I BRONZI RICOLLOCATI di Daniele M. Cananzi – Numero 7 – Aprile 2017

Bronzi di Riace
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I BRONZI RICOLLOCATI

 

Atteso da alcuni anni, il nuovo museo – evento nell’evento – ha portato alla ricollocazione dei Bronzi di Riace nella sede naturale che li ha accolti da quando vennero ritrovati nel 1972 a largo della costa ionica e dopo le operazioni di ripulitura e restauro attente e delicate, che hanno restituito la bellezza e l’incanto dei due nudi del V sec. a.C. che il mare nostrum si è preso la briga di conservare e preservare tanto a lungo.

 

 

E evidentemente, se si ammette l’assunto, è perché l’evento non è poi così tanto piccolo, e perché magari trova compimento in un momento di favorevole concatenazione di fatti che agevolano il verificarsi della novità. Fatto è che nel profondo Sud un evento, piccolo ma non tanto piccolo, si è verificato: la riapertura del Museo Archeologico Nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria. Uno dei più importanti siti magno greci, punto di riferimento internazionale, uno dei pochi edifici progettati sin dall’origine come museo e che esce dalla matita di Marcello Piacentini nel 1932.

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Cosa significa che due capolavori indiscussi dell’arte di ogni tempo sono stati ricollocati nel Museo? Si potrebbe pensare che nulla è più ovvio
di un’opera d’arte in un museo. 
Eppure parlare di evento
non è esagerato in questo caso.

 

Il Sud, specie quando è profondo, si ammansisce dietro un trascorrere del tempo che si dilata e sembra, in taluni casi, quasi arrestarsi. È quanto è accaduto per il Museo di Palazzo Piacentiniquando, sette anni addietro, è stato chiuso per una restaurazione che è diventata una ricostruzione, tanto da mantenere le mura esterne del progetto originario e da ristrutturare lo spazio interno quasi totalmente. Tanti anni, troppi, trascorsi nell’assenza di uno spazio essenziale, vitale, per una città. 
Finanziato nei progetti di elevato interesse tra quelli che dovevano essere rimessi a nuovo per i centocinquant’anni anni dell’Unità d’Italia, i lavori hanno trovato una serie di difficoltà che hanno ritardato il loro completamento, avvenuto solo con l’inaugurazione del 2016. Cose che capitano, purtroppo, togliendo così però spazi essenziali perché “spazi pubblici di apparizione” – per dirla con Hanna Arendt – nei quali e grazie ai quali si mantiene e raccoglie la cittadinanza, si mantiene e raccoglie la vita, quella migliore, di un territorio e di una città.

 

Ricollocare i due Bronzi, allora, ha un forte valore simbolico oltre che culturale. Durante la chiusura del Museo per restauro,essi sono stati trasferiti
a Palazzo Campanella dove a loro volta sono stati sottoposti

a un delicato intervento di ripulitura interna.

 

Si  era  infatti  osservato  che  le  crete di fusione,  rimaste al loro interno,  stavano lentamente corrodendo il bronzo. Con strumenti  chirurgici  e  sonde,  una équipe  specializzata  ha  provveduto  a  rimuovere il materiale in modo da impedire il processo corrosivo. Per tutto il periodo di questo nuovo restauro, i due Bronzi sono rimasti in una apposita sala costruita per permettere al pubblico di seguire le operazioni.

 

Un vetro, come nelle nursery, ha permesso di andare a trovare
i due augusti ‘malati’ nel letto di ricovero, 
rivelando l’amore
e l’affezione non solo di turisti e appassionati,
ma dell’intero popolo reggino.

 

Il quale non ha mancato di farvi visita e così di mostrare la partecipazione –come avviene per ogni degente – alle cure prima e alla guarigione dopo, dimostrando il perdurare di un legame profondo del popolo rispetto ai suoi illustri e antichi campioni che, ora perfettamente ristabiliti, si ergono nuovamente nella sala museale, fieri eredi di un nobile passato, audaci narratori di una storia che sfida, proprio attraverso loro, il tempo. Avere ricollocato i due Bronzi, dicevo, acquista così un valore simbolico altissimo.

 

Si tratta di un intero territorio che tenta di risollevarsi, che ora deve nuovamente ergersi, superando le difficoltà della sua storia recente e meno recente,
per ritrovare la fierezza e l’audacia che non può rimanere solo
entro le mura del Museo a testimonianza del passato,

 

ma da lì ed esemplarmente deve uscire per tornare a vivere tra le vie di una Città, Reggio Calabria, che tenta di risorgere, tra tante difficoltà, per riacquisire lo splendore del suo antico passato. Perché il Museo e proprio dal Museo ci si può aspettare tanto? Perché lì è conservata la memoria, perché nel percorso appassionante che conduce il visitatore dalla Preistoria e dalla Protostoria all’età Magnogreca, passando dalla terra al mare, dal mare alla terra, c’è la possibilità di verificare la grande bellezza e l’ineguagliabile capacità svelata nelle crete, negli oggetti di uso comune, nei pinakes, nelle opere decorative degli edifici pubblici e privati che ci narrano di un gusto, di una spiritualità, di un modo, che in realtà è un modo di vedere lo spazio, un modo di pensare, riempire, abitare lo spazio; di pensare e abitare la città.

 

I due Bronzi ricollocati anche questo rappresentano, e di questo rimangono in un tempo senza tempo – com’è quello che si avverte nella sala quando si è a loro cospetto – esemplari e testimoni.

 

Una terra martoriata, com’è quella della neo Città metropolitana di Reggio Calabria, da qui può e deve ripartire; lavorando sui problemi e superando le difficoltà, ricollocandosi – proprio come i Bronzi – in uno spazio diversamente pensato rispetto a quello asfittico che ne ha segnato drammaticamente, soprattutto dagli anni ottanta dello scorso secolo, una sub-condizione urbana. Anche per la Città c’è da rimuovere incrostazioni che ne deturpano e corrodono l’anima, quella nobile, quella bella; anche per la Città c’è bisogno di una opera di riqualificazione.

 

Ecco perché un evento piccolo, ma neanche troppo piccolo, potrebbe portare una grande novità che deve venire dal popolo innanzitutto.
Quello stesso che ha dimostrato la sua partecipazione
alla salute dei Bronzi 
e che deve volere rivendicare
l’orgoglio del Sud, della sua bellezza 

tutt’altro che sfiorita.

 

E forse proprio il combinato disposto di nuovo Museo, dunque luogo della memoria e del passato, con l’istituzione (nel 2014) della Città Metropolitana, dunque di una nuova struttura amministrativa territoriale operativa e luogo del futuro, potrebbe essere quella concatenazione favorevole per una svolta, finalmente, attesa e desiderata da tempo che i cittadini meritano ma di cui si devono essi stessi fare primi promotori; loro per primi devono riqualificare responsabilmente il loro spazio e le architetture sociali che lo determinano; magari proprio riprendendo quel gusto antico e magno greco per lo spazio pubblico che è bene comune. Una città, in fondo, è fatta dai cittadini, a loro si conforma e con loro cresce o si involve. Nei momenti difficili sono proprio i cittadini, è il popolo che deve riconquistare il diritto ad avere un futuro, esercitando quella tenacia iscritta nel DNA italico e meridionale in particolare.

 

 

I Bronzi ricollocati rappresentano la possibilità, rappresentano la speranza, indicano la via che è quella della bellezza mediterranea, nel tempo e fuori dal tempo, di un modo di pensare il proprio spazio, il proprio futuro.  

 

 

 

 

Cananzi
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 Immagini concesse dal Museo Archeologico Nazionale di Reggio Calabria

 

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA di Ilaria Borletti Buitoni – Numero 7 – Aprile 2017

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PALERMO CAPITALE DELLA CULTURA

 

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Nessuna strada o tratto del cammino umano è mai obbligato. Esistono sempre delle alternative. E se la politica riesce a fare il suo mestiere queste alternative le disegna per poi suggerirle per la scelta libera del popolo. Ciò vale anche in campo culturale. Per questo la vittoria di Palermo come Capitale Italiana della Cultura per il 2018 mi sembra molto significativa.

 

Palermo è stata certo premiata per la qualità informativa del dossier presentato al Ministero, per la significatività del progetto e per la sostenibilità del progetto stesso. Ed il riconoscimento di Capitale Italiana della Cultura è un riconoscimento alla capacità di progetto, 

e non solo alla città più bella o ricca di storia.

 

 

Un progetto che ha un fiore all’occhiello: Palermo ospiterà infatti nel 2018 MANIFESTA12, una fra le principale biennali di arte contemporanea su scala mondiale. “Nel 2018” ha dichiarato il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, “la nostra città sarà di fatto una capitale dell’arte contemporanea e la possibilità di abbinare le attività con quelle di Capitale Italiana della Cultura rappresenta una grande opportunità non solo per Palermo, ma per tutto il nostro Paese. La Capitale italiana potrà diventare un palcoscenico, facendo di quello che sarebbe un evento nazionale, un grande evento internazionale. La visibilità internazionale data da Manifesta sarà uno straordinario strumento per venire incontro alla volontà del Governo di diffondere il valore della cultura come volano per la coesione sociale, l’integrazione e lo sviluppo”.

 

Dunque non di sola bellezza parliamo. Palermo infatti non primeggia così tanto rispetto agli altri finalisti ­Alghero, Aquileia, Comacchio, Ercolano, Montebelluna, Recanati, Settimo Torinese, Trento e l’Unione comuni
elimo-ericini – e non solo Palermo meritava di vincere.

 

 

Lo ha spiegato del resto assai bene il Sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando quando, andando al microfono per ringraziare e dichiarare la propria gioia per la vittoria, ha subito “costretto” tutti gli altri sindaci a salire sul palco con lui, perché “questa è una vittoria di tutti”, e “nessuno può vincere da solo”.

 

 

Ma piuttosto Palermo ha vinto perché con Palermo vince e afferma la sua forza un modello di cultura che si è fondato nei secoli sulla capacità
di essere crocevia tra diverse civiltà, ­con un’impronta indelebile
lasciata da quella araba­ e diversi popoli, 

 

 

piuttosto che sulla capacità di erigere muri sempre più alti, come sembra purtroppo essere la moda odierna. Muri la cui altezza è direttamente proporzionale all’incapacità di stare nel mondo del territorio recintato. 

 

 

Palermo ci parla invece della forza e della vitalità che viene dal sapersi mescolare in spezie e pensieri, in tratti artistici e tratti somatici, 

in caratteri linguistici e musicali.

 

 

Questa capacità di attrazione ­- questa e non altro – è il vero segreto per una forte capacità di innovazione anche economica, come dimostra la resistenza che sta opponendo la Silicon Valley ai propositi isolazionisti del neo Presidente Trump. Su questo si è basato il segreto della prosperità di Palermo, da cui si è irraggiata la sua grande cultura e da cui, ­non a caso, è nata anche la nostra lingua italiana. Non appena anche a Palermo si sono cominciati ad erigere muri, essa ha cominciato a spengersi. Teniamolo a mente.

 

 

PalSolo cercando di governare i processi storici e vincendo paure
e superstizioni, una nazione può prosperare. E il mondo
diventare un po’ più sicuro. 

 

 Grazie Palermo.

 

 

 

 

 

 

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ D’ANNUNZIO di Franca Minnucci – Numero 7 – Aprile 2017

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QUANDO LA SICILIA INCONTRÒ   D’ANNUNZIO

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A questa pubblicazione non era estraneo l’interessamento del poeta che aveva conosciuto il giovanissimo studente, all’epoca poco più che ventenne, e ne aveva avuto grande stima e ammirazione. Il poeta aveva trovato l’analisi dei suoi lavori geniale e particolarmente interessante; e forse è per questo che, terminato il suo furore creativo, finita la tragedia – La figlia di Iorio – nel bucolico soggiorno a Nettuno, il primo pensiero del poeta, in quei giorni di fine agosto, fu di invitare lo studente e proporgli la traduzione del dramma in siciliano. Ce lo racconta in un articolo sul Corriere della Sera lo stesso Borgese: “D’Annunzio, compiuta la tragedia pastorale, mi telegrafò ch’io andassi a visitarlo a Nettuno; e lì volai; lì, dov’era già de Karolis, fui suo ospite fra i lecci di Villa Borghese che Fausto Maria Martini chiama ampollosi; lo vidi la mattina cavalcare un cavallo scuro di nome Pertinace; e nel pomeriggio udii dalla sua voce d’araldo La Figlia di Jorio.

 

Era cosa fresca e bellissima, un Aminta davvero agreste, un melodramma tutto pieno di musica senza bisogno di strumenti musicali; a me parve  miracolosa; e meraviglioso dono mi parve l’invito del poeta a tradurre il poema per la compagnia siciliana di Grasso nel mio dialetto nativo,

 

 

e a dargli “la seconda vita”, come egli poi troppo benevolmente mi lodò di aver fatto dedicandomi il libro”. Il giovane siciliano si impegnò moltissimo nella traduzione e come dichiarò egli stesso: «stesi giù una Figghia di Joriu in un siciliano illustre e colto che ricalcava anche nei versi e nelle assonanze il testo originale». Le prove con la compagnia Grasso iniziarono a Roma nel maggio del 1904, sull’onda del successo che La figlia di Jorio stava avendo con la compagnia Talli, in tutti i teatri d’Italia, da quella prima memorabile al Lirico di Milano del 1° marzo, così raccontata da d’Annunzio: «Quando La figlia di Iorio andò in scena a Milano, io, ad inizio di spettacolo, mi allontanai dal teatro. Ero, al solito, sereno; e solo ero veramente curioso di vedere che avrebbe pensato del mio pastore mistico e allucinato e della mia fola abruzzese, tanto diversa, e dei suoi riti, il pubblico milanese, il pubblico della ricchezza e del lusso, dei salotti e dei teatri. Mi aspettavo burrasca. Come mi parve che il primo atto fosse per finire, consultai l’orologio e tornai in teatro. Entro in palcoscenico e vedo un attore con la testa insanguinata: era caduto, credo per epilessia e si era ferito alla fronte: era Talli. L’atto era, però, finito proprio all’ora. Oltre il sipario, nel pubblico un silenzio: un silenzio sepolcrale come una pausa. Pensai, mi chiesi rapidamente: non è piaciuto? E allora scoppiò un tuono, un applauso solo, impressionante».

 

 

   L’edizione siciliana della Figlia di Jorio andò in scena invece solo qualche          mese  dopo, al Costanzi di Roma. Era il 17 settembre. La prima lettura      sembra che si sia svolta sul palcoscenico dell’Adriano e le prove
furono molto laboriose; Giovanni Grasso e gli attori emozionati
fino alle lacrime, tanto che d’Annunzio dichiarò che non aveva mai visto interpreti intenerirsi tanto della loro parte ad una semplice lettura.

 

 

Erano infatti schierati i più grandi attori siciliani come Mimì Aguillia, Maiorana, Angelo Musco e tanti altri. D’Annunzio aveva una grande ammirazione per Grasso e non nascose mai un giudizio esaltante sulle sue capacità attoriali. Lo spettacolo, nonostante le tante difficoltà, parve a tutti bellissimo; il pittore Pietro Sassi aveva allestito straordinarie scene e l’introduzione del poeta Martoglio, sostenuto da una base musicale, aveva dato il via ad uno spettacolo – melos – intensamente vicino all’anima dell’Isola che fonde in un’armonia di suoni, di colori, di sapori, la dolcezza e la forza, la violenza e la delicatezza.

 

   Una traduzione dove i motivi popolari venivano cantati con dolcezza e     armonia e dove le nostre incanate erano diventate delle nenie ossessionanti
e violente e dove, ancora con un grande colpo di genio teatrale, si erano riportate integralmente le lamentazioni delle prefiche ancora in uso
nelle provincie di Catania e di Trapani.

 

 

D’Annunzio fu chiamato in proscenio tantissime volte e si trascinò sul palco un riluttante giovanissimo Borgese a ricevere i meritati applausi di un pubblico tra l’altro competente ed esigente: basti pensare che in platea erano seduti personaggi come Mascagni, Franchetti e lo stesso Edoardo Scarpetta, arrivato per l’occasione da Napoli. Grande merito, quello di Borgese, di aver risvegliato, attraverso le parole di d’Annunzio, quelle muse sicule che lo stesso Virgilio invocava e di aver ricondotto la lingua siciliana ai suoi fasti letterari più alti e nobili Questo “file rouge” che ci unisce alla Sicilia credo che dovrebbe essere più conosciuto e più amato sia dai concittadini abruzzesi che da quelli siciliani, perché solo attraverso queste comuni radici ed esperienze si può ritrovare il senso e il valore della nostra civiltà. E, come scriveva Eleonora Duse proprio da Palermo, ritrovare proprio nell’azzurro di quel mare, che è anche il nostro, la vita e l’amore.

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Infatti il 1° e il 16 settembre 1903 sulla Nuova Antologia erano apparsi due articoli di un giovanissimo Giuseppe Antonio Borgese, dal titolo L’opera poetica di Gabriele d’Annunzio il primo, e Dal Canto Novo alla Laus vitae l’altro.

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«Chi legge le “Laudi” vive nel centro di un cerchio al di là del quale non v’è che il dubbio e il nulla. Vive dunque in un capolavoro»

 Gabriele D’Annunzio – Foto dai libri Meyers Lexicon scritto in lingua tedesca. Collezione di 21 volumi pubblicati tra il 1905 e il 1909.Diritto d’autore a href=’httpsit.123rf.comprofile_nicku’nicku 123RF Archivio Fotografico

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LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA di Salvatore Maraventano – Numero 7 – Aprile 2017

LA VUCCIRIA DEV’ESSERE SALVATA  

 

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 Fino a qualche tempo fa, quando voleva farsi riferimento ad un evento che non sarebbe mai accaduto, in dialetto palermitano si diceva che sarebbe successo quando le balate della Vucciria si sarebbero asciugate.
 

In effetti, per centinaia di anni, il pavimento di Piazza Caracciolo, cuore pulsante di quello che, un tempo, era il mercato della Vucciria, è rimasto costantemente bagnato per effetto della massiccia attività di vendita del pesce e conseguente scarico del ghiaccio. Anche lo stesso nome del mercato racconta, poi, qualcosa della sua gloriosa storia: vucciria, in siciliano, significa “casino”, rumore, e testimonia la presenza dei cosiddetti abbanniatori (dal siciliano abbanniare: gridare), mercanti che propongono la loro merce con un urlo intonato che arriva a sembrare quasi un canto.

 

Ebbene, ciò che un tempo era metro di paragone dell’ impossibile è infine successo; le balate della Vucciria si sono asciugate.

 

Passeggiando per la piazza del mercato si percepisce un silenzio che, per chi ha memoria, è quasi assordante: gli abbanniatori non ci sono più. I commercianti rimasti nel mercato, ormai, sono veramente pochissimi. Ancora più inquietante, poi, è la desolazione di tutto il quartiere circostante – chiamato Della Loggia –in cui la fanno da protagonisti antichissimi e un tempo stupendi palazzi nobiliari abbandonati, diroccati, caduti in rovina, dove ormai a vivere è rimasta solo la nostalgia di tempi migliori.

 

 Le cause dello stato in cui versa oggi tutto il quartiere della Loggia – che per mille anni, grazie alla sua vicinanza col porto, è stato casa di ricchi armatori e mercanti provenienti da tutto il Mediterraneo e oggi, invece, è un deserto di tufo – sono molteplici e tutte, più o meno, legate alla complicata storia del capoluogo siciliano e alle sue contraddizioni.

Durante la seconda guerra mondiale, la città di Palermo subì numerosissimi bombardamenti che ne sfigurarono i bellissimi palazzi nobiliari del centro storico. In quel periodo, le classi più abbienti si spostarono verso le periferie o verso i paesi delle montagne per sfuggire ai pericoli della guerra. Le classi più povere, invece, non ebbero la stessa possibilità e furono costrette a subire la pioggia di bombe. I danni agli edifici, oltre che quelli alle persone, furono enormi, al punto che la maggior parte dei palazzi risultava completamente inagibile. Nell’ immediato dopoguerra la borghesia palermitana si tenne lontana dal centro storico e, in mezzo alle macerie della città dal cuore arabo, rimasero a vivere solo pochi disperati. La connivenza tra mafia e politica, infatti, permise a imprenditori edili senza scrupoli di inaugurare una fase di speculazione edilizia che consumò letteralmente tutte le campagne della periferia della città e portò alla demolizione di numerose antiche ville ed esempi unici di architettura liberty. Il cosiddetto “Sacco di Palermo” fornì alle classi medie della città nuovi e splendenti palazzi a basso costo dove andare a vivere. Al contempo, tra le macerie del centro storico crescevano povertà, miseria e quindi criminalità. Il processo di ricostruzione sarebbe ripartito solo negli anni ‘ 90 ed è, attualmente, ancora lungi dall’ essere completato.

 

I mercati del Capo e di Ballarò, che in precedenza si raccontavano essere vivi
e vitali come non mai, risentirono meno di questo processo di desertificazione. La ragione sta nel fatto che questi due mercati sono sempre stati, nella storia,
i mercati più popolari. La Vucciria era, invece, il mercato più ricco
e rivolto alle classi abbienti.

 

Alla fine degli anni ’ 90, il mercato della Vucciria, per quanto claudicante e in difficoltà, ancora resisteva. Ad assestargli il colpo di grazia fu l’ interesse che il luogo cominciò, agli inizi degli anni 2000, a suscitare per la movida della città. Piazza Caracciolo, la piazza principale del mercato cominciò a diventare luogo di ritrovo serale per i giovani palermitani. Qualche anno dopo, la vicina Piazza Garraffello diventava una delle più grandi discoteche a cielo aperto d’ Europa. Non si può negare che in quegli anni la movida della Vucciria esercitasse un fascino unico e inconfondibile: il sabato sera, centinaia di persone si ritrovavano a ballare all’ aperto, tra le rovine e le macerie di un quartiere bombardato in cui un tempo vivevano ricchi mercanti amalfitani e pisani, tra i fumi densi e fitti degli stigghiolari (venditori di stigghiole, un tipico cibo da strada palermitano), comprando birra a due lire da commercianti improvvisati e con la possibilità di trovare erba e anfetamine nel vicolo dietro l’ angolo. A quei tempi la Vucciria non era bella, ma sicuramente affascinante.

 

C’era la decadenza, c’era l’ anarchia e c’era l’unicità di un luogo che probabilmente non aveva simili in tutto il mondo.

La movida sregolata e gli enormi interessi degli abusivi, che cominciavano a sviluppare importanti volumi d’ affari, resero la Vucciria una zona franca e senza regole nel pieno centro di Palermo. Fu così che la Vucciria divenne pericolosa e violenta. Fu così che cominciarono a susseguirsi senza sosta notizie di scippi, aggressioni gratuite e crimini di vario genere. Eppure, ancora oggi, le stesse forze dell’ ordine si mostrano restie ad entrare nel quartiere.
Il declino della Vucciria non si è arrestato. Dopo il boom della movida anche quella oggi sembra starla abbandonando, a causa dei troppi pericoli e dei numerosi episodi di violenze. Da quanto raccontato, risulta chiaro che oggi il quartiere della Loggia e il suo storico mercato della Vucciria abbiano bisogno di essere salvati dal declino. Che nel 2017 si permetta che un tale contenitore di storia e di bellezza rimanga ignorato, calpestato e insultato – e per di più in una città che riesce a dimostrare fermento e vitalità – è intollerabile.

 

Da queste considerazioni, nasce l’ idea della Professoressa Giovanna Acampa, docente di Estimo all’ Università Kore di Enna, di stimolare la rigenerazione
del quartiere attraverso micro-interventi di agopuntura urbana.

 

L’ idea alla base di questa metodologia di intervento è che progetti di rigenerazione su larga scala ed eterodiretti abbiano spesso scarsa capacità di incidere sul tessuto urbano del quartiere e, al contempo, generino frequentemente fenomeni di gentrification. Al contrario, micro-interventi accurati e chirurgici, a basso costo e a basso impatto sociale – quando messi a sistema in un quadro progettuale dagli obiettivi omogenei – hanno maggiore capacità di catalizzare la rigenerazione urbana e renderla più inclusiva e rispettosa del tessuto sociale preesistente.

 

Dalla creazione di orti urbani per i residenti, alla pulizia di piazze e spazi dove prima insistevano discariche abusive, etc., è questo il tipo di intervento su cui, in periodo di crisi, vale la pena scommettere.

 

Su questi presupposti metodologici la Professoressa Giovanna Acampa ha cominciato a coinvolgere numerose realtà all’ interno di questa cornice progettuale; da liberi cittadini a residenti, associazioni giovanili come il PYC, un gruppo di editori, il CODIFAS per lo sviluppo di Orti Urbani, il FAI, alcuni esperti di virtual reality per sviluppare forme di fruizione innovative del patrimonio storico, etc. Il lavoro di questo comitato spontaneo, che è chiaramente aperto a chiunque volesse contribuire, è appena iniziato, ma già sono numerosissime le iniziative in cantiere. Speriamo divengano presto realtà.

 

Se però, oggi, altri mercati come quello di Ballarò o del Capo sono ancora in grado di esprimere la stessa vitalità umana e commerciale e la stessa atmosfera da suq arabo che li hanno consacrati nella storia millenaria della città, negli ultimi decenni la Vucciria è andata, al contrario, incontro ad un graduale e lento processo di decadenza e desertificazione.

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“I SUD CHE AMO”. PATRIZIA RINALDI di Giuditta Casale – Numero 7 – Aprile 2017

Premio Andersen 2016 come migliore scrittrice per ragazzi: Patrizia Rinaldi è scrittrice senza specificazioni o determinazioni. Scrive di passioni, con raffinatezza ma senza affettazione, con l’eleganza e la grazia innata di cui godono certe anime.

 

Nel tuo ultimo romanzo, “Ma già prima di giugno” (E/O) c’è la volontà di rappresentare e descrivere un sentimento del sud incarnato da una città multiforme e contraddittoria come Napoli, attraverso una donna, Maria Antonia, forte propositiva volitiva e tenace, carnale e sensuale, che non cede al destino né alla Storia (è una delle sfollate da Spalato: scena che tu racconti con straordinario impatto).

 

Il Sud è maschile o femminile? Oppure la scommessa per il futuro
è di non essere né lui né l’altra?

 

Forse ogni femmina bella e sapiente contiene il suo contrario. Forse ogni maschio virile e fiero sa concedersi la fragilità che per sbaglio
è ritenuta donna. 
 

Ho cercato di rendere Maria Antonia un personaggio che si dimena nelle sue differenti nature.
Mi auguro un Sud ermafrodita, che indichi il rispetto per quello che siamo e pure per quello che non desideriamo essere. 

 

Nei libri per ragazzi, i luoghi sono più ombreggiati, meno determinati e dettagliati. Penso alla scuola crollata di “Piano Forte” (Sinnos),  in cui i protagonisti rimangono prigionieri a sperimentare le loro fragilità e più ancora le loro potenzialità; ai (non) luoghi, che sono ambientazione universale della gioventù, di “Adesso scappa” (Sinnos): casa strade palestra; ai cunicoli di “La compagnia dei soli” (Sinnos), in cui però si possono scorgere i sotterranei di Napoli, come in “Federico il pazzo”, (Sinnos) in cui appare una Napoli presente, ma sfumata nei contorni, definita ma anche universalizzata nella sua carica di “periferia”, che non vuol dire solo degrado e abbandono, ma anche solidarietà, amicizia, cultura e convivenza. Perché da Francesco, adolescente che si finge Federico II di Svevia, e che viene etichettato dai compagni come “pazzo”, impariamo concretamente che la cultura ci salva, dal bullismo, dalla storia e da un destino segnato.

 

 

C’è nel Sud, quello più direttamente pensato e abitato dagli adolescenti,
una carica di riscatto e di universalità, 
che lo fa assurgere
a ombelico del mondo? 
Possiamo sperare che del Sud
i nostri figli comprenderanno 
e valorizzeranno

gli aspetti positivi e i valori portanti? 

 

Non so se noi possiamo sperare, ma dobbiamo consentire la speranza
ai nostri ragazzi.

 

La denuncia dei danni e delle omissioni sociali non basta, i ragazzi che vivono nelle periferie dei poteri sono la maggior parte. Hanno diritto al futuro, allo spiraglio possibile.
In questo non faccio alcuna differenza tra nord e sud.

 

Patrizia Rinaldi è una scrittrice del Sud? E se sì, quali sono gli elementi che rendono la tua scrittura “meridionale” o “mediterranea”?

 

Sono una scrittrice nata a Napoli da genitori campani e sono profondamente legata alla mia terra.
La sfida che propongo alla mia scrittura, a ogni nuovo romanzo, è cambiare per accordarsi al contesto narrativo e continuare a somigliarsi.
 

 

Un’ultima domanda in omaggio alla rivista che ci ospita: Myrrha il dono del sud.
Qual è la myrrha del sud, quel potenziale culturale e letterario degno di essere portato in dono a una divinità? E se dovessi scegliere tra i tuoi titoli, o i progetti letterari a cui hai aderito, quale di questi definiresti un dono del Sud?

 

Un particolare anche minimo che cambi in meglio il giorno, soprattutto
dei ragazzi, che contenga la variabile dell’amore, in ogni forma.
L’omaggio che porterei è una piccola utopia di bellezza,
anche solo da immaginare. 
Sceglierei i progetti letterari
del carcere minorile di Nisida, mi hanno insegnato
la resistenza ostinata contro il danno.
 

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 I Sud che amo non sono omologati in definizioni fisse.
Sfumano, si contraddicono, gridano e sussurrano.

 

Hanno la rabbia della Ortese, la lucidità perfetta di Sciascia, strascichi barocchi di Consolo, la perfezione della lingua di Bufalino, gli squarci vivi e popolari di Viviani e De Simone, la cultura mai didattica di Montesano, i ricordi nostri tradotti in arte da Starnone, le fondamenta da tradire di Basile, la grazia sublime, drammatica e amorosa, di Ruccello.
La lista sarebbe troppo lunga e rischierei di diventare pedante, cosa che il Sud non deve diventare. Noi siamo in movimento e non possiamo contrapporci ad altri afflati culturali, ad altri paesaggi. Piuttosto li dobbiamo amare e comprenderli. Farne pane nostro, come si addice ai porti e ai monti scalati e senza muri.

 

La voce calda e suadente di Patrizia Rinaldi, scrittrice a tutto tondo,
come poche in Italia, si presenta da sola con la lista che traccia
un itinerario di poetica: la sua.

 

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“I SUD  CHE AMO”

 

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