AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA di Alessandro Gaudio – Numero 3 – Gennaio 2016

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A proposito dei suoi versi si è spesso parlato di «itinerario fenomenologico e psicolinguistico nell’autobiografia»1 e lei stessa era solita definire la sua scrittura «psicanalitica e subconscia»2, creando poi per essa la categoria della bio-parola, ovvero della bio-poesia. Sono tante le poesie che si rifanno a questo principio − ad esempio, quelle incluse in Mediazioni e ipotesi per maschere (Firenze, Vallecchi, 1985) − ma preferisco trascrivere una di quelle contenute nel terzo volume delle Proporzioni poetiche, antologia curata da Domenico Cara nel 1987 (Milano, Laboratorio delle Arti, 1987, pp. 137-138). Si intitola E non rinasceremo e la riporto qui di seguito, prima di ridiscuterne brevemente la disposizione all’indagine esistenziale per i lettori di «Myrrha».

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AL LIMITE DI UN TEMPO SENZA STORIA

 

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Nella noia di un ritmico esistere, per il tramite della sua operazione poetica, la Verbaro porta avanti il viaggio inquieto che parte dal suo Sud («Quella terra fantastica / persa tra tempi lunghi e spiagge aperte»)

In questa località psichica, che ha una propria spazialità, ma che è priva di una topografia rigorosa, si forma uno degli stadi preliminari delle immagini che prendono parte alla poesia di Giusi Verbaro.

Quella terra fantastica
persa tra tempi lunghi e spiagge aperte
su cui scrivemmo antiche profezie
io l’ho veduta crescere nel sangue
e tingersi di rosso
e poi impazzire al grido degli uccelli
al commiato dolente dell’estate

Questa morte che un vento sterminato
mi colma di occhi bianchi
e mani accese
si consuma straziata
lungo tracce di passi innumerabili
e angeli addormentati nell’attesa

(Senza memoria arrendersi
nei giardini di Tebe
aspettando le piogge)

e mai come stasera − sfiancata dalle nebbie −
poserò le mie fughe
al limite di un tempo senza storia

Non abbiamo proposto che saggezze
al vento secco che straziato incalza
da millenni a millenni
e il torpore ha spianato faglia a faglia
il miracolo inquieto dell’amore
che schiantasse radici
gonfie di linfa viva
sulla soglia di un giorno rinviato
ad altro giorno ancora
ad altro, ad altro…

e non rinasceremo
alla grazia solare dell’estate

e, passando di strato in strato, da «da millenni a millenni / […] faglia a faglia», conduce a un tempo-luogo «su cui il mito affiora a codificare nel simbolo l’implicito, l’inconscio, il non codificabile».3 La poesia, dunque, si configura come rappresentazione che, essendo legata alla parola, al linguaggio verbale, più che subconscia è, per meglio dire, preconscia. Ma in che modo la parola consentirebbe alla Verbaro di pervenire a ciò che è implicitamente presente nell’attività mentale? Si conoscono bene, del resto, le difficoltà che Freud stesso aveva dovuto affrontare nel definire lo spazio del subconscio e che lo avevano indotto ad abbandonare tale categoria, preferendole quella di preconscio ed è quest’ultima che qui si sceglie per definire lo spazio virtuale all’interno del quale si muovono i versi della Verbaro.

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Cos’è, d’altra parte, il subconscio? Ciò che è debolmente conscio? Oppure ciò che si trova nella psiche al di sotto della soglia della coscienza? Oppure ciò che ad essa è precluso?

Si potrebbe dire che lo spazio preconscio, restando implicito, qualifichi ciò che sfugge alla coscienza; ed effettivamente lo fa, mediante il vaglio di una censura che, a un estremo, evita che i contenuti inconsci trovino la via per il preconscio e la coscienza, facendoli passare come in una strettoia; all’altro, controlla l’accesso alla coscienza, essendo in grado di selezionare i contenuti sui quali esercitare la propria attenzione. La bio-parola della Verbaro individua e descrive il residuo cosciente delle preoccupazioni perturbanti presenti nella sua esistenza; il soggetto, così, è perfettamente in grado di rievocare i propri ricordi lungo un viaggio poetico − tra memoria e mito, al limite di un tempo senza storia − che adegua una località psichica (psychische Lokalität, diceva Freud) a un sapere cosciente ma che, cionondimeno, non è dotato di una scansione predeterminata ed esatta.

Ciò avviene perché la poetessa, nei versi qui trascritti così come in altre occasioni, brandisce l’estraneità di ciò che le è familiare, situandosi in un altrove privo di ordinamento − dove il vento diviene sterminato e straziato e straziata è anche la morte, dove i passi sono innumerabili e il miracolo dell’amore è inquieto − la cui idea non può essere immediatamente analogica, ma che, nondimeno, le consente di instaurare un rapporto produttivo con il suo Io e con l’ambiente che lo circonda. Ciò, peraltro, chiarisce la funzione che − a detta della stessa Verbaro − ha avuto la poesia nel corso della sua esistenza: vale a dire, come preannunciato all’inizio, mappa, bussola, rotta, ragione e mezzo d’indagine di un’intera esistenza.

 1 S. Lanuzza, Lo sparviero sul pugno. Guida ai poeti italiani degli anni ottanta, Milano, Spirali, 1987, p. 256.
2G. Verbaro Cipollina, Le alchimie dello stregone. Appunti e riflessioni sulla poesia italiana degli anni ’80, Soveria Mannelli, Catanzaro, 1984, p. 60. Il saggio dal quale si trae la definizione riportata introduceva già la bella antologia intitolata Poeti della Calabria e curata dalla stessa poetessa nel 1982 per i tipi di Forum / Quinta Generazione; la citazione figura a p. 20.
3È quanto sostiene la stessa Verbaro Cipollina nella nota introduttiva a Mediazioni e ipotesi di maschere, silloge del 1985 già citata più in alto (p. 9).

 

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LA COSTITUZIONE MANCATA A NAPOLI di Cesare Imbriani – Numero 3 – Gennaio 2016

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Avrei potuto, anzi forse dovuto titolare le poche cose che dirò: “i Borbone e le Costituzioni mancate” o, meglio, “i Borbone e le occasioni mancate”, riferendomi così ai vari problemi di politica interna e internazionale, un insieme di nodi irrisolti o mal gestiti la cui somma si è riflessa alla fine nel dissolvimento del Regno delle due Sicilie. Basti ricordare la “questione dello zolfo”, che vide coinvolte con differenti ruoli le due maggiori potenze dell’epoca, Inghilterra e Francia, oppure la necessità della riconquista della Sicilia manu militari da parte di un sovrano della dinastia restato nel dire comune (dopo il bombardamento della città di Messina) con l’appellativo di Re Bomba, o ancora le mancate risposte ad una laicizzazione costituzionale in una Europa che era una polveriera di richieste di rappresentatività democratica.
Ho scelto invece di riferirmi alla Costituzione Napoletana del 1820/21 per tre ordini di motivi:
1- Perché, nei fatti, ritengo che, insieme ai noti problemi interni del Regno delle Due Sicilie (legati essenzialmente al mancato costituzionalismo ed anche ai problemi della annessione in una logica di stato unitario del Regno di Sicilia), la fine dello

 

LA COSTITUZIONE MANCATA
A NAPOLI

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In definitiva si può ritenere che il 1820/21, per dirla con un termine molto usato in economia, rappresenti una sorta di benchmark interpretativo. In tale periodo re Ferdinando, stretto dai suoi rapporti con l’Austria per la attuazione ed il rispetto degli impegni derivanti dal Congresso di Vienna, ma anche da quelli della restaurazione del Regno fece esporre il figlio Principe vicario Francesco che, quale suo mandatario, promulgò una Costituzione sul modello di quella spagnola di Cadice.

Ciò però si realizza in un quadro di costanti e mancate risposte istituzionali e politiche da parte dei Borbone alle problematiche interne specie al costituzionalismo, di cui quello del 1820/21 fu una occasione a mio avviso stoltamente mancata, perché avrebbe consentito alla Casa regnante di collocarsi dal lato giusto della storia.
2- Certo, e siamo al secondo motivo, anche (per alcuni, soprattutto)

l’ottuso rifiuto di una effettiva modernizzazione istituzionale – dopo il periodo rivoluzionario del 1789 e quello murattiano dell’inizio del secolo – ebbe un ruolo fondamentale e favorì nel momento della dissoluzione del Regno

davanti alla avanzata delle truppe garibaldine (in palese violazione del diritto internazionale) un comportamento di non interventismo, un benign neglect all’incontrario, delle varie potenze: tale atteggiamento riguardò oltre a Francia e Gran Bretagna (come poteva essere prevedibile), persino l’Austria, frenata nel suo intervento anche dalle superiori capacità della flotta inglese. La Prussia era invece distante, ancora in crescita ed alla ricerca di un consolidamento di ruolo in Europa; la Spagna era ormai troppo debole e poco ascoltata nel contesto dell’equilibrio dei poteri. Solo la Russia cercò di intervenire diplomaticamente davanti all’evidente sopruso militare e politico che veniva perpetrato, anche in ricordo dell’atteggiamento a lei favorevole del Regno delle Due Sicilie in occasione della Guerra di Crimea, quando di contro il Piemonte le si era schierato contro con Francia e Gran Bretagna; ma ciò non bastò.
3- Ecco, quindi, e siamo al terzo motivo, l’importanza politica della vicenda del 1820/21 e della

Costituzione

(concessa dopo moti insurrezionali di matrice carbonara che coinvolsero guarnigioni nella zona di Nola – gli ufficiali Morelli e Silvati, il prete Minichini – e poi in Irpinia), la quale

avrebbe collocato il Regno napoletano dal lato delle monarchie costituzionali, prima di tutte nell’Italia Continentale.

Per il vero, una prima Costituzione sulla falsariga di quella inglese fu concessa dai Borbone alla Sicilia nel 1812,quando la parte continentale del loro Regno era sotto il dominio francese nella persona di Murat. Tale costituzione viene quindi correttamente ricordata come l’assetto costituzionale italiano che anticipò il normale decorso di democratizzazione già implicito nelle dinamiche risorgimentali; purtroppo la Sicilia, nell’ambito delle sue continue vicende indipendentiste, quando si concretizzò una Costituzione ispirata da Lord Bentinck, la vide dismessa nel successivo accorpamento unitario del Regno di Borbone. Ed è ben noto che la mancata risoluzione, almeno in termini federali, della questione siciliana fu un altro fondamentale motivo di debolezza del Regno napoletano.

all’inizio del 1821, Re Ferdinando l si recò a Lubiana, al Congresso convocato con fini di Restaurazione dopo i moti insurrezionali di quel periodo; promise solennemente nel partire da Napoli, che avrebbe difeso e giustificato la Costituzione nel consesso delle altre nazioni.

Era una Costituzione con evidenti limiti istituzionali, ma rappresentò un’occasione importante perché era determinata in un clima sicuramente lealista rispetto all’istituto monarchico. Gli stessi deputati dell’epoca, tra cui Giuseppe Poerio, padre del più noto Carlo (storicamente conosciuto, perché alcuni anni dopo divenne un simbolo internazionale della repressione delle libertà attuate dai Borbone) erano per la massima parte fedeli all’istituto monarchico, seppur recependo le abbondanti tracce dell’illuminismo locale.
In ciò Napoli dopo le esperienze rivoluzionarie del 1799 e l’epoca murattiana, piena di cambiamenti ideali e strutturali, si era sempre differenziata idealmente e culturalmente dall’altra “capitale agognata”, Palermo, dove invece il riconoscimento del Regno passava attraverso un complicato gioco di richieste di rappresentatività politica e gestionale, al fine di ripristinare autonomie statuali, che configgevano con l’atteggiamento fortemente unitario, da un punto di vista politico ed economico, dei Borbone.
Ma i patti sottoscritti non furono rispettati:

la Costituzione del 1820, seppure nei suoi limiti, era la cosa giusta al posto giusto, nel momento giusto, da un lato, per allentare la sudditanza verso l’Impero Austro-ungarico (che a sua volta si dissolse nel 1918,cioè meno di sessanta anni dopo il Regno delle due Sicilie); dall’altro, per far divenire lo Stato napoletano un Attore rispettato ed autorevole del processo di unità nazionale, che all’ epoca perseguiva anche vie federaliste;

Viceversa, la sua richiesta di intervento giustificò una spedizione di truppe austriache, che attraversò la penisola e si scontrò con l’esercito napoletano guidato dal generale Guglielmo Pepe nei pressi di Rieti e poi alle gole di Antrodoco.
La sconfitta dell’esercito costituzionale comportò il ripristino di un regime di monarchia assoluta nel Regno delle due Sicilie; le dolorose esecuzioni di vari rivoltosi, seppur leali ad un istituto monarchico costituzionale, la diaspora dei Deputati del primo Parlamento napoletano ed il pagamento per molti anni del corpo di spedizione austriaco (una sorta di beffardo tutoraggio, come ancora oggi si vede nel contesto delle relazioni internazionali) furono i dolorosi residui di una vicenda che peserà negli anni a venire, sconnettendo la intellighenzia risorgimentale del Sud dai destini dei Borbone. Per inciso, il generale Pepe lo ritroviamo nel 1848 a difendere Venezia per poi morire nel 1855 esule a Torino.
Insomma,

tutto ciò avveniva ben prima che il Piemonte si impossessasse di quel ruolo che ci condusse all’unità nazionale.

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TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE di Titta Mancini – Numero 3 – Gennaio 2016

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Infatti, è essenzialmente poverissimo nella fattura, costruito con materiali facilmente offerti all’uomo dalla natura – pelle animale (di capra o capretto), legno e, a volte ma non sempre, pezzetti di latta o altro metallo di poco valore per i piattini (o cimbali) di accompagnamento lungo il bordo. 
Il nostro tamburello italiano o tamburo – ce ne sono di diverse circonferenze – è detto ‘a cornice’ proprio per la cornice di legno che contorna la pelle animale sulla quale il percussionista batte il tempo, dando origine alla vibrazione sonora, che costituisce la musica del tamburo, o se vogliamo, la sua voce.

TAMBURO, IL RITMO DEL CUORE

 

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Il tamburo è l’unico strumento musicale presente in tutte le culture del mondo, dagli indiani d’America all’estremo Oriente, dal nord Europa all’Africa, e il Mediterraneo dall’Italia al mondo arabo. Questo, in ogni epoca della storia. Ci sono testimonianze primitive dell’uso di strumenti a percussione di forma circolare. A noi vicine, le immagini dell’epoca fenicia o romana:

Una danza continua, le cui movenze ricordano i nostri antenati, il viaggio che dalla semina conduce al raccolto. Che lo si eserciti come ballo o che soltanto lo si apprezzi per il valore simbolico.

Sono soltanto esempi. L’iconografia ne è ricca, sia popolare laica, sia cattolica cristiana.
Dalle origini mitologiche all’uso nei campi, più di recente. La storia del nostro paese e, in particolare, del Sud, ci consegna la musica popolare come madre di ogni ritmo. Non a caso l’universalità dello strumento descritto, come si diceva, presente in ogni continente, nasce proprio dalla sua peculiarità:

le sacerdotesse fenice usavano suonare il tamburello nei riti propiziatori per la fertilità; i romani lo utilizzavano ad accompagnare le feste dionisiache, vino, canti e musica nelle ville di Pompei, e lo raccontano gli stessi affreschi salvati dalla distruzione della città antica.

Ci sono anche uomini e donne, per lo più anziani oggi, che hanno creato maniere di suonare, stili, che portano quindi il loro nome, alla maniera di…
Si accennava al mondo dei campi. Dal medioevo ad oggi la musica popolare, con il suono del tamburo, semplice, potente, evocativo, profondo o acuto, è servita a più scopi. Sul ritmo nascono rime e invocazioni, proteste e incoraggiamenti, riti propiziatori di derivazione pagana in favore della fertilità in senso lato, dell’amore come forma di corteggiamento, provocazione, sfida. Il lavoro nei campi e la fatica di guadagnarsi il pane, la necessaria ricompensa e la protesta in caso contrario, in nome di una sociale giustizia. Sono tutti temi che hanno attraversato il canto popolare dando corpo, voce e musica proprio a questi sentimenti di comunanza.

Il culto mariano, soprattutto nella regione Campania, ha riadattato la musica popolare in chiave religiosa, sacra; il popolo con le cosiddette ‘tammurriate’ (e qui il tamburo usato è di dimensioni più grandi, la tammorra) si rivolge direttamente alla Madonna

Il tamburo non è l’unico strumento del mondo popolare – spesso ad esempio è accompagnato da piccole nacchere o castagnette (così dette nel vesuviano), indossate e suonate dai danzatori sul ritmo della percussione – ma è certamente, il tamburo, l’oggetto musicale che meglio rappresenta nella sua stessa struttura la filosofia della musica nata dal popolo: una musica ancora viva nel nostro Sud e che continua a garantire il legame profondo che unisce l’uomo meridionale alla sua storia. E’ una musica circolare. Come il sole, come la luna, come il ciclo intero della vita.

il tempo sul tamburo rievoca, o addirittura imita, il ritmo del cuore. Il primo e più antico suono che l’orecchio umano abbia mai percepito, addirittura in se stesso.

(sette Madonne, secondo la tradizione quasi leggendaria, sette Sorelle, sei belle ed una nera), per una grazia che si chiede cantando e suonando. 
Il suonatore e i danzatori: nella cultura salentina, leccese, il tamburo accompagna invece il violino perché la musica ripetuta e ipnotica risvegli nella tarantata, quasi sempre donna, le capacità innate di guarigione, contro il veleno del ragno. E qui parliamo di pizzica: il morso vero o presunto, reale o immaginato, sempre certamente simbolico, l’espiazione del male e la liberazione attraverso la musica. 
Difficile sintetizzare in poche righe la sacralità che accompagna l’uso del tamburo anche laddove il rito o l’iniziativa musicale prende forma da una semplice necessità di aggregazione, come la festa, una tarantella via l’altra; c’è sempre nel sottofondo del ritmo il passo antico di una sonorità che ci appartiene, nel profondo. Quasi magica. Come la terra, la nascita, il cuore che batte.

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E forse ancor prima di nascere. Ecco il battere sulla pelle animale. E non c’è niente di scritto in questa musica che si tramanda di generazione in generazione, di padre in figlio, di nonno in nipote. E’ a trasmissione orale e manuale: il movimento delle mani, quella che regge lo strumento e quella che lo percuote, dall’impugnatura alla riproduzione del suono in tempo binario o terzinato, si impara osservando e provando assieme al maestro della tradizione, in genere un riconosciuto ‘grande vecchio’ del paese,

così al Sud, dove ancora è molto forte la cultura della musica sul tamburo e altrettanto forte la gelosia che accompagna la sapienza. Tecniche conosciute da centinaia di anni, ma riposte nelle mani di pochi.

Per accordare un tamburo servono acqua e fuoco, acqua per allentare la pelle, fuoco per renderla più tesa. Umidità e calore. E torniamo alle origini, per fare musica.

 

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BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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étaient les outils les plus courants dans les mains des jeunes Siciliennes qui préparaient anxieusement leurs trousseaux, en espérant pouvoir un jour exhiber leurs travaux avec l’audace propre aux maîtresses de maison. Pendant longtemps, les villes de cette île, complexe et mystérieuse, furent décorées de la beauté et de la finesse des broderies et des dentelles qui parvenaient à rendre précieux chaque recoin des maisons, chaque bannière des autels des églises, même ce qui se portait mais devait rester secret.

De la dentelle sicilienne, du macramé, du crochet et de la broderie, Domenico Dolce et Stefano Gabbana, ont fait un « must »: ce n’est pas un hasard si le mot dentelle fait immédiatement penser à la dentelle noire qui les a rendu célèbres.

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BRODERIES ET DENTELLES. “DERRIERE LA FENETRE D’UNE VIEILLE MAISON”

 

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Ces arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieuxCes arabesques rappellent la créativité des artisans capables de travailler la céramique, le bois et l’argile. Au fond, il s’agit de transformer le fil en sculpture, un y appliquant une maîtrise patiente, que ces femmes mettent en oeuvre en répétant toujours les mêmes gestes, comme si elles chantaient une berceuse dont elles connaissent les paroles par cœur.
Ces oeuvres réalisées, point après point, dans une alternance harmonieuse de pleins et de vides, rendent les nappes et les draps précieux

Les mains nerveuses tissent depuis des siècles dans les cours des maisons ce simple fil qui, par ses tours et ses acrobaties, tisse miraculeusement les arabesques à ajuster aux tissus pour les rendre précieux.

Ces broderies et ces dentelles rappellent la lave volcanique qui, en se refroidissant garde en elle l’air bleu et le parfum des genêts.

Les créations de Marras respirent l’excentricité et tournent autour de couches et d’incrustations de tissus et de broderies, qui racontent l’histoire mouvementée de sa terre, dans une succession d’influences et de cultures, et les rendent similaires à une roche sédimentaire.

En Sicile la dentelle se travaille toujours et la tâche est confiée aux femmes plus âgées, pliées sur leurs petits cadres ronds.
Les après-midi d’été, les cours des maisons anciennes deviennent leur refuge préféré loin de la chaleur de l’été. De « derrière la fenêtre d’une vieille maison», comme le chante Battiato dans «Mal d’Afrique», aux grandes multinationales du luxe, le chemin est court: les styles du passé se modernisent pour faire place à des versions plus contemporaines.

Fluide, magmatique et inoubliable, comme le feu qui jaillit de l’Etna, tel fut le défilé des modèles (à la fin du défilé automne / hiver 2013-2014) qui portaient sur leurs corps l’arrogance de la lave incandescente sur laquelle le jais jet le strass brillaient comme des joyaux . Le travail des brodeuses expertes enchante aussi la designer milanaise Luisa Beccaria qui a hérité de son mari, le noble Bonaccorsi de Reburdone, cette attitude typiquement sicilienne, et réalise des vêtements néo-romantiques de style préraphaélite, en broderie anglaise et macramé, mais aussi des jupes évasées qui incluent des pièces en dentelle.

Gonflées de crinolines, les robes de soirée en taffetas sont de véritables œuvres d’art de la Renaissance, légères et transparentes et savent comment mettre en valeur le travail laborieux qui produit les dentelles aériennes.

A Alghero également, dans la Sardaigne de Antonio Marras, les dentelles sont un élément essentiel de la culture de l’île. Dans la signature stylistique de la créatrice il y a a eu il y aura probablement toujours de la place pour la broderie, la dentelle de Bosa et les autres productions manuelles qui sont au coeur de l’artisanat sarde.

Si pendant longtemps on a essayé de donner de la légèreté aux vêtements, de les rendre aussi impalpables que des cristaux de sucre grâce aux dentelles et aux broderies, il ne faut pas oublier que cet effet est le résultat d’un travail savant et minutieux, qui cache les idées et les géométries de ceux qui réussissent à créer avec très peu, des nuages d’une telle beauté.

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LIBRERIA MARESCRITTO di Matteo Eremo – Numero 3 – Gennaio 2016

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“Il seguente articolo – estratto da un racconto più ampio contenuto nel volume: La voce dei libri II. Storie di libraie coraggiose raccolte e raccontate da Matteo Eremo – è qui pubblicato per gentile concessione dell’editore Marcos y Marcos e dell’autore”.

Immaginate una libreria vicino al mare, in Salento, in uno dei punti più estremi della nostra penisola, a due passi dalle coste dell’Albania e della Grecia. Immaginate un luogo minuscolo ma coloratissimo, dove è possibile sfogliare le pagine di un libro con in sottofondo le note celestiali di un capolavoro come Kind of Blue di Miles Davis.

a Tricase, fino a quel momento, non c’era stata richiesta di libri perché era mancata l’offerta, non il contrario. Il problema non era aprire una libreria al Sud ma, semmai, superare i pregiudizi. Perché la gente desiderosa di leggere c’è, eccome: bisogna solo offrire un servizio e un luogo adatti alle loro esigenze.

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LIBRERIA MARESCRITTO

 

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Un tempietto consacrato all’olimpo dei libri da una giovane donna che, dopo essere emigrata al Nord come tanti suoi conterranei del Sud, ha deciso di tornare nella propria città di origine per aprire una libreria. Sì, avete capito bene. Vendere libri nella più periferica delle periferie, dove nemmeno le librerie di catena osano andare, in una piccola cittadina del Capo di Leuca, al confine tra due mari: l’Adriatico e lo Ionio.

Letture contro i pregiudizi

 

“A vent’anni” racconta Isabella “ho sentito una forte esigenza di compensare le mie lacune culturali. Si trattava di un’autentica necessità di emancipazione da certi limiti del pensiero, di liberarmi da quelle che Henry Miller chiama ‘pastoie della propria natura’. Cercavo letture in grado di farmi vedere le cose da un punto di vista alternativo. 
“È così che è avvenuto l’incontro con gli autori che più amo e da cui mi sono lasciata influenzare: Marguerite Duras, Céline, Kafka, Simone de Beauvoir, la Beat Generation, Musil, Pasolini, Boris Vian, John Fante… Lo definirei un vero e proprio punto di non ritorno. Già mentre mi immergevo per la prima volta in quelle letture scoprivo nuovi orizzonti di senso. I miei libri erano tutti sottolineati, annotati, con le pagine usurate e ingiallite per il mio continuo soffermarmi su passaggi che ritenevo illuminanti.
“Mentre studiavo e lavoravo saltuariamente, ho cominciato a chiedermi cosa volessi fare nella vita, finché non ho raggiunto i miei fratelli a Bologna. Lì, all’ombra delle due torri, mentre mi reinventavo in diversi ruoli, mi sono posta la fatidica domanda: perché non aprire una libreria a Tricase, dove sono nata e cresciuta? 
“Gli aspetti positivi che potevano decretare la buona riuscita dell’impresa non mancavano di certo in quel periodo, alla fine degli anni Novanta. Pur essendo il centro più grande del Capo di Leuca, innanzitutto, Tricase aveva qualche piccola cartoleria rifornita di scolastica, ma nemmeno una vera libreria. Poi si trovava a soli tre chilometri dal mare, in una posizione privilegiata. 
“All’epoca, inoltre, stava per esplodere il fenomeno del Salento, con la riscoperta di forme musicali come la pizzica e la taranta. Eravamo ancora lontani dal successo turistico di oggi, ma già in quel momento si poteva intuire che ci sarebbe stato un grande rilancio della mia terra. Avevo però un dubbio: perché nessuno aveva aperto una libreria a Tricase? 
“All’epoca, purtroppo, ero ancora vittima del preconcetto secondo il quale al Sud è tutto più difficile. Per tanti anni, d’altronde, i nostri giovani sono emigrati al Nord o all’estero rafforzando una paura e un complesso di inferiorità con il quale chi nasce nel meridione prima o poi deve fare i conti. 
“La situazione, in realtà, è diversa:

Isabella Litti, l’intraprendente e coraggiosa libraia di Marescritto, è un perfetto testimonial della forza e della portata, troppo spesso sottovalutate, dei libri. 
La sua vita è infatti segnata da un netto spartiacque: c’è un prima e un dopo aver cominciato a leggere. E il dopo, ça va sans dire, è tutta un’altra storia.

“Un contesto in cui rientra anche la riscoperta della lentezza, una virtù messa in cattiva luce da una società frenetica, iperproduttiva e isterica. Del resto, chi l’ha detto che la velocità è tutto? Al contrario, come ci insegna Franco Cassano con una bellissima metafora, dovremmo ‘essere lenti come un vecchio treno di campagna, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina’. 
“Il futuro dei libri, non solo quello del Sud, passa anche da concetti come questo”.

basta leggere un libro come Il pensiero meridiano di Franco Cassano per assumere tutta un’altra prospettiva e capire che occorre restituire al Sud la sua antica dignità di soggetto del pensiero, riformulando l’immagine che esso stesso ha di sé. Non più ‘periferia degradata dell’impero’, ma centro di un’identità ricca e molteplice, autenticamente mediterranea.

“Non era un problema di domanda, ma di offerta”

 

L’avventura di Isabella Litti parte ufficialmente nel giugno del 2004, in un piccolissimo locale di appena trenta metri quadrati nel cuore del centro storico di Tricase. 
Il nome, così evocativo e sinestesico, è un omaggio a un ricercato libretto fotografico dell’amata Marguerite Duras: Il mare scritto, appunto. 
L’avvio è tutto in salita. Il budget limitato costringe Isabella a partire con grande cautela, con un catalogo di soli duemila titoli, e a passare attraverso i grossisti.
“Già nel corso del primo anno” ricorda Isabella Litti “ho però iniziato ad avere diversi riscontri positivi e ho capito una cosa fondamentale:

“Rinfrancata da queste considerazioni, ho speso tutte le mie energie per crescere in maniera costante, reinvestendo tutti i guadagni nella libreria: in pochi anni il catalogo è così passato da due a quattordicimila titoli, grazie anche ai rapporti di fiducia sviluppati nel tempo con gli editori”.
Marescritto è un piccolo mondo senza tempo a due passi dalla piazza principale di Tricase, dove svettano le sagome severe di due chiese e il profilo fiabesco del castello, nella cui Sala del trono Isabella organizza spesso le presentazioni. Il locale che ospita la libreria, d’altronde, è troppo piccolo per gli eventi.

La limitatezza degli spazi, però, non è vista dai clienti come un aspetto negativo, anzi. Isabella è infatti riuscita a creare un ambiente estremamente bello, intimo e di qualità. Un luogo vivace, ricco di spunti e di contaminazioni sotto le solide volte a botte del soffitto.

Qual è, dunque, il segreto di questo minuscolo scrigno? “Innanzitutto” spiega la libraia “contano molto il catalogo e la piacevolezza del luogo, entrambi studiati accuratamente. Marescritto si è formata attorno alle esigenze dei lettori, ma tenendo conto dei miei gusti e delle accortezze che studio stando qui, mentre osservo quello che accade in libreria.
“Il secondo segreto è invece la terra su cui sorge. Tricase è una cittadina vivace, con ben tre cinema, e si trova a due passi dal mare, la cui vista opera un vero e proprio sfondamento nel modo di pensare”.

Festina lente

 

Nonostante la sua lontananza rispetto ai grandi centri produttivi del paese, Tricase si è dunque rivelato da diversi punti di vista un luogo privilegiato in cui aprire una libreria. Tanto che Isabella Litti, dopo aver confutato molti stereotipi, ora guarda con estrema fiducia al futuro del libro e del proprio mestiere. 
“Il turismo” spiega la libraia “garantisce un grande volume di vendite da maggio a settembre, ma anche durante tutto il resto dell’anno non ci possiamo lamentare, anzi.

Siamo infatti troppo periferici per subire la concorrenza delle librerie di catena, che non ci pensano proprio ad aprire da noi. E la base di clienti su cui possiamo contare è molto solida, anche perché il Salento, in controtendenza con molte zone del Sud e persino del Nord, subisce sempre meno il problema dell’esodo dei propri giovani.

Molti, anzi, stanno rientrando negli ultimi anni. 
“Col tempo siamo diventati un punto di riferimento per il tessuto sociale del luogo e abbiamo contribuito a rivitalizzare il centro storico. Ora ci sono numerosi ragazzi che vengono qui a chiacchierare e a confrontarsi, comprando tanti libri. Siamo diventati un luogo di aggregazione e confronto”.

Circondato dalle acque del Mediterraneo, a più di mille chilometri dalla frenesia della grande capitale italiana dell’editoria e dell’industria, c’è un Sud che, riscoprendo la propria identità e i benefici della lentezza, va decisamente più forte di tante realtà del Nord.

 

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TERRA LUCANA di Delio Colangelo – Numero 3 – Gennaio 2016

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turistiche, il primo collegamento sarà ovviamente al brand Matera 2019 che contiene una ricca offerta culturale – effettiva e potenziale – innervata di tradizione e innovazione; verranno indicate, poi, la costa ionica, dove tra la sabbia bianca e le Tavole Palatine hanno trovato posto imponenti villaggi turistici, e le rocce a picco sul mare della sofisticata perla tirrenica. Infine, vi saranno sporadiche citazioni dell’area del Vulture Melfese, con i suoi castelli federiciani e il corposo Aglianico, del brivido del volo angelico nelle Dolomiti Lucane e de “l’infinita distesa delle argille aride” osservata da Carlo Levi. Eppure, vi è un’ampia area interna, rigogliosa di natura e cultura, che è ancora poco conosciuta e che rappresenta una sfida fondamentale per i policy maker e per gli operatori economici che desiderano concretizzare attenzione, interesse e flussi crescenti verso la terra lucana.

i 12 siti di importanza comunitaria (SIC), 2 zone di protezione speciale (ZPS), 3 riserve regionali, 3 fiumi e 5 laghi di cui 2 naturali; in sintesi: una straordinaria varietà di ecosistemi e paesaggi, caratterizzati da notevoli risorse faunistiche e floristiche1.

Insieme al Parco Nazionale del Pollino e ai due parchi regionali di Gallipoli Cognato Piccole Dolomiti Lucane e della Murgia Materana, le aree protette della Basilicata racchiudono il 25% del territorio regionale, rappresentando quella “Basilicata Verde” da sempre identificata come asse portante dello sviluppo sostenibile della regione, ad oggi potenzialità solo in parte espressa. 
Il Parco dell’Appennino Lucano si estende nell’area sud-ovest della regione e abbraccia quattro ambiti territoriali: l’Alta Val D’Agri, la Val Camastra, l’alta Val Melandro e il Lagonegrese. In numeri

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1Per approfondire l’aspetto faunistico e floristico dell’area protetta, si veda la pubblicazione realizzata dall’Ente Parco, disponibile al link: http://www.parcoappenninolucano.it/apl/portal?c=35
2Nel 2013 La Fondazione Eni Enrico Mattei ha realizzato il progetto “Green Road Basilicata”: una serie di itinerari tematici per scoprire la cultura e la natura dell’area protetta seguendo il percorso della 598 Fondo Valle d’Agri.
3Per approfondire lo stato attuale e le potenzialità turistiche del Parco si veda la sintesi del rapporto realizzato dalla Fondazione Eni Enrico Mattei in collaborazione con il Ciset, Centro Internazionale di studi sull’economia turistica, pubblicato negli atti del XXXIV convegno Aisre, Palermo 2013: http://www.grupposervizioambiente.it/aisre_sito/doc/papers/De%20Filippo.pdf
4Per un’analisi delle potenzialità di un’offerta integrata si rimanda alla ricerca realizzata dalla Fondazione Eni Enrico Mattei presentata alla VII Riunione Scientifica della Sistur, Università di Foggia 2015, i cui atti sono di prossima pubblicazione.

TERRA LUCANA

 

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Se si pensa alla Basilicata e alle sue risorse 

Una parte consistente dell’area interna lucana, che Rocco Papaleo ha in parte rappresentato con quel suggestivo percorso (Basilicata) coast to coast, è costituito dal Parco Nazionale dell’Appennino Lucano Val D’Agri Lagonegrese.

Un modo suggestivo per godere di questo paesaggio che muta, delle sue peculiarità e dei suoi colori, è quello di percorrere la 598 Fondo Valle d’Agri, che collega la costa ionica con l’autostrada A3, e attraversa buona parte dell’area protetta2. Partendo proprio dalla costa verso la parte interna della regione, si abbandonano le bianche dune e lo struggente paesaggio dei calanchi per varcare i confini del Parco. A segnalare l’ingresso nell’area protetta è lo scenario mozzafiato della Murgia di Sant’Oronzo: alti pinnacoli conglomeratici e pareti a strapiombo che sono bastioni naturali, simili a montanti di un antico cancello. Per alcuni kilometri si costeggia la Diga del Pertusillo, un lago artificiale realizzato negli anni ’60 che, pur avendo in parte stravolto il paesaggio della valle, l’ha arricchito di un nuovo e importantissimo habitat dove trovano rifugio numerose specie tra cui la lontra europea. Attraversando le alte vette della Val d’agri, come il Monte Raparo e il Monte di Viggiano, si può osservare come il fiume Agri abbia modellato un’ampia vallata, aspra e montuosa. Il Monte di Viggiano e, più a sud quello del Sirino, d’inverno diventano location di sciate e di ciaspolate notturne, mentre d’estate sono attraversati dai turisti amanti del trekking. L’ambiente montuoso è poi caratterizzato da importanti faggete come quelle di Arioso e Monte Ruggio, l’abete bianco dell’Abetina di Laurenzana e le numerose specie di orchidee che si trovano nella zona di Moliterno.

La geografia dei luoghi, assecondando le correnti della storia, ha consegnato al Parco dell’Appennino Lucano un patrimonio prezioso e quanto mai vario: dai borghi ai monasteri eremitici e comunitari, dai castelli e le roccaforti ai palazzi nobiliari di epoca moderna.

Vanta un territorio caratterizzato da importanti peculiarità archeologiche la Val d’Agri, di cui la più significativa è l’Area Archeologica di Grumentum, così come interessanti sono il sito archeologico di Torre di Satriano, che ha restituito tracce di frequentazione antropica del II millennio a.C. il Santuario di Serra Lustrante ad Armento.
Non possono mancare prodotti tipici di prima qualità. All’interno del parco sono presenti due prodotti a marchio IGP: il formaggio “Canestrato di Moliterno Stagionato”, cui è dedicata una sagra nel mese di agosto, e il fagiolo di Sarconi, coltivato in oltre 20 ecotipi locali. A marchio DOC è, poi, il vino Terre dell’alta Val d’Agri, prodotto nei comuni di Viggiano, Grumento Nova e Moliterno. 
Va, infine, ricordata la risorsa petrolifera contenuta nell’area della Val d’Agri, che rappresenta il più grande giacimento on-shore d’Europa. L’intensa attività estrattiva – che corrisponde a circa il 7% del fabbisogno nazionale – se da una parte incide sul territorio e sull’ambiente, dall’altra viene limitata e contenuta proprio dall’azione di conservazione del Parco.

L’Ente Parco, infatti, nasce nel 2007 dopo anni di riflessioni e dibattiti ed è il più giovane d’Italia. Parallelamente all’attività di conservazione, ha attivato soprattutto negli ultimi anni una serie di iniziative di promozione e valorizzazione delle proprie risorse3.

Un importante successo è stato l’ottenimento nel 2013 della Carta Europea del Turismo Sostenibile, che ha permesso al Parco di entrare nel network delle aree protette europee e di attivare azioni per lo sviluppo sostenibile del territorio. Recentemente, vi sono stati gli eventi “Fuori Expo” organizzati a Milano in concomitanza con l’Esposizione Universale; il più importante, dal titolo “Appennino nel Mondo”, ha messo insieme Il Parco dell’Appennino Lucano e il Parco dell’Appennino Tosco-Emiliano per una riflessione sulle potenzialità del turismo di ritorno per le aree protette. Altra iniziativa importante è il progetto “NaturArte”, che consiste in una serie di iniziative di musica, trekking naturalistico, tradizioni popolari e degustazioni enogastronomiche realizzate nelle quattro aree protette lucane e finalizzate non solo a incrementare l’offerta turistica, ma anche ad avvicinare i parchi tra loro. Ciò dimostra la consapevolezza di quanto sia fondamentale la costruzione di un’offerta integrata4 di tutte le risorse naturalistiche e culturali dei parchi come unica strategia vincente per promuovere una Basilicata che non è solo Matera e le coste.

 

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO di Lorenzo Canova – Numero 3 – Gennaio 2016

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un codice visionario di immagini lanciate nel futuro, uno spazio celeste in bilico tra immaginazione e realtà: dopo un secolo, Mino Delle Site continua a trasportare i suoi spettatori in un vortice di pittura sospeso tra cielo e terra, in un universo parallelo che ci rivela costellazioni ignote e ci fa scoprire volti nuovi del mondo che credevamo di conoscere.

Nel suo turbine futurista, Delle Site viaggia nel tempo unendo epoche e stili, fondendo in modo profetico la pittura al mondo digitale, aprendosi allo spazio della vita attraverso l’architettura e i mass media, lavorando nel cinema e preconizzando gli intrecci visivi della nostra epoca.

Delle Site, infatti, come tutti i grandi futuristi, da Marinetti a Boccioni o a Balla, ma anche come il suo amico Prampolini, paradossalmente può essere più apprezzato oggi che nella sua epoca, ammirando il suo metodo costruttivo fatto di rotture di tradizioni e di aperture di nuove prospettive, di fasci luminosi e di interazioni tra piani spaziali e visivi, anticipando sviluppi interattivi e i dati di una percezione del domani.

La pittura di Delle Site trova dunque una giusta collocazione in un contesto che oltrepassa addirittura la dimensione ristretta delle arti visive e si colloca in quel contesto allargato attuale che Marinetti aveva previsto, ad esempio, nella sua difesa della pubblicità come nuova forma d’arte lanciata sulle strade come nuovi musei urbani e nella sua volontà di utilizzo consapevole dei mass media. 
Così le immagini di Delle Site, come quelli di altri grandi aeropittori come Dottori o Tullio Crali, precorse da quelle di Boccioni e di Severini, presagiscono le nostre visioni della terra vista dai satelliti, le mappe di Google Earth e la nostra realtà aumentata dove tutto si fonde in un intreccio simultaneo.

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MINO DELLE SITE COSMICO E PROFETICO

 

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Le diagonali di Delle Site tagliano allora il quadro e lo ricompongono, le linee fissano orbite astrali e configurano viaggi interplanetari, le geometrie convergono verso punti di fuga allucinati e iperbolici: l’autore rende tattile l’accelerazione della pittura che si trasforma in un vettore di luce per fendere i territori sorvolati dall’artista-pilota con i suoi tagli cromatici che bruciano le coste, i mari, le nuvole e i cieli come razzi sparati dall’occhio sovrumano del pittore demiurgo. 
Così, quando saremo immersi nel delirio visivo delle metropoli contemporanee, come, ad esempio, tra gli schermi interattivi e sbalorditivi di Times Square o se ammireremo gli effetti speciali di Star Wars o di Interstellar, ci potremo ricordare di artisti come Mino Delle Site che hanno contribuito a creare questo immenso mosaico visivo contemporaneo incrociando la loro ricerca e dirigendola verso i confini infiniti di uno spazio oltreumano, dove la conoscenza trova nuove frontiere, dove il viaggio incontra nuovi porti e dove, forse, le dita stesse di Dio giocano con il firmamento ricomponendo in eterno l’ordine cosmico del giorno e della notte.

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Delle Site si apre quindi all’avvenire con una pittura raffinatissima che divora la tradizione per farla rinascere con nuove forme, diventa elettronico usando ancora i pennelli e le velature dell’olio e dei pigmenti, supera lo spazio e il tempo lanciando la sua pittura su rotte interstellari al di là della nostra galassia.

 

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L’ECO DEL MOLISE LE CAMPANE DELLA PONTIFICIA FONDERIA MARINELLI di Sergio Spatola – Numero 3 – Gennaio 2016

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L’ECO DEL MOLISE
LE CAMPANE DELLA PONTIFICIA FONDERIA MARINELLI

 

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Non è strano che Antonio Pascale abbia scritto “che il Molise si deve essere vendicato di quell’abbandono. Con le campane. Quell’eco è appunto del Molise che risuona in tutto il mondo”.

Peso, spessore e circonferenza sono le variabili che creano il timbro della campana, rapporti definiti per la prima volta da Diderot nell’Encyclopédie e che ancora oggi sono capisaldi della “scala campanaria”.

Tanto importanti sono le campane della Pontificia Fonderia che risuonano dalla Torre di Pisa, dal Santuario della Beata Vergine del Rosario di Pompei, dall’Abbazia di Montecassino, dalla Cattedrale di Buenos Aires.
Ne sono state commissionate e benedette da numerosi pontefici, quali Pio IX, Giovanni XXIII, Giovanni Paolo II Benedetto XVI e Francesco. Ne è stata commissionata, da ultimo, una di ben 850 kg di bronzo puro per Expo 2015.
Per una campana a regola d’arte occorrono molti mesi di lavorazione e diversi passaggi, tutti fondamentali.
Si passa dalla creazione dell’“anima” in mattoni alla copertura di questa con strati di argilla, con l’ausilio di una guida in legno. Sull’argilla – adatta a resistere all’azione erosiva del bronzo liquido durante la colata – vengono riportate le decorazioni e iscrizioni in cera – tra i quali lo stemma pontificio di cui i Marinelli si possono fregiare dal 1924 – così da arrivare alla creazione della falsa campana.
Falsa, perché si tratta di uno stampo da cui verrà ottenuto il negativo (il mantello), sovrapponendo altri strati di argilla lasciati essiccare tra un’applicazione e l’altra. 
Durante la fase di essiccazione, eseguita con carboni ardenti, la cera di cui sono costituiti i fregi si scioglie venendo assorbita dall’argilla (procedimento a cera persa) così da consentire di sollevare il mantello – nel quale restano impresse in negativo le decorazioni ed iscrizioni – e di liberare l’“anima” della campana.
A questo punto il mantello viene ricollocato sull’anima così da creare lo spazio vuoto in cui verrà colato il bronzo liquido (78 pari di rame e 22 di stagno).

Ed ecco arrivare la parte più suggestiva e religiosa della creazione: il mantello sotterrato in una fossa in corrispondenza dei forni, viene riempito dal bronzo liquido il quale, una volta raffreddato, viene liberato dando vita alla campana.

Questo ed altro si può osservare facendo visita alla Pontificia Fonderia Marinelli, dove, fatta una visita al suggestivo museo in cui sono conservati reperti antichissimi – come l’edizione olandese del 1664 del “De tintinnabulis”, vera e propria “Bibbia” dell’arte campanaria – e testimonianze fotografiche e campane commemorative, si può assistere, nella sala della Fonderia, ad un “concerto” di campane, previsto anche per commemorare il disastro avvenuto nel Terremoto del Molise del 2002.

Da trenta generazioni, dunque, i Marinelli si trovano ancora dove gli avi hanno impiantato il nucleo produttivo della fucina che oggi è divenuto un museo sotto la spinta della nomina, da parte dell’UNESCO, di “patrimonio dell’umanità”.

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E’ facile dimenticare un Sud così produttivo nell’odierno caos mediatico privo di approfondimenti. Myrrha vuole invece preservare e custodire questa memoria perché, come i rintocchi delle campane create dalla famiglia Marinelli, possa ricordare con eco costante, l’immenso giacimento culturale e artistico del Mezzogiorno.

Neanche la dominazione tedesca ha fermato questa famiglia, costretta ad abbandonare la Fonderia – divenuta Pontificia nel 1924 ad opera di Papa Pio IX -, nel frattempo trasformata all’uopo in fucina di creazione di armi da guerra.
La passione di una generazione di campanari si può “toccare con mano” andando a trovare la famiglia Marinelli nella fucina, ove la tecnica di creazione della voce angelica è rimasta immutata.
I Marinelli vi diranno che per la riuscita di una buona campana, è fondamentale attenersi a regole e misure ben precise, da secoli e secoli. Un suono che può essere deciso in fase di progetto e adattato alle esigenze del cliente.

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LA SANITÀ MODERNA “UNDER THE SICILY SUN” di Maurizio Campagna – Numero 3 – Gennaio 2016

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Quando si è moderni? Si è moderni quando non si teme il cambiamento. Quando, ad esempio, si fa apparire qualcosa come inesorabilmente superato. E quando si è moderni in sanità? Quando si supera un concetto vecchio di assistenza e si accoglie un significato nuovo di benessere; quando, cioè, la salute all’interno delle strutture diventa uno stato soggettivo e smette di essere solo una dimensione oggettiva coincidente con l’assenza di patologie.

LA SANITÀ MODERNA “UNDER THE SICILY SUN”

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Finalmente insieme, gestione clinica e organizzativa, senza essere l’un con l’altro armate. In questo connubio vi è finalmente il riconoscimento che le aziende sanitarie sono strutture complesse dove i professionisti della salute devono coabitare con i titolari delle funzioni gestionali.

non solo quando si ha la disponibilità dell’ultima versione della tecnologia sanitaria, ma quando la struttura è permeata da una cultura aziendale industriale, orientata ai risultati;

C’è progresso

Così l’Istituto Mediterraneo per i Trapianti e Terapie ad Alta Specializzazione (ISMETT) di Palermo sembra seguire l’imperativo del poeta “Bisogna essere assolutamente moderni”
“Geneticamente” l’ISMETT è un contenitore di innovazione. Frutto della partnership internazionale tra la Regione Siciliana per il tramite dell’Azienda Ospedaliera di Rilievo Nazionale e di Alta Specializzazione (ARNAS) Civico di Palermo e l’UPMC (University of Pittsburgh Medical Center), l’Istituto è un esempio del modello organizzativo delle sperimentazioni gestionali previste dalla legge di riordino del servizio sanitario. La cosiddetta controriforma della sanità del 1992 ha disciplinato la possibilità di attuare sperimentazioni gestionali attraverso convenzioni con organismi pubblici e privati per lo svolgimento in forma integrata sia di opere che di servizi in un’ottica di miglioramento della qualità dell’assistenza. A tal fine le Regioni possono costituire società miste a capitale pubblico e privato. L’ISMETT ha la forma di una società a responsabilità limitata il cui capitale è suddiviso tra Azienda Ospedaliera Civico di Palermo (55%) e UPMC (45%) e, in questo quadro normativo, rappresenta il risultato virtuoso di una collaborazione tra pubblico e privato in sanità, culturalmente ancora condannati da un pregiudizio storico a occupare fronti contrapposti.
Dal punto di vista della natura di ente sanitario, l’ISMETT è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto privato. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale appositamente finalizzato alla ricerca ulteriore rispetto a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. In particolare, con decreto del Ministero della salute del 12 settembre 2014, all’Istituto è stato riconosciuto il carattere scientifico nella disciplina “Cura e ricerca delle insufficienze sanitarie d’organo”. 
L’ISMETT è il primo ospedale italiano specializzato nei trapianti multiorgano.
Il Protocollo di intesa adottato dalla Conferenza Stato Regioni il 20 Marzo 1997, che ha dato vita all’Istituto, è un vero e proprio manifesto per le politiche sanitarie al sud d’Italia. Tra gli obiettivi dichiarati vi sono “lo sviluppo di un nuovo modello di gestione medica ed organizzativa nel settore sanitario, capace, tra le altre cose, di portare in Sicilia, grazie alla collaborazione tra UPMC e la Regione Sicilia, i benefici della ricerca e della formazione, propri della partner statunitense” e “la realizzazione di un modello che dimostri come il settore pubblico e quello privato possano positivamente unire le forze, al fine di contribuire allo sviluppo economico del sud del Paese”.

se le differenze di genere sono valorizzate nell’ottica di un’accoglienza efficace. Se pubblico e privato finalmente cooperano. Quando le esperienze nazionali e internazionali si contaminano.

la sanità è un settore produttivo e che il suo funzionamento deve rispondere a logiche industriali di produzione se si vuol raggiungere l’obiettivo di un più ampio accesso alle cure.

Ma se nel modello azienda pubblica non è ancora superata la guerra fredda tra medici e management, il modello gestionale dell’ISMETT sembra abbattere il muro tra le due anime aziendali. 
Finalmente insieme pubblico e privato impegnati in un obiettivo comune. Costruire l’eccellenza in sanità in un settore complesso come quello dei trapianti. 
Il modello di innovazione dell’ISMETT ben potrebbe essere replicato fino a diventare il modo ordinario di gestione del settore sanitario. In un periodo di tagli e di preoccupazione per la sopravvivenza della sanità pubblica, iconografia del welfare all’italiana, una nuova modulazione dell’impegno pubblico e di quello privato dovrebbe finalmente rappresentare la nuova frontiera condivisa. Colpisce la dichiarata finalizzazione della partnership allo sviluppo economico del sud del Paese. Si conferma cioè che

L’ISMETT è un contenitore di innovazione. È moderno perché dimostra che pubblico e privato in sanità possono cooperare per raggiungere comuni obiettivi generali, superando quell’immagine di due poli contrapposti e divergenti.

Buona organizzazione, qualità dei servizi e buona pratica clinica sono all’ISMETT un unico blocco di eccellenza. L’Istituto, non a caso, è il primo ospedale del sud ad aver ricevuto l’accreditamento da parte della Joint Commission International (JCI), uno dei più avanzati sistemi di accreditamento per l’assistenza sanitaria. Essere accreditati JCI vuol dire aver intrapreso un percorso continuo verso il miglioramento della qualità e delle performance, ma soprattutto è una chiara indicazione sul cambiamento culturale in atto presso l’Istituto. Gli sforzi per raggiungere il traguardo ambito dell’accreditamento non sono percepiti come un costo economico e organizzativo, ma come investimento a lungo termine per la competitività e la sostenibilità della struttura. Chi sceglie il percorso JCI sceglie di sottoporsi a una serie di valutazioni severe da parte di esperti esterni sui più svariati profili attinenti alla qualità delle cure. 
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Tutte le ragioni di una sanità moderna, compresa la salvaguardia della salute di genere, sono promosse presso ISMETT che rappresenta un polo di eccellenza per la Sicilia e per il sud, ma anche per l’intera utenza che si affaccia sul Mediterraneo.

I bollini rosa, assegnati dall’Osservatorio Nazionale per la salute delle Donne, segnalano le strutture che si prendono cura delle donne a partire dalla consapevolezza che la differenza è una ricchezza. Da valorizzare anche in un’ottica di corretto impiego delle risorse e di un più ampio accesso ai servizi erogati.
E dopo un lungo elenco di risultati eccellenti non sanitari, l’ISMETT continua a primeggiare anche nel core business di un ospedale: è di questi giorni la notizia che l’istituto si colloca ben al di sotto della media nazionale con riferimento all’indicatore della mortalità a 30 giorni dello 0% dopo un intervento di chirurgia per tumore al polmone, fegato e colon, a fronte di medie nazionali che si attestano rispettivamente al 1,3%; al 2,65% e al 4,07%. Con riferimento all’attività per la sostituzione di valvole cardiache, invece, la mortalità a 30 giorni presso ISMETT è dello 0,93%, contro una media nazionale del 2,84%. Il risultato è certificato dal PNE, Programma Nazionale Esiti, condotto da AgeNaS, Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari.

È moderno perché dimostra che la qualità delle cure non attiene soltanto al profilo sanitario, ma anche a tanti altri fattori che nel loro inestricabile insieme contribuiscono alla produzione del valore salute. L’ISMETT sostituisce l’autoreferenzialità al confronto, accorcia le distanze e avvicina il mondo, facendo di Palermo e della Sicilia due luoghi del progresso.

ISMETT è inserito anche nel network degli ospedali “vicini alle donne” vale a dire quelle strutture che riservano particolare attenzione alle specifiche esigenze dell’utenza femminile.

La vocazione internazionale in un settore specialistico come quello dei trapianti è senza dubbio un’eccellenza nell’eccellenza. Il confronto su una dimensione extranazionale significa poter affacciarsi regolarmente su una finestra aperta sul mondo, sul progresso e sul confronto. Vuol dire poter contare su una comunità scientifica senza confini. È come se vi fosse un ponte per il transito delle idee dalla Sicilia agli Stati Uniti. Iniziative come questa contribuiscono a far cessare l’isolamento del Sud. Cosa vuol dire Sud? Spesso non è soltanto un’indicazione della bussola, ma al di là della geografia, con “sud” si indicano luoghi malati di marginalità, lontani dal flusso delle novità e del progresso.

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PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA” di Venera Coco – Numero 3 – Gennaio 2016

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racconta il professore Rocco Zito. Erano gli arnesi più comuni nelle mani delle giovani siciliane che preparavano con ansia i loro corredi, sperando di poter un giorno esibire quei manufatti con l’audacia delle padrone di casa. Per molto tempo le città di un’isola, complessa e misteriosa, sono state ornate dalla bellezza e raffinatezza di quei merletti e quei pizzi che riuscivano a rendere prezioso ogni angolo delle dimore, ogni vessillo sugli altari delle chiese, perfino ciò che poteva essere indossato e di certo rimanere segreto.

Di sfilati siciliani, macramè, uncinetto e tombolo, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, ne hanno fatto un must-have: non a caso, il pizzo nero che ha reso celebre il loro fasciante tubino, ritorna immediatamente al pensiero quando si pronuncia la parola dentelle.

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PIZZI E MERLETTI. “DIETRO UNA FINESTRA DI RINGHIERA”

 

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Quegli arabeschi che ricordavano l’estro creativo di artigiani capaci di lavorare la ceramica, il legno e la creta. 
In fondo si trattava di rendere quel filo, simile ad una scultura, applicando di certo una paziente maestria, che quelle donne sapevano realizzare attraverso il ripetere di gesti uguali, come se cantassero una nenia di cui conoscevano a memoria le parole.
Quei rufoli realizzati, punto dopo punto, in un’armoniosa alternanza di pieni e vuoti, rendevano preziose le tovaglie e le vesti.

Le mani nervose, dentro i cortili, hanno intrecciato per secoli quel filo semplice e innocuo che attraverso giri e acrobazie tesseva miracolosamente arabeschi da applicare alle stoffe e renderle così leggiadre.

Trine e pizzi spesso simili a pietra lavica che raffreddandosi hanno trattenuto a sé l’aria azzurra e il profumo delle ginestre.

Gli abiti di Marras trasudano eccentricità e ruotano intorno a stratificazioni e incrostazioni di tessuti e ricami che, raccontando la storia travagliata della propria terra, in un succedersi di contaminazioni e culture, la rendono simile a roccia sedimentaria.

Ancora in Sicilia si lavorano i merletti e il compito è affidato alle donne più anziane, che si trovano chine sui piccoli e tondi telai. 
Nei pomeriggi d’estate, i cortili delle case antiche diventano le loro dimore preferite al riparo dalla calura estiva. Da “dietro una finestra di ringhiera”, come canta Battiato in “Mal d’Africa”, fino alle grandi multinazionali del lusso, il passaggio è breve: gli stilemi del passato si attualizzano per cedere il posto a versioni più contemporanee.

Fluido, magmatico e indimenticabile, come il fuoco che fuoriesce dall’Etna, lo scorrere delle modelle (alla fine della sfilata fall/winter 2013-2014) che trattengono sui loro corpi l’arroganza di lava incandescente sulla quale jais e strass brillano come lapilli. I lavori di esperte ricamatrici incantano anche la stilista milanese Luisa Beccaria, che ereditata dal marito, nobile Bonaccorsi di Reburdone, quell’attitude prettamente siciliana, realizza abiti neo-romantici in stile preraffaellita, in sangallo e macramè, ma anche gonne a ruota con tramezzi in pizzo.

Rigonfi di crinoline, gli evening gown in taffettà sono vere opere d’arte rinascimentali, leggeri e trasparenti sanno come mettere in risalto lavorazioni laboriose e merletti in filigrana.

Ad Alghero, ancora, nella Sardegna di Antonio Marras i merletti sono un caposaldo della cultura isolana. Nella cifra stilistica del designer c’è stato e probabilmente ci sarà sempre posto per tombolo, filet di Bosa, ricami e altre manualità che fanno parte del baluardo tipico dell’artigianato sardo.

Se per molto tempo si è tentato di dare leggerezza agli abiti, di renderli così impalpabili come cristalli di zucchero attraverso pizzi e merletti, non si può dimenticare che quell’effetto è il risultato di un lavoro sapiente e minuzioso, che nasconde al suo interno idee e geometrie di chi riesce a creare con molto poco nuvole di siffatta bellezza.

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