DONNE E TRADIZIONE MUSICALE ORALE di Innocenzo Cosimo de Gaudio – Numero 14 – Maggio 2019
LE DONNE E LA MUSICA DI TRADIZIONE ORALE IN CALABRIA E LUCANIA
PARTE I
La musica e i canti tradizionali delle, con e per le donne calabresi e lucane, troppo spesso relegate nel ruolo di «madre e angelo del focolare domestico», in un panorama sonoro considerato, evidentemente, «muto» e «immobile»1.
La ricchezza culturale nel complesso mosaico di popoli, calabrese e lucano, ha determinato profonde diversificazioni nelle espressioni musicali e coreutiche. Attraverso i canti d’amore, come nel caso citato delle comunità ellenofone, o nella danza, ad esempio, si percepisce, la differenza dei ruoli di genere all’interno della specifica comunità.
Siamo in presenza, infatti, di culture aurali fra le più copiose del Mediterraneo, che si tramandano da bocca a orecchio, mediante complessi e impalpabili meccanismi, ricorrendo alla ri-elaborazione creativa di codici e grammatiche superindividuali. Tali codici si esprimono anche al femminile in tutto il ciclo della vita: nelle ninnenanne, nei canti d’amore e di sdegno2, nelle raffinate pratiche di canto polivocale, nei repertori paraliturgici della festa e della fede, nelle danze e nei canti della (e sulla) emigrazione; nelle rapsodie epiche e, persino, nel pianto rituale. 1Magrini T., 1986.
In questo variegato e ricco panorama, le donne si stagliano
quali protagoniste straordinarie della Sapienza popolare.
Nel seguire l’articolazione ciclica dei canti che accompagnano la vita, invadiamo lo spazio domestico più intimo, già richiamato. Al suo interno risuona, con la sua melopea ipnotica di versi, suoni e movimento, la figura materna, che conserva e trasmette valori e Saperi.
Le ninnenanne, così come le filastrocche e altri giochi e rime infantili, sono componimenti a gestione prevalentemente femminile. Spesso fondati sulle tecniche del nonsense, dell’onomatopeia, sono adattati (e ri-composti) nella specifica performance, con le tecniche dell’oralità: stereotipie e cellule-tipo; brevi incisi o persino interi schemi-traccia con epiteti formulaici, rielaborati secondo esigenze di rima e di ritmo, accompagnati dal moto iterativo del corpo, che placa e sviluppa anche il senso della coordinazione motoria.
Le Prefiche/Reputatrici in Calabria e Basilicata
“Bene fu osservato […], che la donna fin dai tempi remotissimi dell’antichità, ebbe la parte principale nella pietà verso i defunti”3. Le prefiche non si estinsero col paganesimo, ma perdurarono nel medioevo, col nome di reputantes, reputatrices, cantatrices o computatrices, nonostante i divieti nelle persecuzioni delle autorità civili ed ecclesiastiche, poiché bollate quali sopravvivenze di pagana empietà.
Occorre dire che i modi della crisi del cordoglio nel mondo rurale calabrese
e lucano si avvicinano sensibilmente ai modi spettacolari
riscontrabili nel mondo antico,
serbandone con assoluta fedeltà alcuni tratti, compresi i momenti performativi, che vedono donne vestite di nero strapparsi i capelli ed intonare lamenti funebri per e sul defunto, con la premura di farlo per bene, di saper piangere, poiché non è meno importante il modo in cui è eseguito.
Il caso di Longobucco
Ancora oggi, nel versante jonico della Provincia di Cosenza, è molto diffuso l’antico adagio: “Chi ti vuonn’ c̣hiàngere quaṭtru lannivucchise”4: le prefiche/reputatrici per antonomasia! Tale fama è giustificata dalla constatazione che, in passato, tale attività aveva raggiunto livelli particolarmente raffinati nella comunità di Longobucco, per quel che concerne tecniche esecutive e performative. L’intonazione si sviluppava secondo una forma canonica, iniziando dal grave, per poi muoversi verso l’acuto, seppur in un ambitus melodico piuttosto ridotto, cromaticamente o in glissando, per poi ritornare verso il grave.
In ultimo, un gemito più acuto: un urlo lacerato, di disperazione assoluta.
Il corpo era ripiegato su stesso e si abbandonava ad un dondolio cadenzato (come per le ninnenanne), accompagnando col movimento il canto/nenia; i capelli erano sciolti, per poter dissimulare l’atto di strapparli per la disperazione (anche se, in taluni casi, ciò avveniva veramente).
Oggi, mentre scrivo queste poche righe, il rintocco di campane a morto m’informa del passaggio di un corteo funebre. Probabilmente suggestionato dalle recenti letture di saggi e testi afferenti a questo tema, non posso fare a meno di concentrarmi sul panorama sonoro che mi circonda. Il corteo è di tipo tradizionale: banda, corone di fiori e lamentazioni meste e a mezza voce, lungo tutto il tragitto, che si snoda, partendo dalla casa dell’estinto, verso la chiesa.
Prima dell’ingresso, un urlo disperato della vedova del de cuis
squarcia il silenzio del piccolo borgo nel quale vivo e lavoro.
Il pianto rituale, almeno in Calabria, non è del tutto scomparso!
Il nero è il suo colore. Il lamento la sua voce. L’urlo lacerato/lacerante il suo sfogo.
1 «Soggetto desiderante e oggetto desiderato […] da una parte l’esibizione narcisistica dell’uomo, che canta, si qualifica e qualifica, e, dall’altra parte, il nascondimento uditivo della donna, che è esclusa dal canto, non si qualifica, ma è qualificata» Crupi, P. 1982, a proposito delle donne grecaniche.
2 Magrini T., 1986.
3 Lumini A., Rist. Anastatica, 1989.
4 «Possano piangerti quattro donne longobucchesi». Quattro perché, nella “scena” del funerale, queste si posizionavano, a coppie, alla testa e ai piedi del defunto.
Bibliografia
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