ORO DI PUGLIA: LA PIETRA LECCESE di Giusto Puri Purini – Numero 9 – Dicembre 2017

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ORO DI  PUGLIA:  LA PIETRA LECCESE

 

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«Neglette, e quasi molli in ampia massa,
le pietre a Lecce crea l’alma Natura:
ma poiché son rescise, in loro passa virtute,
che le pregia, e che l’indura:
mirabili a vederle, ò se vi si lassa
scelti lavor la dedala scultura,
ò se ne fanno i dorici Architetti
gran frontespitij con superbi aspetti».

(Ascanio Grandi, I fasti sacri, 1635)

 

nella Puglia

esistenti sotto svariate forme e combinazioni chimiche, affioranti e non, dalla piana ai modesti rilievi, si è presto associata ai destini delle popolazioni quivi giunte da più parti, ma soprattutto dal Mediterraneo orientale. 

 

Furono Japigi, Messapi, fino alla conquista romana, a scavare
ed utilizzare queste pietre tagliate a misura, a seconda della durezza
ed impiegarle all’inizio, nella realizzazione di antichi simboli cosmici, quali Dolmen e Menhir, con lastre e colonne di grandi dimensioni.

 

Le parti più dure e compatte, di quelle tante varietà che il suolo offriva, trasformarono poi l’Habitat, dalle grotte alle costruzioni lignee ed infine alla pietra. Oggi quel materiale, estratto in cave di grande, media e piccola dimensione come nei piccoli appezzamenti contadini, marca definitivamente il territorio della Puglia ed in particolare del basso Salento. Lecce, mitica città del sud Italia, ne fu il centro: il suo nome nasce dalla sovrapposizione di una lupa (Lupia in latino) e dell’Ilex (il Leccio), entrambi raffigurati nello stemma della città, a simboleggiare l’uno la Civiltà romana, l’altro i grandi boschi di lecci che anticamente coprivano quelle terre. Lecce, anche il luogo dove i calcaridi affioravano nella piana, come una gigantesca vena. All’origine fu Sybar, città Messapica, diventando Lupiae dopo la conquista romana; ma fu solo dall’arrivo dei Normanni (nell’XI secolo), che vi trasferirono la capitale e la loro corte e ove nacque Tancredi, figlio di Ruggero III, a svilupparsi come grande centro, diventando nel tempo quella meravigliosa città che oggi vediamo. 

 

Il segreto fu, dunque, quell’immane blocco di Leccisu (la Pietra leccese), la parte più pura dei calcaridi, cangiante di tonalità a seconda della luce, in una infinita quantità di toni e sottotoni del giallo e soprattutto resistente al tempo ed alle intemperie. 

Il miracolo, quindi, di una pietra che, esposta all’aria e messa in opera, si compatta e solidifica. L’Oro di Puglia, affiorante in superficie, si estendeva da Lecce fino a Corigliano d’Otranto, Melpignano, Maglie e Cursi. Gli Aragonesi, durante il Regno di Napoli, ne fecero uno dei centri più importanti del Mediterraneo, costruendo Castelli, Infrastrutture, Palazzi, Masserie e Torri di difesa fortificate. Si diede libero sfogo all’uso soprattutto dei calcari, in dimensioni massicce, alternando nelle strutture portanti, realizzate con perizia e qualità artigianale, materiali compatti di varie gradazioni. Lo conferma, oggi, l’eccellente stato di conservazione di molte opere.  

 

Con gli spagnoli, iniziò anche la costruzione di molte Chiese, a fare
da contraltare alle imponenti architetture guerresche; ed è qui
che iniziò l’avventura di quel meraviglioso Barocco Leccese,

 

che ammiriamo oggi, ricco di fregi, balconi, estradossi, infradossi, volute, sculture grottesche, rosoni, significati esoterici, che l’infinita malleabilità della pietra leccese (Leccisu), permetteva a grandi artisti ed artigiani di scolpire e realizzare. Tutta Lecce, oggi, è un fluire di scorci barocchi, illuminati o spenti dal variare della luce solare e non, facendo ora risaltare quell’aggetto, ora quel timpano, o quella lesena, evidenziandone i chiaroscuri. Tra le opere più belle, la Basilica di S. Croce(1549-1695) disegnata da Gabriele Ricciardi e realizzata dagli architetti Cesare Penna e Giuseppe Zimbalo, che ristrutturò tra l’altro anche il Duomo dell’Assunta tra il 1659 ed il 1670.

 

La pietra leccese portò anche una rivoluzione nella costruzione 

delle volte,

 

in particolare le molte varianti di quelle a stella ed altre, che arricchivano i palazzi nobiliari; ma anche le semplici case dei salentini, data la perizia dei contadini muratori-architetti e voltaroli. E tutta l’area fu invasa da una miriade di piccoli Templi e Cappelle, i quali, pur in modo semplice e spoglio, segnavano comunque la magia del vivere salentino.

Ciò fu possibile grazie alla facilità di tagliare a misura i conci in leccisu per le volte, a seconda dell’ampiezza del fabbricato.


Una forma di progressione geometrica nell’avvicinarsi al centro della volta, già vista nelle pagliare, che oggi, nei progetti, date certe misure auliche molto ripetitive, fanno pensare ad un sistema contemporaneo di prefabbricazione. Ancora adesso, moderne aziende come la Pimar di Maglie, estraggono i preziosi conci in gigantesche cave a cielo aperto, esportando il leccisu in tutto il mondo, collaborando con grossi studi internazionali (Renzo Piano, Jean Nouvel ecc. …) e grandi Designer come Ugo La Pietra.

 

Gli artigiani scalpellini, nelle loro botteghe, sperimentano design di ogni tipo, scultori ed artisti ne fanno largo uso ed è vissuto come un vanto il possedere un pavimento, una rifinitura, un portale, un capitello, realizzato con l’Oro di Puglia.

 

 

 

 

 

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ARCHIMEDE GENIO DEL SUD di Fabio de Paolis – Numero 9 – Dicembre 2017

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 ARCHIMEDE GENIO
DEL SUD

Sebbene dai più sia ricordato soprattutto per la sua attività di ingegnere e inventore, capace di ideare macchine belliche e dispositivi meccanici di vario tipo, Archimede di Siracusa, matematico, fisico e astronomo, è il maggiore scienziato dell’antichità. Gli storici romani raccontano che il console Marco Claudio Marcello, dopo avere con la forza e uno stratagemma espugnato Siracusa, si arrampicò nei luoghi più elevati, per vedere dall’alto la bellissima città sottomessa. Una immagine questa, che lo commosse fino alle lacrime. Lacrime di gioia per una così grande vittoria, ma anche lacrime amare, dovute alla pena di vedere deturpata dal suo esercito la più bella e ornata città greca d’Occidente.

 

Siracusa nel III secolo era la capitale di un regno piccolo 

per territorio ma importante nell’ambito degli stati ellenistici 

del Mediterraneo. Grazie al suo illuminato Basileus Ierone II 

il regno aveva una salda struttura amministrativa e perseguiva, 

con i più potenti Stati dell’epoca, un’accorta politica impostata 

su equilibrati rapporti diplomatici ma, soprattutto, con l’Egitto, 

paese allora all’avanguardia in campo scientifico.

 

Non a caso Archimede fu mandato a studiare ad Alessandria nella scuola fondata da Euclide, dove strinse amicizia con il geografo Eratostene da Cirene, con l’astronomo Conone di Samo e con il matematico Dositeo di Pelusio, e dove visse gli anni fondamentali della sua formazione scientifica. Quando il nostro genio tornò a Siracusa (città dove Archimede scrisse tutte le sue opere) la città godeva di un lungo periodo di pace e di prestigio internazionale. Era divenuta uno straordinario centro culturale ove s’irradiavano intense correnti artistiche e scientifiche che la rendevano città di primissimo piano. Per la centralità della sua posizione, per il volume dei traffici, per la sua la ricchezza economica fondata sull’agricoltura e sul commercio, e soprattutto per la qualità delle relazioni internazionali, Syrakousai era un centro di cultura tecnico/scientifica in cui interagivano i migliori specialisti in circolazione. La fiorente economia di Siracusa e del suo territorio era radicata nella ricchezza della sua produzione agricola a cominciare dal grano, dalla produzione del pesce salato, dalla produzione di vasellame, dalla coroplastica, dalla raffinata toreutica e dalla impareggiabile oreficeria. Una città modello soprattutto per le straordinarie architetture civili e militari di cui era dotata (in primis il Castello di Eurialo).

La Siracusa che commosse Marcello possedeva 27 chilometri 

di mura che le garantivano una formidabile difesa sia dalla parte 

del mare, sia da quelle di terra. Era chiamata anche la Pentapoli,

 

una città che comprendeva cinque grandi quartieri, che erano a loro volta delle vere e proprie città fortificate: l’Acradina, il quartiere posto al centro, il più grande e più popolato, tutto ruotante intorno alla grande Agorà attraversato da grandi strade rettilinee secondo il modello greco; la Neapoli, un quartiere monumentale dedicato al culto e allo spettacolo, con l’Anfiteatro, la Stoà, l’Ara di Ierone, il tempio di Apollo, il teatro lineare, e nelle vicinanze il tempio di Demetra e Kore; la Tyche (così denominato per la presenza di un tempio dedicato alla dea fortuna), un quartiere bagnato sulla sommità dal famoso torrente Timbri, un quartiere fornito di templi, ginnasio, torri e mura; poi l’Epipoli, che era un nuovo vasto quartiere inaccessibile dall’esterno, concepito per scopi militari e quindi poco popolato, interamente roccioso e a picco, anch’esso completamente circondato da possenti mura e torri; ed infine Ortigia, isola volgente verso terra con le sue mura turrite. Un quartiere che viveva avulso dal resto della città e che, secondo un antico giudizio, era al tempo stesso città forte, seggio di monarchi, luogo di traffici, ricovero di navi mercantili e da guerra, con un palazzo fortificato, sede del tiranno con la sua corte, un Athenaion, vasti granai fortificati, e un piccolo porto. Questa era la Siracusa del III secolo, la grande metropoli siceliota dove nacque e morì Archimede. Una città eccezionalmente fortificata e, prima dell’arrivo delle aquile romane, una delle poche città mai espugnate. Narrano gli annalisti che quando i Siracusani videro i Romani con la loro formidabile macchina da guerra investire la città dai due fronti rimasero storditi e ammutolirono di timore. Pensarono che nulla avrebbe potuto contrastare l’impeto di un attacco in forze di tali proporzioni. 

Secondo Tito Livio “la città sarebbe stata subito presa, 

se non vi fosse stato un sol uomo, Archimede, sopra ogni altro contemplatore del cielo e delle stelle, ma più meraviglioso 

inventore e costruttore di macchine guerresche e di ordegni, 

il quale distruggeva in un momento le faticose 

opere di offesa contro la città.


Le mura della città furono da lui fortificate in modo assai vario. Contro le navi più lontane, catapulte lanciavano pesanti pietre, contro le più vicine nugoli di frecce. Opportune feritoie nelle mura permettevano ai difensori di colpire senza essere feriti; uncini di ferro (la manus ferrea), legati da catene, afferravano le navi che si avvicinavano troppo alle mura, e le sconquassavano. Dalla parte più alta delle mura, enormi massi lanciati rotolavano con violenza lungo il pendio naturale delle colline esterne, contro gli assalitori”. Fonti più tarde attribuiscono ad Archimede anche l’invenzione degli specchi ustori, mediante i quali avrebbe incendiato molte navi romane che dal mare assediavano Siracusa. Specchi a parabola ove i raggi del sole, essenzialmente paralleli, si concentravano in un punto chiamato fuoco, e proiettavano con precisione il calore sul legno e sulle vele delle triremi. Racconta Plutarco che le macchine costruite da Archimede (tra cui la Coclea, una pompa a spirale per il sollevamento dell’acqua, dispositivo noto come vite di Archimede; o il Planetario, da lui creato con lo scopo di predire il moto apparente del sole, della luna e dei pianeti; o l’orologio ad acqua, frutto di studi di pneumatica antica) non costituivano per lui oggetto di profondo studio, ma egli si occupava di fabbricarle e studiarle per le insistenti richieste del re Gerone (suo parente), il quale lo aveva persuaso della necessità di volger la sua attenzione dalle cose speculative a quelle materiali, per i bisogni più concreti e più sentiti dalle moltitudini. 

 

Gerone aveva visto lungo, all’impressionante peso dei suoi scritti, che spaziano dalla geometria all’idrostatica, dall’ottica alla matematica, dall’idraulica all’ astronomia, fanno da contraltare le eccezionali intuizioni che, nel campo della tecnologia meccanica, ci consegnano Archimede come il genio assoluto e erga omnes l’inventore per antonomasia. 

Dopo ventitré secoli il nome di Archimede è sinonimo di invenzione e innovazione nel campo della produzione e del design.

L’elenco sarebbe lunghissimo, basti ricordare che, il 14 marzo si festeggia in tutto il mondo il PI greco day (il 3,14 dei paesi anglosassoni, conosciuto anche come costante di Archimede) ove vengono organizzati concorsi di matematica, un momento planetario in onore di Archimede, che viene citato e commemorato. Sempre in onore del nostro genio sono stati nominati sia il cratere lunare Archimede, che l’asteroide 3600 Archimede. Nella medaglia Fields, la massima onorificenza per matematici, in un verso della medaglia c’è il ritratto di Archimede con iscritta una frase a lui attribuita “Transire suum pectus mundoque potiri” (Elevarsi al di sopra di se stessi e conquistare il mondo). Nell’arte Archimede è stato onorato soprattutto da Raffaello nell’affresco vaticano della scuola di Atene, il divino pittore lo rappresenta intento a studiare la geometria, e le sue sembianze sono di Donato Bramante. Anche all’interno della colonna Traiana, costruita da Apollodoro di Damasco, la struttura ad elica dell’interno è visibilmente un preciso richiamo alla vite idraulica ideata da Archimede.

 

Nel corso della propria esistenza anche Leonardo da Vinci dimostrò più volte ammirazione per Archimede, soprattutto per le sue capacità di affrontare proficuamente problemi di statica e di geometria
da cui trarre applicazioni pratiche.

 

Leonardo lavorò a un particolare cannone a vapore (l’architronito) che attribuì al genio di Archimede. Anche Galileo cominciò molto presto a studiare Archimede, che definiva il suo maestro. Particolarmente apprezzati da Galileo furono i trattati “Sui galleggianti e Sull’equilibrio dei piani “. “Voi aspettate io invento; se c’è gente che proprio non sopporto sono gli inventori; il cliente ha sempre ragione” non sono motti del nostro genio siracusano ma di Archimede Pitagorico (Gyro Gearloose) un gallo con i piedi antropomorfizzati e con fattezze umane. Nato nel 1952 dalla penna di Carl Banks con le caratteristiche del nostro eroe, Archimede Pitagorico è un papero da laboratorio straordinariamente intelligente e creativo, che trascorre ore nella sua disordinata officina. Perennemente scapigliato, è apparentemente avulso delle cose terrene, ed è sempre circondato da fogli stracolmi di calcoli e geometrie, papiri da cui difficilmente si separa per distrarsi a parlare col prossimo. Nonostante tutte le stravaganze, l’amatissimo Archimede Pitagorico è destinato a non morire mai, a differenza di Archimede da Syrakousoi, a cui questo lato del carattere risultò fatale. 

 

Seguendo il racconto degli storici proviamo a immaginare 

i suoi ultimi momenti.

 

Siracusa era in festa per il giorno di Artemide quando le legioni di Marcello penetrarono nella città abbandonandosi al saccheggio. Un legionario romano entrò nella casa di Archimede, che probabilmente abitava nell’Acradina. La sua era una tipica casa siracusana del tipo a peristilio, con accesso sulla via principale, dotata di un corridoio d’ingresso che conduceva in un cortile intorno a cui erano disposte le camere. Penetrò in quella di Archimede, che nel frattempo non si era accorto che la città era caduta, con i Romani penetrati all’interno. Il soldato lo trovò con la barba folta, le sopracciglia contratte e la capigliatura scompigliata. Indossava un mantello ed era probabilmente chino su di un tavolo mentre studiava con in mano il suo bastone per tracciare figure. Il legionario gli si avvicinò ordinandogli più volte di seguirlo, ma Archimede lo ignorò completamente, provocando l’ira del soldato che con la daga lo trafisse sul posto.

 

Questa fu la fine di un uomo semplice e puro, con una straordinaria capacità di attenzione e di lavoro, uno spirito di concentrazione 

che spesso gli faceva dimenticare di mangiare, di dormire.

Che gli faceva trascurare la sua persona, a tal punto che si racconta che anche quando si ungeva il corpo con l’olio, con il dito vi conduceva linee e geometrie. Si dice che Marcello fosse afflitto per questa morte, allontanasse l’uccisore, facesse ricerca dei parenti di Archimede rendendo loro onore. Nel 75 a.C., Marco Tullio Cicerone, questore in Sicilia, cercò e scoperse la tomba di Archimede finita nel dimenticatoio, sulla lapide erano scolpiti un cilindro circoscritto ad una sfera con un iscrizione indicante il rapporto tra i volumi e le superfici dei due solidi.

ArchimedeMuore
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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD di Grazia Francescato – Numero 9 – Dicembre 2017

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PREZIOSA MEMORIA. CULTURA DEL SUD

 

intervista a
di grazia francescato
un sacerdote della natura

Esagero? Affatto. Giampiero Indelli, fotografo e naturalista di rango, grande esperto di zone umide e wildfowl, si è sempre considerato, innanzitutto, un “officiante” dedito a celebrare la bellezza e la sacralità della natura. Il suo obiettivo si è puntato principalmente sulle sue terre d’origine, quel Sud nascosto e dimenticato, dove non crescono solo i limoni cantati da Goethe, ma anche i faggi del Cilento e i salici in riva al verde Sele.

Uno sguardo al di là degli stereotipi, quelli romantici ma anche quelli moderni dello sviluppo e della crescita, come medicine
per gli antichi mali del Meridione.

 

Lo sguardo di un artista del Sud che ha saputo conquistare un primato ragguardevole nel raccontare, con professionalità e amore, lo splendore ignorato ma anche la metamorfosi dei territori meridionali, intento a cogliere quel di più di valori naturalistici, artistici, storici e culturali che rappresentano la vera ricchezza di questa vasta parte d’Italia.

 

Ti definisci “uno che entra in un bosco in punta di piedi, come se entrassi in una chiesa”. La fotografia naturalistica, dunque,
non solo come professione ma come vocazione?

 

Esattamente. Fin da bambino, quando accompagnavo mio nonno Federico a caccia negli oliveti del Cilento o mio zio Antoniuccio a pesca lungo il fiume Sele, mi sono subito reso conto, istintivamente, della bellezza e maestosità del paesaggio meridionale. La mia prima foto pubblicata su una rivista, quando avevo quindici anni, ritrae appunto mio zio a pesca sul Sele. Ancora una foto di mio zio campeggia sulla mia prima copertina di una rivista a tiratura nazionale: “Pescare”. Nei primi anni della mia carriera di fotografo mi sono dedicato esclusivamente alla caccia fotografica. Anatre, aironi, beccaccini, limicoli erano i miei soggetti abituali. Immagini pubblicate sulle riviste di caccia, perché all’epoca non c’erano ancora le riviste di natura. Quando queste ultime hanno fatto la loro comparsa, ho cominciato a fotografare anche fiori, alberi, paesaggi e a pubblicare su “Airone”, “Oasis”, “Gardenia”, “Bell’Italia”. In seguito mi sono dedicato a fare libri fotografici: Le Oasi del WWF, Cilento, Persano. Recentemente ho pubblicato un libro, La prima luce del giorno, che racconta questo mio percorso esistenziale e professionale. 

 

Dagli animali al paesaggio. Quali le motivazioni di questo cambiamento?

 

Sostanzialmente due. Da un lato ho fatto tesoro delle indicazioni di Fulco Pratesi, mio maestro, il quale sosteneva che i veri fotografi dovevano vendere alle riviste non le foto singole ma l’intero servizio. Dall’altro, è maturata in me la consapevolezza che la foto di paesaggio è un genere fotografico più colto, complesso ed espressivo del ritratto di un’anatra o di un beccaccino. Per fare una buona foto di uccelli, devi conoscerne le abitudini, sapere dove cercarli, costruire un capanno adatto, avere molta pazienza. Nella foto di paesaggio confluiscono invece molti motivi d’ispirazione: dipinti, fotogrammi di film, brani di libri, foto di altri autori. La foto di paesaggio costituisce, secondo me, un’evoluzione culturale e professionale rispetto a quella degli uccelli.

 

E la tecnica? Conta davvero tanto, come molti credono?

 

Fino a un certo punto. Ovviamente è necessario imparare a usare al meglio l’attrezzatura, affinare la tecnica… Ma è lo sguardo che conta. La fotografia di paesaggio è fondamentalmente inquadratura. Così come si nasce con un orecchio per la musica, si nasce con un occhio per l’inquadratura. E’ un talento naturale, che permette di riconoscere automaticamente, tramite un processo inconscio, i rapporti tra i volumi, l’armonia dei colori, l’equilibrio tra le linee. Insomma, aveva ragione Picasso che affermava: “Io non cerco, trovo”.

 

Il Sud è spesso protagonista delle tue immagini. Una vera passione, 

nel senso etimologico del termine: estasi di fronte alla bellezza, sofferenza per gli scempi e le ferite.

 

La spinta originaria a diventare fotografo naturalista è stata proprio innescata dal fatto che mi sono subito reso conto di avere a disposizione, vivendo a Salerno, un enorme patrimonio di natura e di paesaggi, quasi del tutto sconosciuto agli italiani e sottovalutato dai residenti. Un patrimonio ancora sostanzialmente intatto, quando ho cominciato a fotografarlo. Ho fotografato quasi sempre luoghi a me cari, che mi parlavano, con cui scattava una risonanza affettiva, emotiva, un legame con la mia infanzia e adolescenza. Luoghi con cui c’era una simbiosi, un’identificazione profonda: il Cilento interno, il fiume Sele, l’Oasi WWF di Persano. Il mio nome è ormai associato automaticamente a queste aree, che sono diventate così il mio ubi consistam artistico. Questa identificazione tra un artista e un luogo si è verificata spesso nel mondo della fotografia e dell’arte. Basti pensare ad Ansel Adams e al Parco di Yosemite, a Fulvio Roiter e a Venezia, a Shinzo Maeda e la catena montuosa chiamata Kamikochi, ma anche a Theo Angelopoulos e alla Grecia interna, a Fellini e Rimini… l’elenco potrebbe continuare a lungo. Quanto alla passione, intesa come sofferenza di fronte alla devastazione di tanta parte del paesaggio meridionale, in particolare le coste e le pianure, ho vissuto con dolore queste alterazioni di luoghi a me cari, ma ho anche combattuto, insieme al WWF, per arginare gli scempi. Per questa ragione ho scelto di non tornare, negli ultimi anni, in alcuni luoghi a me cari, particolarmente segnati dall’urbanizzazione dilagante. Comunque non dobbiamo trascurare le evoluzioni positive: molte zone interne sono migliorate, in seguito allo spopolamento delle campagne e alla diminuzione delle capre, formidabili divoratrici di piante e arbusti. Sull’Appennino meridionale i boschi si sono estesi notevolmente e molti paesaggi hanno ritrovato un’arcaica bellezza.    

 

A parte la visione del paesaggio, cosa distingue le tue immagini 

da quelle di altri fotografi che hanno fotografato il sud?

 

Io mi sono sempre considerato, più che un fotografo-naturalista, un naturalista-fotografo. Non è un semplice gioco di parole. Essere un naturalista vuol dire conoscere intimamente gli ambienti naturali. Significa saper dare un nome agli alberi, ai fiori, agli animali, a tutto ciò che compone un paesaggio, al di là della sua semplice apparenza. La bellezza, intesa come armonie di linee e di volumi, è la patina superficiale di un paesaggio. E’ forma. Il contenuto di quel paesaggio ha un valore, un’importanza che solo un occhio esperto sa riconoscere. Le mie foto raccontano di quel contenuto di natura, racchiuso in un involucro accattivante. Parlando di un altro ambito, non ci sono descrizioni dei paesaggi meridionali scritte da naturalisti. Se uno vuole conoscere com’erano certi luoghi del sud, deve leggere i racconti di caccia ambientati in quei posti. Fra i pochi autori che hanno descritto il sud, con l’occhio del naturalista, ricordo soltanto i libri di Edwin Cerio su Capri e quelli di Norman Douglas sulla Calabria e la Penisola Sorrentina.

 

Quale importanza attribuisci al tuo archivio d’immagini del sud?


In molti casi le mie foto raccontano com’erano i luoghi prima delle trasformazioni degli ultimi decenni. Penso, per esempio, al fiume Sele, che ho fotografato per trent’anni, dagli anni ’70 agli anni ’90. Il paesaggio lungo le sue rive era ancora in buone condizioni. Poi è successo di tutto. E’ stata realizzata la terza corsia sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, sostituendo molti tratti curvilinei con tracciati rettilinei. In realtà è stato costruito un nuovo tracciato, parallelo al primo, a breve distanza dalle rive del fiume. Una miriade di pale eoliche segna il profilo di ogni collina. Edifici e capannoni si sono moltiplicati a dismisura. L’elenco potrebbe continuare a lungo…

 

Tu lamenti spesso la scomparsa della “grande luce del Sud”, 

elemento chiave per una professione che significa proprio 

“scrivere con la luce”…

 

Il mutamento della luce, nel Sud e ovunque, è un vero dramma. La cappa di smog si estende, sale in quota e ormai si ritrova anche sopra i mille metri. La luce che sfolgorava nei quadri dei vedutisti del ‘700 è ormai un remoto ricordo.

 

Negli ultimi anni, ti stai orientando sempre più verso la foto astratta. Perché?

 

Infatti oggi mi sento più attratto dalla foto astratta. Negli ultimi anni ho fatto più di 15.000 foto di nuvole. Quest’anno ho fatto molte foto di licheni. E’ una mia personale ricerca sul colore e sulle armonie presenti in natura. La vivo anche come una forma di ricerca spirituale. E’ un percorso comune a molti pittori, che iniziano con il figurativo e approdano all’astratto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Credit foto Giampiero Indelli 

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COSENZA E IL PARCO DELLA SILA di Helene Blignaut – Numero 9 – Dicembre 2017

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COSENZA E IL PARCO DELLA SILA

 

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Sono in giro a Cosenza di sotto, un quadrato tagliato in diagonale dove faccio la spesa di cipolle e origano e scivolo tra moda, gioielli e sculture e poi me ne vado laggiù, oltre un fiume che non manca di ricordarci quanto i Goti piansero Alarico.

E m’infilo su per una strada stretta dove severi edifici di pietra antica
mi scortano ai fianchi, interrotti da vicoli e scalette storte
che salgono verso un non si sa dove.

 

E passo la cattedrale sonnolenta a ogni ora. Arrivo in cima, sulla piazza dei nobili palazzi e del Teatro Rendano e il verde di un giardino che mi porta più su, lungo la strada di curve a S e giunge al gran Castello Svevo. E poi scendo e riscendo.

 

Da sotto, mi volto a guardare questo agglomerato a cono, un insieme di elementi scuri intrecciati come dita di mani giunte in preghiera, ma dalla modernità del quadrato, siamo pronti per risalire ancora. Si va “in Sila”. E’ un giugno talmente verde che ci colora pelle e pensieri. Andiamo con la macchina e mi prende un profondo senso di colpa:

 

 tra queste foreste eterne e silenziose, tra i cespugli dove occhieggiano bonari i lupi e una fauna timida, e i fiori di ginestra 

vibrano ovunque in macchie gialle,

mi domando perché non siamo saliti a cavallo. Il rumore di zoccoli potrebbe essere gradito ai padroni del parco. Il rombo dei motori del progresso suona come una violazione, così tento di compensare parlando a bassa voce. 

 

I boschi, i laghi e le pianure sterminate dove riposano mucche e buoi e passeggiano greggi di pecore, mi fanno apprezzare quanto la lingua italiana sia esatta: 

il participio passato del verbo splendere non esiste. E’ un verbo difettivo e dice tutto nel suo participio presente: splendente.
Da sempre e per sempre. Niente di compiuto e tutto in divenire.


Molto più alto, tra dirupi vertiginosi, mi aspetta un borgo antichissimo, Longobucco, dove donne pazienti tessono le fibre di ginestra e c’è qualcuno che tinge le pezze con frutta e liquirizia, e tra i vicoli sono stesi copriletti e tovaglie, sipari multipli che mi portano a un belvedere. Da qui, la maestosità della natura si offre alla vista e ancora m’impone il silenzio, mi rallenta l’anima in pensieri leggeri. Ma è impossibile fermarsi. La macchina è già stata messa in moto. Mi arrendo. Scendiamo alle porte del parco, a Camigliatello, per comprare funghi profumati da svenire di fame e, già che ci sono, tovaglie e tappeti dal tatto rustico come una franca stretta di mano.

 

Ora, di nuovo giù, nel quadrato di Cosenza moderna, voglio comprare ancora origano e liquirizia che, nonostante l’accurata confezione, lasceranno per sempre nella mia valigia
un ineffabile profumo di Calabria.

 

 

 

 

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DE SICA: UNA LEGGENDA DAL SUD di Fernando Popoli – Numero 9 – Dicembre 2017

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DE SICA:  UNA  LEGGENDA DAL SUD

 

 

testimonianza delle arti e delle scienze, insieme con altri preziosi documenti, nell’ipotesi che altri popoli, di altri mondi, possano raccogliere, studiare e capire la genialità di noi italiani. Questo è il più importante tributo a Vittorio de Sica, regista e attore, tra i più grandi del Novecento. Pietra miliare del cinema italiano, genialità del Meridione, 

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“Napoletano de fora”, come amava definirsi, essendo nato a Sora 

nel 1901, da padre impiegato della Banca d’Italia, trasferito lì 

per qualche anno, e da madre napoletana. Sora, in quegli anni,
faceva parte della provincia di Caserta, Terra di Lavoro, 

e risentiva dell’influenza culturale del Napoletano. 

Dopo alcuni anni la famiglia tornò a Napoli, dove Vittorio adolescente crebbe, formò il suo carattere e acquisì la cultura che ha sempre caratterizzato la sua opera d’artista. “Ladri di biciclette”, scritto da Cesare Zavattini, è uno dei capolavori del Neorealismo italiano di De Sica regista, insieme a sciuscià, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D. Il film vinse oltre cinquanta premi internazionali, compreso l’Oscar come miglior film nel 1949. E’ lo stesso De Sica, in un’intervista, ad affermare che: “Dopo alcuni film commerciali, colsi subito la proposta di Zavattini per un film che affrontasse la dura realtà del dopoguerra italiano con le sue paure, la sua povertà, la mancanza di solidarietà umana”. L’originalità della storia si esprime attraverso il dramma dell’attacchino al quale rubano la bicicletta, mezzo di trasporto indispensabile per il suo lavoro, con tutte le conseguenze che ne derivano. 

Tutto era diverso in quel film: l’ambientazione nelle strade di Roma,
gli attori presi dalla strada, il tema sociale, le facce vere della gente. Tutto era diverso dai “telefoni bianchi” che sino allora avevano addormentato le coscienze. Era uno sguardo su una realtà
ignorata che apriva nuovi scenari, nuove forme espressive
e dava spazio ai veri sentimenti dell’uomo.

Alla prima al Barberini di Roma, c’erano tutti i grandi di quegli anni: Visconti, Fellini, Amidei, Rossellini, e fu un vero trionfo. Dopo una navigazione non entusiasmante nelle sale italiane sotto il profilo economico, il film cominciò a mietere premi in tutto il mondo, uno dopo l’altro, sino a essere consacrato come un capolavoro assoluto. La rivista cinematografica britannica Sight & Sound lo considerò il più grande film di tutti i tempi. Nel 1958 fu dichiarato il secondo miglior film di sempre alla Confrontation di Bruxelles; fu classificato in quarta posizione ne I cento migliori film del cinema mondiale, dalla rivista inglese Empire. Sciuscia, Miracolo a Milano, Stazione Termini e Umberto D seguono gli stessi stilemi, i temi sociali, le problematiche di quegli anni, e furono altri riconoscimenti internazionali con premi Oscar. Charlie Chaplin, dopo aver visto Umberto D, affermò di aver pianto e singhiozzato per quindici minuti. Umberto D è considerato il miglior film di De Sica; era dedicato al padre, alla sua vita difficile, spesso al limite della povertà, ma sempre dignitosa, come lo stesso De Sica affermava: “La mia famiglia viveva in tragica e aristocratica povertà”. Anche in questo caso la risposta del pubblico fu modesta, ma ebbe successo all’estero e diventò una pagina straordinaria del Neorealismo. Mentre de Sica conquistava il mondo con i suoi film, c’era in patria chi lo denigrava, lo ostacolava e definiva il suo cinema: “Stracci, panni sporchi da lavare in famiglia”. Capitano di questa denigrazione un politico italiano, in quegli anni Sottosegretario allo Spettacolo, che faceva di tutto per ostacolare la genialità dei nostri più grandi autori: 

 

De Sica, Rossellini, Amidei, Zavattini, perché, a suo dire, rappresentavano un paese appena uscito dalla guerra
con le sue miserie, le sue povertà, i suoi bisogni,
tutte cose che quel politico voleva nascondere
e che, per fortuna, non gli riuscì di fare.

 

Prima della grande stagione del Neorealismo, c’era stato un altro De Sica, attore di un cinema da commedia piccolo borghese dei film di Mario Camerini, come Gli uomini che mascalzoni e Parlami d’amore Mariù, che gli dettero una grande notorietà, e regista poi di Maddalena zero in condotta, Teresa venerdì e I bambini ci guardano, che anticipavano la stagione successiva. Fu un lungo periodo di successo che mostrò le qualità dell’attore e del regista, ben presto diventato un beniamino del pubblico. In precedenza, una lunga gavetta aveva formato De Sica nel mestiere dell’attore, insegnandogli i segreti della recitazione. Aveva fatto parte della compagnia teatrale di Tatiana Pavlova, di Italia Almirante e di quella di Sergio Tofano e Giuditta Rissone. Negli anni Trenta diventò primo attore nella Compagnia Za-Bum di Mario Mattoli e, da lì in poi, fu un susseguirsi di successi assurgendo a una notorietà nazionale. Nel dopo guerra lavorò con Luchino Visconti e Mario Chiari, sino ad abbandonare per sempre la recitazione teatrale e a dedicarsi unicamente al cinema. Della stagione neorealista abbiamo detto, diamo uno sguardo alla sua bonomia, alla sua spiccata simpatia, alla sua inconfondibile comunicativa di attore popolare che ha rappresentato nel meglio la personalità dell’italiano. Penso sopratutto alla serie dei Pane, Amore e Fantasia di Comencini e poi di Risi. Qui il maresciallo Carotenuto è amante delle belle donne, alle prese con i pregiudizi dell’epoca e con le reprimende di un fratello prete. 

 

Al suo fianco, grandi attrici come la Lollobrigida e la Loren,
icone meravigliose dell’Italia che risorgeva dalla guerra
e vedeva realizzato nelle “maggiorate” il proprio sogno erotico. Esilarante i duetti con Tina Pica, la governante, la quale ripeteva
al maresciallo: “La gente mormora… mormora… “, mettendolo
in guardia per il suo comportamento libertino.

 

Alla serie di Pane e Amore seguirono altro straordinari successi di De Sica attore, quali Peccato che sia una canaglia, Il conte Max e Il vigile, con Alberto Sordi; memorabili le sue scene con Albertone, vigile testardo, che multa anche il proprio sindaco – De Sica. E in seguito: Il generale della Rovere, di Roberto Rossellini, nel personaggio di un truffatore che assurge a un’inaspettata dignità umana e subisce le torture dei tedeschi. Una pagina bellissima di recitazione di De Sica e di regia di Rossellini. E ancora, I due marescialli, Un italiano in America e tanti, tanti altri film ai quali dà un tocco di stile e di eleganza. E poi c’è il De Sica regista in questi anni, che consolida la sua fama internazionale ed è premiato in tutto il mondo. Basta ricordare

 

La ciociara, dal romanzo di Moravia, con Sophia Loren e Jean Paul Belmondo, ambientato nei luoghi in cui si svolsero le terribili Marocchinate, gli stupri di donne per opera dei soldati guidati
dal generale Alphonse Juin. Il film valse un Oscar
alla Loren per l’interpretazione. 

 

E quindi, Matrimonio all’italiana, con la Loren e Mastroianni, tratto dalla commedia di de Filippo Filomena Marturano, ancora un Oscar come miglior film straniero. E poi Ieri, oggi e domani, con Mastroianni e la Loren, prodotto da Carlo Ponti, con il celebre spogliarello di Sophia di fronte a un Marcello intimidito, altro premio Oscar nel 1965. Sino ad arrivare al Giardino dei Finzi Contini, dal romanzo di Bassani, Oscar nel 1972 come miglior film straniero.

 

La fama di de Sica è ormai leggendaria, il suo nome è garanzia
di successo internazionale. Il produttore Carlo Ponti ha costruito
con lui e la coppia Loren – Mastroianni un trio imbattibile nel cinema mondiale, espressione della genialità italiana e, specificamente,
del Meridione d’Italia; De Sica nativo di Sora, la Loren napoletana, Mastroianni di Fontana Liri.

 

L’ultimo progetto al quale stava lavorando insieme a Zavattini era I due vecchietti, una disamina della loro esperienza di vita e di arte; loro due, uniti negli anni da una grande amicizia, che si raccontano. Un tumore ai polmoni gli tolse la vita a seguito di un’operazione e morì all’età di 73 anni nel 1974 a Neully sur Seine, vicino a Parigi, lasciando dietro di sé una scia di leggenda. I film di Vittorio de Sica, oggi, sono studiati nelle università di tutto il mondo.

 

Il ragazzo nato a Sora, di spirito napoletano, assurse con la sua sensibilità alle vette più alte del cinema internazionale, portando
nel mondo il nome dell’Italia e consolidando
la genialità della gente del Sud.
 

 

 

 

 

 

 

 

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 Le foto sono state gentilmente concesse da Arturo e Marco Zavattini

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”. Cinzia Terlizzi – Numero 9 – Dicembre 2017

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E’ SAGGIO? TOTO’: “NO, IO SONO NAPOLETANO”.

 

 

“Totò è irripetibile, indefinibile, inimmaginabile… Non è un grande attore, è molto di più… è come una maschera, un Pinocchio…”Così Carlo Croccolo, che ha lavorato con Totò in diversi film ma soprattutto ha condiviso con lui vita professionale e personale, set ed amicizia… “Mi considerava suo figlio adottivo, il maschio che non aveva avuto… …io giovane e ribelle, lui severo ma affettuoso… in più Totò era l’asso dei tempi comici ed io gli stavo dietro… fra noi c’era una intesa perfetta”. Al punto che Croccolo è stato anche l’unico doppiatore che Totò, provato dalla malattia agli occhi, accettava… nelle scene esterne di film ad esempio I Due Marescialli con Vittorio De Sica. Incontriamo l’attore che ha da poco compiuto 90 anni a Castelvolturno, dove vive con la moglie Daniela… parlare con lui significa tornare indietro di 50 anni e più, da quando cioè il principe Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Pofirogenito Gagliardi De Curtis di Bisanzio in arte Totò ci ha lasciato il 15 aprile 1967, unico al mondo ad aver avuto tre funerali, due a Napoli e uno a Roma dove è morto.

 

E tante sono le manifestazioni, iniziative, incontri e spettacoli in tutta Italia che si svolgono in diversi mesi per rendere omaggio
al personaggio e all’uomo Totò.

 

Ovviamente Napoli la fa da padrona con Totò Genio la grande mostra antologica, recentemente allestita a Napoli in tre luoghi, il Maschio Angioino, la sala dorica di Palazzo Reale e San Domenico Maggiore …moltissimi materiali, anche inediti fra foto, disegni, scritti, abiti, il suo baule per far sentire ancora più – semmai ce ne fosse bisogno – Totò vicino a noi e noi vicini a Totò.   “È un sentimento viscerale, un amore fra Napoli e Totò, e Totò e i napoletani – sottolinea Valerio Caprara, storico e critico di cinema – anche se Totò è stato un personaggio universale, profondamente napoletano ma aperto al mondo… La sua grandezza si trova nel meglio della napoletanità, la napoletanità beffeggiatrice… Nessuno dei nuovi comici ha provato a imitare Totò – aggiunge – ce ne sono tanti ma tutti sono costretti a confrontarsi con lui senza poterne mai avvicinare l’eccezionalità, altrimenti si brucerebbero e farebbero brutte figure. 

 

Si può accogliere il testimone di Totò ma non si può replicarlo.”

 

Totò talmente grande e unico che c’è chi vorrebbe portarlo nelle scuole…è Giacomo Poretti del trio Aldo Giovanni e Giacomo… “Balbetto quando parlo di Totò – dice – è unico per l’uso straordinario del corpo proprio del comico e perché è un dinamitardo della lingua… Basti solo pensare alla lettera che detta a Peppino De Filippo in Totò Peppino e la Malafemmina. Lo porterei nelle scuole perché è l’enciclopedia della comicità, perché dobbiamo avere l’aggancio con la storia, conoscere da dove proveniamo e quindi conoscere Totò Charlie Chaplin e Buster Keaton che sono i caposaldi”. Conoscere l’artista, dunque, ma anche l’uomo… Fuori dal set schivo ma generoso… è nota la sua passione per i cani che, come gli aveva un giorno detto un americano, considerava a metà fra un angelo e un bambino. E frequentemente, come racconta Carlo Croccolo, la sera usciva per le strade di Roma con l’attore Francesco Mulè per raccogliere i randagi e portarli nel canile che aveva rilevato da un’anziana signora dove venivano ospitati duecento animali. Generoso anche con le persone “Per me è stato come un padre, un fratello maggiore – confida Ninetto Davoli – sul set mi insegnava alcuni trucchetti per stare davanti alla cinepresa. Era un uomo sensibile, semplice, buono”. L’attore ha iniziato la sua carriera con Totò, che Pier Paolo Pasolini aveva voluto come protagonista di Uccellacci uccellini prima, poi La terra vista dalla luna episodio del film Le streghe e di Che cosa sono le nuvole?, episodio del film Capriccio all’italiana, girato nel 1967 poco prima che Totò morisse e uscito postumo.

 

Con Pierpaolo non sono mai riusciti a darsi del tu – racconta Davoli –
e Totò all’inizio si è trovato in difficoltà perché lui improvvisava, con Pasolini questo non era possibile. Ma come ti vengono tutte ’ste parole? diceva Totò a Pasolini, e lui rispondeva…
ma non sono parole!”.

 

La generosità di Totò viene evidenziata anche dalla nipote Elena Anticoli de Curtis che non ha mai conosciuto il nonno, ma ha vissuto con la nonna Diana, la prima moglie di Totò. Racconta che tra i due l’amore è stato grande lui la adorava ma era molto geloso, eccessivamente geloso… E quando lei se ne è andata Totò ha scritto la canzone Malafemmena, dedicata appunto a colei che gli aveva fatto del male… Fu un grande successo e con i proventi ottenuti regalò una casa a Diana “perché – le disse – questa canzone è tua!”. Ma la generosità più grande, che certo non si è esaurita con la sua morte, è stata quella rivolta al suo pubblico che continua ad amarlo, a ridere e sorridere, a riflettere e ad emozionarsi ogni volta che vede un film, una sua partecipazione o intervista televisiva, o si ascoltano le sue poesie e le sue canzoni. Totò principe della risata, ma non solo, potremmo dire principe della gioia che

 

“ha unito il paese quando c’erano spinte alla divisione, ci ha consolato dopo il dramma della seconda guerra mondiale… ha consolato tutti,
il ricco e il povero, il Nord e il Sud”…

 

Sono parole di Renzo Arbore dette in occasione del conferimento della laurea ad honorem a Totò. Alla cerimonia che si è svolta ad aprile all’Università Federico II di Napoli, era presente anche la nipote Elena: “Nonno avrebbe detto alla faccia del bicarbonato di sodio”… Poi ha aggiunto commossa “Oggi gli viene restituita un po’ della gioia che lui da mezzo secolo regala a noi.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL CODICE PURPUREO DI ROSSANO CALABRO di Michele Minisci – Numero 9 – Dicembre 2017

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Codice purpureo di rossano calabro

 

Il Codice Purpureo (Codex Purpureus) di Rossano Calabro contiene una serie di miniature che illustrano alcuni dei momenti più significativi della vita e della predicazione di Gesù. È stato scritto con un inchiostro aureo per il titolo e argenteo per le tre righe iniziali di ciascun Vangelo e per tutto il resto.  È una preziosissima pergamena di ben 376 pagine (188 fogli della dimensione di cm. 30,7×20), che contiene un antichissimo evangelario scritto con raffinati caratteri in oro e argento, illustrato da 16 stupende miniature sulla vita di Cristo e risale fra la fine del V e l’inizio del VI secolo. Questo documento, unico nel suo genere, riporta in lingua greca il Vangelo di Matteo e quello di Marco fino al cap. XVI,14. In origine doveva contenere anche Luca e Giovanni, visto anche il frontespizio con l’illustrazione dei quattro evangelisti.

Questo evangelario è considerato il più importante esempio
al mondo di codice greco miniato, ed è stato composto certamente
in Medio-Oriente, ad Antiochia di Siria o a Cesarea di Palestina,
e deriva il suo nome dal fatto che è scritto su una pergamena sottilissima color porpora,


fatta con la pelle di agnello con poche settimane di vita, che, nelle terre di Bisanzio veniva anticamente utilizzata solo per documenti particolarmente importanti. Il Codex ha avuto il suggello della sua straordinarietà da parte dell’Istituto Centrale per il Restauro e la Conservazione del Patrimonio Archivistico e Librario di Roma che ha lungamente studiato, analizzato e restaurato l’opera, e contemporaneamente è stato considerato Patrimonio dell’Umanità da parte dell’Unesco. “Memoria del Mondo” è il titolo con cui l’Unesco ha riconosciuto il Codice Purpureo Rossanense, Patrimonio dell’Umanità.

 

Come sia arrivato a Rossano non è stato possibile stabilirlo: potrebbe essere stato portato in Calabria dai quei monaci melchiti che, a cavallo tra l’VIII e il IX secolo fuggirono dalle persecuzioni subite durante l’espansione islamica all’interno dei territori cristiani bizantini.

 

La città di Rossano Calabro, situata sull’alta costa ionica della Calabria, in provincia di Cosenza, a pochi chilometri dal mare e dall’importante sito archeologico di Sibari, era già nel VI secolo un notevole centro bizantino di circa ventimila abitanti, ove spesso confluivano profughi dal Medio Oriente, come anche dalla Sicilia, anch’essa invasa dagli arabi. Ed è proprio a causa dell’immigrazione di monaci ed eremiti greci che Rossano diventò punto di diffusione, nell’Italia meridionale, della cultura e della liturgia greca. Il Codex Purpureus è custodito presso il Museo Diocesiano, e precedentemente era conservato nel monastero del Patirion, a pochi chilometri dalla città (anch’esso da visitare!). 

 

Furono due ricercatori tedeschi, Von Harnak e Von Geghardt
a comprendere la grandissima importanza storica della pergamena, segnalandone la presenza agli studiosi di tutto il mondo nel 1879.
Gli studiosi furono subito colpiti dalla bellezza del testo,
scritto su due colonne di venti righe ciascuna.

 

Il Codice è composto, come si è detto, di 188 fogli, ma originariamente ne doveva contenere circa 400, con l’intero testo dei quattro vangeli, delle dieci tavole dei canoni, e della lettera di Eusebio di Cesarea a Carpiano sulla concordanza dei Vangeli, lettera di cui è rimasta solo una parte. Fu proprio Eusebio, vescovo di Cesarea, a lasciarci nel 318 una delle più antiche testimonianze del Canone cristiano, l’elenco dei libri sacri che compongono il Nuovo Testamento.

 

Un altro esempio dei tesori custoditi in terra di Calabria
restituito alla Storia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD di Giorgio Salvatori – Numero 9 – Dicembre 2017

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LE VIE FRANCIGENE DEL SUD

 

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Era nata la via Francigena che, in seguito, si estenderà,
con un prolungamento del percorso e decine di diverticoli,
al resto della penisola. Diventerà così non soltanto
la via per Roma, la “Romea”, ma anche
la ‘’via verso Gerusalemme’’,


arricchendo il cammino di nuove tappe in quelle regioni che, oggi, sono il Molise, la Campania, la Basilicata e, soprattutto, la Puglia. Un percorso di fede e, contemporaneamente, una sfida, un viaggio alla scoperta di se stessi. 

 

E oggi? Sulla scia del sorprendente successo che anima ancora l’itinerario di fede cristiana verso Santiago di Compostela anche la Francigena, anzi le francigene, come sarebbe più giusto dire, tornano, da alcuni anni, a rianimarsi di frequentazioni. Non solo di fedeli ma anche di curiosi ed amanti di percorsi turistici alternativi e paesaggi rurali. Un rifiorire di passi lenti lungo antichi borghi e mansioni e, soprattutto, cammini impegnativi. Gli itinerari vanno da Nord a Sud e viceversa, attraverso quattro nazioni, Gran Bretagna, Francia, Svizzera e Italia. Ma non bisogna spaventarsi. Chi ama viaggiare senza le quattro ruote, ma non vuole o non può camminare troppo a lungo o affatto, può utilizzare altri mezzi, come la bicicletta o il cavallo. E se la fede oscilla, oltre a chiese e ostelli religiosi che, tradizionalmente, offrono soste di preghiera e pernottamenti ai pellegrini più devoti, il percorso concede approcci diversi e appuntamenti culturali. Un confronto laico, ma non un travestimento irriverente, che, in sette edizioni, ha visto crescere e raddoppiare le presenze di viaggiatori lungo le Francigene, senza nulla sottrarre al sacro e favorendo il contatto con genti e tradizioni dei luoghi percorsi. Collegato strettamente alle diverse tappe dell’itinerario un poliedrico festival ne vivifica le giornate, e soprattutto le serate. I camminatori possono così scegliere tra il silenzio olistico del proprio pellegrinaggio oppure ritagliarsi spazi meno solitari e più animati da svaghi ed eventi che favoriscano lo spirito di gruppo e la voglia di conoscersi. Il Sud, naturalmente, ha carte d’oro da giocare su questo tavolo. Per scoprirle abbiamo incontrato Sandro Polci, ideatore e Direttore del Festival Europeo della Via Francigena. 

 

I numeri ci dicono che il lungo tracciato delle Francigene
si sta popolando sempre più di pellegrini, appassionati, curiosi.
E’ stato il festival a favorire questo interesse?
E come è nata la manifestazione?

 

Molto umilmente abbiamo dato il nostro contributo. Io credo che la crescita – che direi in doppia cifra, anno su anno, negli ultimi 5 anni – dipenda dal momento culturale: vi è bisogno di verità e certezze. Non parlo (solo) di un anelito religioso ma più ampiamente spirituale e condiviso. Qualcosa “oltre”, verso una verità da scoprire, innanzitutto in se stessi e con compagni di strada, spesso non scelti. La condivisione più bella non è esclusiva è inclusiva e trae vantaggio anche dall’imprevedibilità (pioggia, fame, malinconia?). Sognare, creare bellezza, senza remore ma con rinnovata passione. Solo così sapremo valorizzare anche i piccoli centri che traversiamo e che rappresentano: una peculiarità e una garanzia del nostro sistema sociale e culturale; una certezza nella manutenzione del territorio; una opportunità di sviluppo economico. Francia e Italia sono le nazioni europee dove la popolazione è maggiormente distribuita: nel nostro Paese l’85% dei comuni – ben 6. 875 – ha meno di 10. 000 abitanti. Popoliamo un territorio che conta oltre 22.000 centri abitati, quasi 33. 000 nuclei insediativi, senza considerare le caratteristiche di tanta parte del nostro sistema agricolo composto di “case sparse”. 

 

La “piccola dimensione” è spesso considerata un forte limite, rispetto alle esigenze di capitalizzazione e di capacità competitiva, dato dalle necessarie economie di scala e dai sistemi di rete che solo organizzazioni più complesse garantiscono. Io invece credo che ciò può costituire una “attrattività smart”: intelligente e innovativa, ad iniziare dalle politiche di inclusione. E’ dunque possibile un nuovo protagonismo sociale, basato sull’“economia circolare”, di cui il “dinamismo” è una componente fondamentale. Pensiamo ad esempio al turismo delle identità, per “(ri)creare identità antiche e nuove” e valorizzare culture materiali e immateriali, in agricoltura, nell’artigianato e nell’industria creativa, legate alla naturalità dei luoghi. Tale ibridazione, se “ben narrata”, è una opportunità concreta e ancora inesplorata. 

 

Il Sud è entrato a pieno titolo nel progetto di rinascita
della Francigena. Qual è stato l’evento più seguito
del suo Festival in Meridione La scorsa estate?

 

Mi permetto di segnalare il sito festival.viefrancigene.org, dove valutare i circa 500 eventi quest’anno raccolti sotto il tematismo “Borghi e nuvole”. “Borghi”, perché nell’anno dei borghi abbiamo voluto favorire trekking urbani e non solo ruralità affascinanti. “Nuvole”, perché dobbiamo alzare lo sguardo per cogliere leggerezze e qualità di natura e genti. Tra tanti eventi, le tipologie più affascinanti per me sono: le musiche serali, i pasti condivisi, semplici ma di tipicità locali che sposano saperi e tradizioni. Così la “Compagnia dei 12” nel sud del Lazio o gli amici del Cammino di San Benedetto o la vitalità pugliese fino alla nostra finis terrae italiana sono solo alcuni esempi. 

 

La cosiddetta ‘’bisaccia del pellegrino’’ che cosa è esattamente?

 

La bisaccia è il magro bagaglio del pellegrino, fatto di poche, indispensabili cose: il sacco, un ricambio, un farmaco di emergenza e un cellulare augurabilmente spento. Ma da 2 anni la bisaccia del pellegrino è anche una fortunata iniziativa, voluta dall’Associazione Europea delle Vie Francigene e dall’Associazione Civita, che promuove la promozione e la vendita di alcuni prodotti tipici e naturali dei diversi territori ai camminatori di passaggio. Stiamo mutuando l’efficace capacità francese del terroir, ovvero la valorizzazione dell’inscindibile legame tra i prodotti di una terra e la voglia di scoprire quella stessa terra, da parte di un turismo pellegrino che chiede verità, sincerità ma anche godimento.

 

Potrà contribuire a far conoscere meglio ed apprezzare
la cornucopia di odori, colori, sapori del Sud?

 

Lo sta già facendo e attende soltanto i suggerimenti di opinion leader e maker che interpretano al meglio tanti valori e desideri. È un’opera aperta da scrivere insieme. 

 

Un recente sondaggio condotto tra i pellegrini delle Francigene
ha portato alla luce le differenti motivazioni che spingono
i viaggiatori a ripercorrere questo storico itinerario religioso.
I risultati sono sorprendenti: solo il 10 per cento lo compie 

perché spinto dalla tradizionale molla della fede, il 22 per cento 

è spinto da ragioni culturali, il 17 per cento per cercare
percorsi alternativi al turismo di massa. Terrete conto
di queste motivazioni per comporre il calendario
degli eventi della prossima edizione del Festival?

 

Le chiedo. Quando lei mangia un gustoso minestrone, giudica la pietanza nel suo insieme o disquisisce di ogni ortaggio? Io, ad esempio, quando la mattina prima di camminare mi chiedono se sono credente o meno, rinvio la risposta alla sera, quando stanchi e felici sembra una domanda inutile o, come si diceva, sovrastrutturale. Camminare è fratellanza, condivisione, spiritualità e, per chi crede, religione e fede. Comunque, a onor del vero, altre analisi elevano la percentuale dei credenti.

 

 Quale sarà la proposta, l’iniziativa più significativa
del Festival nel 2018?

 

Stiamo faticando, senza risorse e armati solo di passione, per creare il Festival veramente Europeo dei Cammini, per ogni cammino. Ben sappiamo infatti che la Via di Santiago e la Via Francigena sono per antonomasia le “Vie traino” ma che in nulla offuscano i mille altri itinerari di fede, cultura, natura e coesione sociale. Dunque, confidiamo nei suggerimenti, proposte e nuovi progetti di cammini per l’8° Festival Europeo dei Cammini, francigeni, romei e di ogni altra ispirazione perché, ripetiamolo, i Cammini sono la linfa vitale che connette e condivide le eccellenze borghigiane. Un fitto reticolo che, muovendo dalla conoscenza per antonomasia della Via Francigena, traversa i nostri territori innervandone bellezza e ospitalità. E il Festival, in ciò, ne è il messaggero, il buon lievito del pane che alimenta l’hardware, favorendo la fruizione sociale, culturale ed economica di questo vasto scrigno paesaggistico. Dunque, Buon Cammino.

 

 

 

 

nonsolo fede e sudore

Sono trascorsi più di mille anni dal primo, storico viaggio a Roma di Sigerico, neoconsacrato arcivescovo di Canterbury. Ricevuto il pallio, durante il rientro nella sua sede vescovile, l’alto prelato descrisse minuziosamente le 79 tappe che si dovevano rispettare per percorrere, a piedi o a cavallo, i quasi duemila chilometri che separavano (e separano) la capitale della cristianità dalla terra degli Angli, all’epoca fresca di evangelizzazione. Altri monaci avevano compiuto lo stesso percorso prima di lui, ma Sigerico fu il primo a documentare la mappa precisa dell’itinerario e delle inevitabili soste. 

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IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA di Francesco Serra di Cassano – Numero 9 – Dicembre 2017

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Il Mezzogiorno è in grado agganciare la ripresa, ma il suo passo è meno sostenuto di quello del resto del Paese. Secondo le stime Svimez, a ottobre 2017 il PIL italiano risulta in crescita dell’1,5%, conseguenza del +1,6% del Centro-Nord e del +1,3% del Sud. 

 

Il quadro è in costante movimento e, tra luci e ombre,
segnala uno stato di salute in leggero miglioramento.

 

Per il 2018, Svimez prevede che le esportazioni e gli investimenti cresceranno più al Sud che al Centro-Nord (rispettivamente +5,4% e +3,1% contro +4,3% e +2,7%) e anche la domanda interna sarà superiore, ma ci sono fenomeni in controtendenza: la fuga dei cervelli (che non si arresta) e la crescita della povertà rischiano di inficiare il consolidamento del processo di sviluppo. La situazione è comunque molto articolata. Nel 2016 il PIL della Campania è salito del 2,4%, quello della Basilicata del 2,1% e quello del Molise dell’1,6. Tutte le altre regioni hanno avuto una crescita inferiore all’1% fino al risultato negativo dell’Abruzzo che ha segnato -0,2%. Tra i settori economici, nel 2016 il Sud ha superato il Centro-Nord nell’industria, nelle costruzioni e nel terziario, mentre il valore aggiunto in agricoltura è tornato a diminuire dopo il boom del 2015. Secondo Svimez, l’aumento del PIL meridionale mostra primi segni di solidità a partire dal recupero del settore manifatturiero, cresciuto del 2,2%, e poi dalla ripresa dell’edilizia (+0,5%) e dal positivo andamento dei servizi (+0,8%), soprattutto nel turismo, anche grazie alla delicata situazione geopolitica dell’area del Mediterraneo che ha dirottato flussi verso il nostro Meridione. A trascinare poi l’evoluzione positiva del PIL nel 2017 e nel 2018 sarà l’andamento della domanda interna, che al Sud registrerà, rispettivamente, +1,5% e +1,4%. 

 

Il dato più interessante del rapporto Svimez riguarda però la pubblica amministrazione, che nel Mezzogiorno sconta un forte ridimensionamento, un dato che sembra in parte sconfessare il luogo comune del Sud
quale fonte di sperpero di denaro pubblico.

 

Tra il 2011 e il 2015 si è avuta una diminuzione di dipendenti pubblici (- 21.500) superiore al Centro Nord (- 17.954) e una spesa pro capite corrente consolidata della PA pari al 71,2% di quella del Centro-Nord, con un divario assoluto di circa 3.700 euro a persona. Tuttavia, secondo il rapporto, la sfida di una maggiore efficienza della macchina pubblica al Sud “passa per una sua profonda riforma, ma anche per un suo rafforzamento attraverso l’inserimento di personale più giovane a più alta qualificazione”. Le emergenze sociali rappresentano il problema più grave del Mezzogiorno. Oltre alla crescente povertà (10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta),

 

il rapporto indica come il tasso di occupazione nel Mezzogiorno sia ancora il più basso d’Europa (35% inferiore alla media UE), nonostante nei primi 8 mesi del 2017 siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura denominata “Occupazione Sud”.

 

La povertà e le politiche di austerità “deprimono i consumi”, soprattutto in terre non più giovani, né tantomeno serbatoio di nascite del Paese: “si sta consolidando- dice Svimez – un drammatico dualismo generazionale, al quale si affianca un deciso incremento dei lavoratori a bassa retribuzione, conseguenza dell’occupazione di minore qualità e della riduzione d’orario, che deprime i redditi complessivi”. Il Sud, infine, a differenza delle altre aree del Paese, resta un luogo di emigrazione che non riesce ad attrarre persone da fuori. La dinamica demografica negativa del Centro-Nord è compensata dalle immigrazioni dall’estero, dallo stesso Sud e da una certa ripresa della natalità, mentre il Mezzogiorno è ancora terra d’emigrazione selettiva (specialmente di qualità), interessata da un progressivo, ulteriore calo delle nascite, due dati che segnalano una difficoltà sistemica dell’economia del Mezzogiorno.

 

 

 

 

 

IL SUD AGGANCIA LA RIPRESA

 

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