumanza 

quale “patrimonio culturale Unesco”.


Un passo importante, un riconoscimento decisivo, che dovrà necessariamente e di conseguenza portare al recupero e riutilizzo di una buona parte dei tratturi molisani (turismo, nuove occasioni d’impegno lavorativo…) dando la sveglia agli Enti locali preposti, in realtà tutt’ora – nonostante i proclami – mellifluamente dormienti. Il tratturo, è un unicum ormai solo molisano! C’è necessità di megafoni e trombe per farlo capire?

Dunque eccomi qui! Trent’anni dopo ho voluto rivivere quell’esperienza 

con i Colantuono, con me sempre affettuosa riconoscente famiglia;


constatare tutta la loro tenacia e pacatezza, l’accoglienza nei riguardi di gente che ti arriva anno per anno sempre più numerosa ma, molto sovente, creando disagio, all’improvviso – a volte maldestramente senza preavviso: centinaia!- e a cui bisogna offrire una branda, fornirla di cibo, dedicar loro del tempo, nonostante la fatica, le preoccupazioni, la concentrazione sui compiti precipui.

 

Ed io? Perché l’ho fatto? Perché continuo ad esserci? Perché a piedi, nonostante non sia affatto facile appaiarsi e sostenere il ritmo dei cavalli e della mandria? E’ forse un omaggio agli avi, una ricerca di simbiosi con la terra, con quelle antiche tracce, con quell’antica storia. E poi è un viaggio dentro di me che porta a comprendere quanto è rimasto nelle pieghe del cuore, quanto è cambiato. Una sorta di appuntamento empatico; un movimento che parte da un’invisibile centro interiore: un pellegrinaggio – al di là dell’accezione religiosa – ove sacralità, devozione e ritualità sussistono all’interno e all’esterno del proprio intimo, segreto scrigno.

Alla fine del quarto giorno, alla fine del viaggio, il contrasto emotivo è palpabile: 

alle spalle il ricordo, felicità dell’arrivo; domani, fra qualche giorno, 

malinconia del termine…


Rammento -trent’anni fa, appena giunti a destinazione – di aver “fotografato”, con parole vergate di getto, l’emozione del vecchio capostipite, zì Felice Colantuono, la cui baldanza verbale si stemperava sempre più in prossimità della meta: “Sarebbe stato l’ultimo tuo tratturo?.. Sì, certo la tua casa era lì nel tuo paese, ma anche lì, sotto le stelle. E’ proprio vero che quando uno ha fatto il tratturo, non sa più camminare su altre strade?” 

 

Nelle frasi dedicatemi dai Colantuono, che mi hanno donato la sorpresa all’arrivo, di una festa con tanto di torta e spumante per i miei trent’anni di frequentazione (1989/2019), come negli sguardi, i sorrisi, i gesti dei componenti della famiglia, ho avvertito tutto l’affetto, la riconoscenza, la gratitudine, la familiarità..

Grazie di cuore. Un cuore verde, come i nostri meravigliosi, unici tratturi!


Ed ora, chiedo a me stesso, di tutto ciò, Pierluigi, che ne farai?… “Ora mi cerco un angolo di cielo, mi siedo e gli racconto tutto…”

 

 

 

 

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