PASQUALE FESTA CAMPANILE: IL REGISTA MILIARDO di Rosalba Mazzamuto – Numero 5 – Luglio 2016

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ha fatto sì che molti italiani di quelle zone abbiano un carattere che di meridionale ha ben poco. Gli Svevi soggiornarono in Lucania e Pasquale Festa Campanile di sicuro sangue svevo nelle vene doveva averne. Di meridionale egli si era riservata la sensibilità, il senso di umanità antico, mentre se si dà un’occhiata alla sua produzione sia letteraria che cinematografica, ne viene fuori un personaggio che non ha avuto attimi di tregua: egli approfondiva, studiava, limava ogni riga scritta, ogni fotogramma impressionato. Questa creatività, tuttavia, non faceva di lui un frenetico proprio perché la componente meridionale glielo impediva.

Amava il cinema e la letteratura. Ad altri spetta ricordare le caratteristiche dell’uomo di cultura, io posso soltanto dire che

il periodo passato accanto a lui è stato bello, esaltante, per me giovane moglie, proveniente da ambienti diversi da quelli del cinema; era tutto una novità, incontrare attori famosi che venivano a lavorare a casa, andare a cena con i suoi amici produttori cinematografici

Basti ricordare Bingo bongoNessuno è perfettoCulo e camicia e altri… interpretati da Celentano, Pozzetto, Montesano, Ornella Muti, film che hanno oltrepassato il traguardo dei 10 miliardi di lire di incasso dell’epoca. 
Dopo 18 anni dal primo romanzo, ritorna alla letteratura con un secondo e poi con altri, tutti tradotti in film per la sua regia. Era il periodo dell’austerity energetica e Pasqualino scrive Conviene far bene l’amore, successivamente portato sullo schermo con Gigi Proietti, idea originale per la ricerca di fonti alternative, come l’energia sprigionata dall’incontro fra un uomo e una donna che improvvisamente illumina un teatro intero. Poi viene Il Ladrone del 1980 che divenne film con Enrico Montesano nei panni di Caleb, il ladrone buono della croce, un antieroe picaresco, un simpatico ciarlatano che vende polveri miracolose e finte reliquie in una Palestina percorsa dei messaggi rivoluzionari di Cristo. Uno dei film a cui ha tenuto di più, anche questo sempre riproposto dalla televisione nel periodo pasquale, che non manca di avere qualche relazione con il successivo Per amore solo per amore, la storia di San Giuseppe come lo voleva vedere lui, ragazzo normale innamorato che si trova inconsapevole a percorrere una storia che non sempre capisce, premiato come miglior romanzo al Premio Strega. 
La sua carriera cinematografica si chiude in bellezza con il film Uno scandalo per bene, ispirato al “caso” Bruneri Canella, con Ben Gazzarra e Giuliana de Sio, e la sua carriera letteraria si chiude con il romanzo Buon Natale Buon Anno, Premio Bancarella, la cui stesura ci ha accompagnato fedelmente fino alla sua fine, poi tradotto in film per la regia di Comencini con due grandi attori: Virna Lisi e Michel Serrault.

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PASQUALE FESTA CAMPANILE: IL REGISTA MILIARDO

 

come Luigi o Aurelio De Laurentiis, Mario Cecchi Gori o Fulvio Lucisano o Luciano Martino, allora fidanzato con Edwige Fenech, o editori dei suoi libri come Valentino Bompiani o Leonardo Mondadori. 
Ma quel periodo è stato anche infinitamente triste, per la lunga malattia che a 58 anni, a poco a poco, lo ha divorato, senza concedergli un’altra possibilità. 
Abitavamo in via Giulia, una casa piena, piena di libri – amava dire che ve ne erano circa 30.000 – che non leggeva ma di cui le pareti erano tappezzate; tutte, persino quelle dei bagni e, difatti, alla fatidica domanda “ma li hai letti tutti?” egli rispondeva “no, però li annuso quotidianamente, le parole, le frasi, i concetti volano nell’aria”. Erano i suoi approfondimenti, soprattutto per i film in costume, come la sceneggiatura del Gattopardo o quella di Rocco e i suoi fratelli, ambedue regie di Luchino Visconti, oppure Le quattro giornate di Napoli di Nanny Loy, scritta con Massimo Franciosa e Vasco Pratolini, o la fortunatissima commedia musicale Rugantino, che ormai rappresenta nella commedia dell’arte la maschera di Roma, costante successo internazionale, scritta assieme a Garinei, Giovannini, Luigi Magni e Massimo Franciosa, musicata da Armando Trovajoli, o la favola musicale 20 zecchini d’oro assieme a Luigi Magni, per la regia di Franco Zeffirelli. Come non ricordare poi Le voci bianche, rievocazione dei favolosi musici castrati in un colorito settecento romano, o Una vergine per il principe con Virna Lisi e Vittorio Gassman che gigioneggiava piacevolmente in abiti rinascimentali, delle quali fu anche il regista.

La casa di via Giulia era straripante di sceneggiature che gli proponevano, di libri che gli inviavano, o curricula di attori che volevano lavorare con lui, e, inoltre, vestiti fuori moda mai buttati, ma anche preziosi vasi e lampade art-nouveau che collezionava,

francesi di Emile Gallè, Le Verre Français, Daum e altri, o americani come i bellissimi Tiffany. Ne possedeva 80/90 pezzi, che davano una particolare allegria, colore e luce alla casa. 
Pasqualino arriva a Roma con la famiglia da piccolo, dalla Basilicata. 
La sua carriera giornalistica iniziò ad appena 19 anni, nell’immediato dopoguerra, in una prestigiosa testata culturale, «La Fiera Letteraria», passando poi alla radio e alla televisione, occupandosi prevalentemente di letteratura. 
Ma le radici lucane non tardano a farsi sentire nel suo primo romanzo del ’57, La nonna Sabella, poi tradotto in quel divertentissimo film diretto da Dino Risi e interpretato dalla magistrale Tina Pica che la televisione, durante il periodo estivo, ci ripropone spesso: comicità esilarante, spaccato di usi e costumi della sua terra natia e infarcito di ricordi della sua nonna. Il successo fu immediato. 
Da allora, Festa Campanile coniugò il proprio nome con i maggiori successi degli anni ’60, ’70, ‘80: la sua carriera di regista comincia con Un tentativo sentimentale, nella Roma del miracolo economico, passando per La costanza della ragione di Vasco Pratolini, Adulterio all’italianaLa cintura di castità con Tony Curtis e Monica Vitti, attraverso Poveri ma belli, Giovanni Mariti, il divertente Quando le donne avevano la coda, o il conosciutissimo Il merlo maschio con un eccezionale Lando Buzzanca e la bellissima Laura Antonelli, successo travolgente anche in Francia. Per fare solo alcuni esempi.

Era una firma di sicuro successo. I produttori se lo contendevano, riempiva le sale cinematografiche. Fu ribattezzato il regista miliardo ma non per averli intascati lui, i miliardi, bensì per averli fatti arrivare nelle tasche dei produttori.

 

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MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU” di Luce Monachesi – Numero 5 – Luglio 2016

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MAREVIVO PROTEGGE IL “POLMONE BLU”

 

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La passione per il mare è ovviamente in me sin da bambina a Napoli: preservarlo e difenderlo è stato il grande obiettivo della mia vita. Ho iniziato la mia battaglia ambientalista a Capri, regalando caramelle ai bambini affinché ripulissero le grotte dalle plastiche che le inquinavano. Contemporaneamente, cercavo di sensibilizzare tutti gli amici sul fatto che il mare è il nostro “polmone blu”: produce l’80 % dell’ossigeno che respiriamo e ricopre il 71% della superficie del Pianeta.
Determinante fu l’incontro nel 1985 con Fulco Pratesi, all’epoca presidente del WWF, che mi suggerì di creare una vera e propria associazione. Nacque Marevivo, a cui molti amici (per la precisione 27) aderirono con entusiasmo e coinvolgemmo, come comitato scientifico, il CoNISMa, cioè il Consorzio Nazionale Interuniversitario per Le Scienze Del Mare.

Qual è la storia dell’Associazione?

L’incontro della nostra associazione con Papa Francesco sui temi dell’ambiente. Soltanto attraverso la comunione degli ideali e la partecipazione di tutti possiamo promuovere la giustizia ambientale e difendere il Creato. Noi ambientalisti del mare, impegnati da trent’anni in attività e azioni in difesa dell’ecosistema marino e delle sue creature, siamo mossi da un’onda benefica di speranza e tutti dobbiamo attivarci seguendo l’invito di Papa Francesco.

Rosalba Giugni Laudiero, napoletana doc (figlia di armatori ed esperta subacquea), ha da poco festeggiato i trent’anni della associazione ambientalista Marevivo, che ha fondato e presiede con impegno e competenza meritando, a tutti gli effetti, il titolo di “regina del mare”.
La incontriamo a Roma presso il barcone sul Tevere, sede ufficiale dell’Associazione, e le chiediamo:

L’educazione ambientale soprattutto; a tale scopo abbiamo organizzato dei veri e propri percorsi per bambini, come il progetto “Delfini Guardiani” che coinvolge 1576 studenti delle isole minori d’Italia e si sta concludendo alle Eolie e alle Egadi, per sensibilizzare le nuove generazioni alla tutela del proprio mare e del proprio territorio.
Questa iniziativa ha avuto tanto successo e ora sta crescendo nelle principali città.
Poi ci sono le azioni di contrasto all’inquinamento; ad esempio, continua l’impegno di Marevivo per il mare di Napoli. Non ci arrendiamo, dobbiamo restituire il suo golfo e il fiume Sarno liberi dall’inquinamento.

Qual è la cosa che ti ha emozionato di più recentemente?

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Qual è l’obiettivo di Marevivo?

Quale è stata la prima manifestazione dell’Associazione?

Il nostro trampolino di lancio fu la prima campagna di ripulitura delle spiagge e delle rive dei principali fiumi, alla quale parteciparono con entusiasmo moltissime persone.

Una delle molte manifestazioni è stata quella denominata “No Finning”. Puoi spiegarci di cosa si tratta?

Il nostro obiettivo era proteggere lo squalo, vittima di una caccia indiscriminata a causa della sua pinna gelatinosa, reputata una prelibatezza per la cucina orientale. Siamo noi ad attaccare loro: negli ultimi 40 anni la popolazione degli squali medio-grandi è scesa del 90%. Cause principali sono la pesca non selettiva, le cosiddette “catture accessorie”, il mercato di pinne e carne e, infine, l’inquinamento.

Avete creato anche una “Tavola Blu”.

Insegnare ai futuri chef che è possibile coniugare creatività e tutela del mare è stata una gran bella sfida. Ricordo l’esperienza che ci ha portato a cucinare meduse: poiché ne siamo invasi, abbiamo convocato un grande cuoco, Gennaro Esposito, che ci ha fornito preziose ricette per cucinarle, essendo le meduse ricche di proteine e collagene.

Qual è la prossima battaglia?

Pesca illegale ed eccessiva, petrolio, veleni di ogni tipo riversati, ogni giorno, nel mare; ma non finisce qui: c’è un mostro apparentemente inarrestabile e indistruttibile che si insinua, addirittura, nella catena alimentare dell’uomo: la plastica. Per capire come affrontarlo, Marevivo sta portando avanti la campagna di informazione, sensibilizzazione e conoscenza “Mare Mostro: un mare di plastica?”, realizzata in collaborazione con la Marina Italiana e il CoNISMa e partita a bordo della nave scuola Amerigo Vespucci.

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CASTEL DEL MONTE di Roberta Lucchini – Numero 5 – Luglio 2016

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La dovizia di informazioni che liberamente circolano sulle autostrade di cavi in rame o fibra o sui corridoi aerei rappresenta, come noto, la grande opportunità di conoscenza mai offerta all’essere umano; il quale, nel percorrere corsie talvolta sconosciute, può imbattersi, per curiosità o semplicemente per caso, in notizie che, seppure singolari, accendono un qualche anelito di riflessione.

A sostegno di tale ipotesi sia l’analisi delle tecniche costruttive, del sistema di raccolta delle acque pluviali, di quello di scolo all’interno delle stanze (che, si ricorda, sono otto al pian terreno e otto al piano superiore, di forma trapezoidale, con grandi caminetti solo in alcuni ambienti), sia la presenza di veri e propri bagni in alcune delle torri ottagonali esterne e di sistemi di adduzione dell’acqua negli stessi, sia, ancor prima di tutto questo, la valutazione della geometria stessa della costruzione, cioè la base ottagonale, presente già in epoca romana nelle strutture termali (si pensi, ad esempio, all’Aula Ottagona nelle Terme di Diocleziano) e successivamente nell’architettura cristiana del Fonte Battesimale.

Vien da pensare qui, come per contrappasso con la possanza di queste mura, alla freschezza dei giovani scalpitanti, ai ragazzi in età scolare che dovrebbero venire a conoscere luoghi come questo per liberarsi da un nozionismo sterile, che non può dare conto della complessità e della ricchezza di molti scenari e personaggi.

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DEL

MONTE

 

Ora, il visitatore, trovandosi nell’abbraccio del cortile centrale, mentre osserva i tre portali di accesso al piano terra o le tre porte-finestre del piano superiore incorniciate di breccia corallina, può sentirsi libero di sposare l’una o l’altra opzione, od anche di non prendere posizione.

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Nel farlo, però, deve ammettere che le parole altisonanti utilizzate dalla Principessa Von Hohenstaufen nella sua domanda di restituzione di Castel del Monte, secondo cui quest’ultimo dovrebbe diventare “omfalos della sapienza, scienza, centro della pace e dialogo tra i popoli”, parole capaci, ad una prima lettura, di strappare un sorriso, non risultano totalmente prive di una qualche suggestione, se consideriamo che l’origine di tutto ciò è nella personalità eclettica, poliedrica, illuminata e affascinante del preteso trisavolo Federico II, colui che, fra l’altro, preferì alla guerra guerreggiata la via del dialogo col sultano Al-Malik al–Kamil. E se combiniamo il tutto con le affermazioni di De Biase, secondo il quale “i cittadini possono diventare i maggiori tutori e fruitori del patrimonio culturale”, sorge spontanea un’ulteriore riflessione, che assume caratteri più generali. Vien da pensare qui al testamento che abbiamo il dovere morale di redigere.

Senza dimenticare che il pericolo di isolamento cui i nativi digitali sono esposti, altra faccia della medaglia rispetto alla facilità di reperire notizie a basso costo sul web, potrebbe allontanarli dal desiderio di entrare “fisicamente” in contatto con la realtà, accontentandosi del mondo virtuale. Si dovrebbe approfittare in positivo, come d’altronde si sta già facendo, delle limitazioni che la cronaca recente impone alle istituzioni scolastiche circa le mete delle cosiddette uscite didattiche, orientate oggi, per esigenze di sicurezza, alla scoperta della nostra Penisola: siti pregnanti come questo devono essere stabilmente inseriti all’interno dei circuiti delle gite degli studenti che frequentano gli ultimi anni delle scuole secondarie di primo e secondo grado, e selezionati innanzitutto per familiarizzare con periodi della nostra storia che sono spesso percepiti come ostici e troppo distanti; secondariamente

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Capita così di leggere che, nel 2009, la Principessa Yasmine Aprile, che si dichiara erede unica della casa Hohenstaufen, abbia inviato un telegramma al Comune di Andria ed alla Regione Puglia per ottenere la restituzione di Castel del Monte, la celeberrima costruzione sulla Murgia voluta nel XIII secolo dal suo presunto avo Federico II di Svevia, lo Stupor mundi, adducendo a pretesto l’estremo degrado, l’incuria e l’ignominia in cui il Castello sarebbe piombato. A parte la leggerezza di una simile richiesta, erroneamente indirizzata a destinatari che non godono della proprietà del sito, avendo lo Stato italiano acquistato Castel del Monte nel 1876 dalla famiglia Carafa d’Andria per venticinquemila lire; a parte che lo stesso è entrato nel 1996 nella Lista del Patrimonio Mondiale dell’ Unesco (evento di cui è stato celebrato il Ventennale lo scorso 27 maggio presso la Sala Consiliare del Comune di Andria); a parte l’aver verificato che la principessa è avvezza a rivendicare possedimenti “irrinunciabili e imprescrittibili” appartenuti ai suoi antenati, come ha fatto per la reggia di Carditello e per l’Isola di San Giulio sul lago d’Orta; tuttavia un moto di orgoglio meridionale, in cerca di redenzione per i continui e frustranti luoghi comuni sulla trascuratezza del Sud e la latitanza delle istituzioni pubbliche anche nella gestione del patrimonio culturale, innesca quel desiderio di “accertamento” dello stato dei fatti che solo può dare il reale polso della situazione.

Cosa significa recarsi oggi a Castel del Monte,

vale a dire presso uno dei trenta siti storici più visitati in Italia, il primo della Puglia, in cui nel 2015 si sono registrate circa 250.000 presenze, con un incremento di circa il 20% rispetto all’anno precedente?

Vuol dire, come testimoniano i numeri, doversi ricredere rispetto alla drammatica situazione dipinta dalla nobildonna qualche anno fa.

E’ lampante l’impegno a rendere questo sito sempre più fruibile, attraverso il tentativo di risolvere alcuni dei problemi, come la questione della viabilità e dei parcheggi a ridosso dell’area museale o quella dei servizi legati alle informazioni al turista, con i quali il Mezzogiorno d’Italia sembra destinato a confrontarsi quasi come in un atavico supplizio di Tantalo. 
Inoltre, i recenti lavori di sistemazione della zona verde subito sottostante il Castello dimostrano la volontà di intraprendere un virtuoso percorso di valorizzazione dell’intera area, in modo da aprirsi più e meglio ad un turismo di ampio respiro. Del resto, il nuovo direttore del Museo Archeologico di Castel del Monte, il foggiano Alfredo De Biase, nominato lo scorso gennaio, ha manifestato con chiarezza la propria visione della funzione museale: non più l’arte riservata ad una élite, ma un patrimonio culturale che si offre alla comunità. 
E, certamente, quello custodito fra le mura di Castel del Monte rappresenta un capitale ricco e a tutt’oggi non totalmente disgelato, un serbatoio da cui si può ancora attingere, se si considera la perdurante attenzione degli studiosi su struttura e funzioni dell’edificio, nella speranza di carpirne il significato. Si scopre infatti che, dopo averne esclusa la natura di castrum per le inesistenti caratteristiche difensive; dopo aver scartato la eventuale funzione di residenza, non essendovi traccia di cucine e quant’altro possa riportare alla possibilità di soggiornarvi; dopo aver ridimensionato il legame fra Federico II ed il maniero, avendone sicuramente il primo ordinato l’edificazione (come risulta da un atto scritto risalente al 1240) ma visitato lo stesso pochissime volte (sicuramente in occasione del matrimonio della figlia Violante con Riccardo conte di Caserta nel 1249); dopo aver avanzato ipotesi legate a misteriose finalità esoteriche, data la posizione geografica, i rapporti fra le dimensioni costruttive, l’orientamento rispetto agli astri (ipotesi in parte smentite da più accurati studi sulle reali misure e geometrie del palazzo), o aver immaginato funzioni “formative”, come luogo di incontro e discussione sulle varie discipline umanistiche e scientifiche,

spunta fuori, qualche anno fa, ad opera di due ricercatori dell’Università di Bari, una nuova teoria: il Castello sarebbe un esempio di Spa, un hammam, un luogo dove godere dei benefici dell’acqua, ritemprando lo spirito.

perché trovarsi in un monumento come Castel del Monte, ove simbologie cristiane, ebraiche e musulmane si sono fuse armonicamente significa comprendere che dal passato, quello più insospettabile, quello delle Crociate e della frammentazione di regni e dinastie, arrivano messaggi attualissimi di tolleranza e pacifica convivenza;

in terzo luogo perché favorire la domanda di cultura equivale a stimolarne l’offerta, avviando peraltro meccanismi generatori di impiego per le comunità locali; infine perché, riallacciandosi alle parole di De Biase, solo trasmettendo “sul campo” alle nuove generazioni l’importanza della conoscenza delle nostre radici, il rispetto per il passato, la curiosità di ricercare nuove chiavi di lettura attraverso l’approfondimento scientifico, possiamo auspicare di mettere insieme un asse ereditario che non potrà essere passibile di rivendicazioni perché realmente condiviso e tutelato come patrimonio comune, nella speranza di favorire il superamento di una cultura che percepisce il bene pubblico come terra di nessuno. La trappola dell’indifferenza è il pericolo maggiore. E il Mezzogiorno lo ha compreso, per non dover essere ancora, stancamente, demagogicamente, additato di disinteresse, incuria, disamore…

La volontà di riscatto da una simile etichetta è forte, sulla Murgia come in molte altre aree del nostro Meridione, dove sarebbe logico raccogliere l’eredità federiciana favorendo nel visitatore quel senso di “stupore” che contraddistinse il sovrano. Ma il patrimonio, anche quello culturale, va amministrato: nel farlo, si pensi anche, e prima, ai giovani e al loro futuro, è l’unica ancora di salvezza.

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PERCHÉ UN MUSEO? di Donatello Genovese – Numero 5 – Luglio 2016

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Ad Avigliano (comune della provincia di Potenza, sito nella parte nord-occidentale della Basilicata, a circa 800 m s.l.m.) ogni anno, nel periodo estivo, si tiene la caratteristica manifestazione dei “quadri plastici”, ossia la rappresentazione vivente d’immagini tratte da capolavori dell’arte figurativa.

La tradizione è molto antica, anche se le notizie certe disponibili, tramandate oralmente, consentono di datare le prime rappresentazioni negli anni ’20 del secolo scorso.

Gli attori, inseriti in contesti scenografici fedeli nei più minuti dettagli alle opere artistiche oggetto d’imitazione, restano immobili per qualche minuto, come statue viventi, riproducendo scene sacre, storiche, mitologiche o immaginarie, tratte dai celebri quadri pittorici.

Attualmente i quadri plastici vengono realizzati su palchi fissi, dotati di sipari, che vengono aperti più volte, per circa un minuto, al cospetto di un pubblico assai nutrito, capace di restare anche per ore in attesa del magico momento dell’esibizione.

La realizzazione delle scenografie, dei costumi, delle acconciature, degli sfondi, degli oggetti, delle luci e dei tanti dettagli esecutivi richiede un lungo ed accurato lavoro artistico preparatorio, finalizzato a rendere la scena finale perfettamente aderente al capolavoro artistico da cui è tratta.

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PERCHÉ UN MUSEO?

 

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In origine tali rappresentazioni venivano eseguite, in occasione delle festività religiose estive più importanti, su carri a traino animale, che sfilavano lungo il corso principale del paese nel corso delle processioni popolari. Su tali carri i figuranti, ad ogni sosta, assumevano le caratteristiche pose fisse delle immagini artistiche che intendevano rappresentare. Le scene, corporee e tridimensionali, davano luogo ai caratteristici quadri viventi, detti anche quadri plastici.

Per un lungo periodo la manifestazione si è svolta nel corso dei festeggiamenti della Madonna del Carmine, protettrice del paese, che si tengono ogni anno il 16 luglio. Da qualche anno, però, sotto la crescente partecipazione del pubblico, si è preferito rendere autonoma la kermesse, spostandola nel mese di agosto.
In genere, le rappresentazioni dei quadri plastici sono realizzate da due/tre gruppi di giovani artisti, prescelti dall’Associazione Pro Loco, appartenenti ad associazioni dei vari quartieri del paese, che fanno a gara nella più fedele riproduzione delle opere d’arte da essi prescelte.
Il palco, allestito nella piazza più capiente del paese, è diviso in vari box, ciascuno separato fisicamente dagli altri e dotato di un sipario, all’interno dei quali gli scenografi, i falegnami, i pittori, i truccatori, i parrucchieri, i sarti, i costumisti, i tecnici delle luci e della fotografia, ecc., nascosti alla vista del pubblico, sotto la guida di direttori artistici altamente qualificati, allestiscono le scene e preparano gli attori per l’esibizione.

La visione dei quadri plastici, resa possibile della contemporanea apertura dei sipari, più volte, per la durata di circa un minuto, avviene al buio e con suggestivi sottofondi musicali, in modo che le luci sceniche, sapientemente calibrate, restituiscano allo spettatore l’emozione di trovarsi al cospetto di meravigliosi ed imponenti quadri tridimensionali, carichi di pathos e di sublime bellezza.
Al termine della manifestazione, una giuria altamente qualificata ed imparziale proclama il gruppo vincitore, al quale viene assegnato un premio. La manifestazione ha assunto rilievo nazionale nell’aprile del 2016, quando, nel corso di un talent show mandato in onda da un importante network televisivo, un nutrito gruppo di giovani aviglianesi ha riprodotto le maestose opere del Caravaggio.

 

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LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO di Michele Agelicchio – Numero 5 – Luglio 2016

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apre interessanti spazi di captazione come dimostra una recente indagine “Pangea” effettuata in Spagna, Germania, Regno Unito, Italia e Francia. 
Il turista gastronomico è un attento viaggiatore che sceglie la località sulla base di precisi indicatori e diventa sostegno economico, più e meglio del turista culturale. Si prevede una considerevole crescita, a breve, intorno al 40%. Sono questi dati che hanno messo in moto il mondo della gastronomia e dei cibi di nicchia, legati al cordone ombelicale del territorio e dei piccoli borghi antichi, alla loro cucina, ricette, cibo sano.

LA CUCINA DEI BORGHI MEDIEVALI. VICO DEL GARGANO RIVENDICA IL PRIMATO

 

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Il recente viaggio di raffinati golosi, nei Borghi medievali d’Italia, alla scoperta delle antiche e gustose ricette, di antiche pietanze e vini da palati esperti, ha costruito un rosario di dieci tappe, da Nord a Sud;

interessante ma non esaustivo, soprattutto se viene saltata o dimenticata la cucina del borgo medievale per eccellenza, Vico del Gargano, nei Borghi più Belli d’Italia.
Si parte da Taggia, in provincia di Imperia, con l’oliva taggiasca, per raggiungere Cortemilia, in provincia di Cuneo, borgo della nocciola piemontese, prodotto IGP. Poco distante, per assaggiare i vini delle cantine di Nieve. Si raggiunge Arquà Petrarca, Padova, dove emana il profumo del “brodo di Giuggiole”. Ad est verso Venzone, Udine, con la “zucca di Venzone” e poi nel borgo di Bobbio, Piacenza, per la “zuppa del Pellegrino”. 
Si inizia a scendere, San Gimignano, nella Valdelsa, per lo zafferano. San Gemini e le acque. Gli stringozzi di Casperia, in provincia di Rieti e si chiude con il pane di Altamura in Puglia. Un po’ poco, per la verità.

Si inalbera l’orgoglio ferito di Vico del Gargano, il borgo antico per eccellenza, che fece innamorare Gae Aulenti, la grande archistar che lo percorse in lungo e largo.

Nel cuore e nei pensieri della Regione Puglia che l’ha voluto nei 20 comuni selezionati per il Progetto Hospitis.
A difesa dell’onore e della cucina, il borgo garganico chiama un suo illustre concittadino, Giovanni Nino Arbusti, ricercatore e studioso di enogastronomia, “Cordon d’oro” e membro dell’Accademia Gastronomica Italiana, autore del libro Cucina del Gargano, per la collana Cucine regionali, prefazione di Guido Pensato, editore Franco Muzzio:

“…Una cucina schietta e pastorale, quasi rude all’inizio come tutte le altre cucine primitive, ma poi incline alle preziosità degli aromi, della menta e dell’origano, del finocchietto selvatico, della rucola, del rosmarino, così copiosi e di fragranza unica all’interno e lungo la costa, da Rodi a Monte Pucci e da Peschici a Mattinata…”

Gli studiosi della nutrizione si azzuffano ancora oggi; non è pane, non è pizza e neanche focaccia, è tutte queste cose insieme, è la Paposcia di Vico del Gargano, semplice, comune, essenziale.

Il lievito e il fuoco vivo fanno il miracolo di gonfiarla, quando il colore raggiunge il paglierino e il vapore sbuffa dal di dentro, allora è pronta.

Questa è la Paposcia: pane nostrum che, per secoli, ha accompagnato la nutrizione e i palati semplici.
Nel 1996 nasce il primo Club della Paposcia. Chi passa per via Giovanni XXIII lo trova al numero 95. Qui ogni socio si inventa una farcia a piacere, sempre diversa, ma i canoni tradizionali della paposcia restano immutati da secoli: sale e olio extravergine di oliva; oro verde degli ulivi monumentali del Gargano; qualcuno preferisce il cacio-ricotta nostrano con una fogliolina di rucola e poi, via via, tutti i gusti della globalizzazione accompagnati da un bicchiere di rosso Zagarese o Macchiatello, due eccellenti vini delle nostre assolate colline, nella valle del Melaino.

Non c’è nulla da chiedere: segreti, tecniche, ricette, intrugli. È un processo semplice, un artigianato silenzioso, solitario, nessun mistero per gli ingredienti, le dosi, i tempi, la pazienza, i gesti, il fuoco e, poi, il profumo nell’aria.

Nelle 220 pagine di ricette ci spiega l’incontro con lagane e ceci; le seppie con gli “ntroccioli”; le manteche e i “plus”; celatelli e curatoli; taralli annaspati.
Ma ogni tappa si ferma, obbligatoriamente, davanti al profumo della Paposcia, pane nostrum, e alla sconfinata mappa degli intingoli.

Si ricava da una noce di pasta di pane lievitata, schiacciata, allungata e subito passata al fornaio per la cottura a fuoco vivo. 
Gli ultimi fornai, prima dell’arrivo dei forni elettrici, dicono che la cottura della paposcia è un’anteprima per verificare la lievitazione della pasta e la temperatura del forno a legna.

Per difendere e conservare questa prelibatezza, nel 2009, l’Amministrazione comunale del sindaco, Luigi Damiani, e il suo Assessorato all’Agricoltura e Ambiente, chiese ed ottenne il riconoscimento quale “prodotto tradizionale da forno” con denominazione “La Paposcia di Vico del Gargano”, con Decreto Ministeriale n. 8663 del 5 giugno 2009.
Un intelligente lavoro di équipe: Roberto Budrago, Assessore comunale al ramo; Enzo Russo, Assessore all’Agricoltura della Regione Puglia e Leonardo Capuozzo dell’Ispettorato all’Alimentazione hanno consacrato, e dato il via libera, certificando la prelibata Paposcia di Vico.

 

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COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO di Maurizio Campagna – Numero 5 – Luglio 2016

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ma un vero e proprio fenomeno sociale: nell’Unione Europea nel 2013 è stato responsabile della morte di quasi 1,3 milioni di persone, più di un quarto di tutte le morti (dati Eurostat presentati nel 2016). Le malattie oncologiche impegnano moltissime risorse finanziarie tra costi diretti e indiretti: sono ben 126 i miliardi di euro spesi dai Paesi dell’Unione Europea nel 2009 a causa dei tumori. Il dato, già pubblicato nel 2013 su “The Lancet Oncology”, riporta i risultati di uno studio condotto dall’Health Economics Research Centre dell’Università di Oxford, in collaborazione con il Cancer Centre and Institute for Cancer Policy del King’s College di Londra.

COSA VUOI DI PIÙ PER LA VITA? UN LUCANO

 

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 Alla cronicizzazione della malattia, dovuta anche all’impiego di farmaci innovativi e al conseguente allungamento dell’aspettativa di vita, non corrisponde ancora un’adeguata risposta istituzionale per la presa in carico del malato cronico e del paziente guarito. Tale insufficienza genera costi ulteriori a carico della comunità.

Nel 2015, nel corso dell’ultimo congresso annuale dell’ASCO (l’Associazione Americana di Oncologia medica), è emerso che il costo globale dei farmaci anti-cancro aveva raggiunto, nel 2014, la cifra record di cento miliardi di dollari, facendo registrare un incremento annuale del 10%. I dati, però, sembrano già di un’epoca fa, quando, cioè, la diffusione delle nuove terapie, soprattutto di quelle di tipo immunologico, era solo dietro l’angolo.

Per quanto riguarda l’Italia, pochi dati sono sufficienti a rappresentare il fenomeno: il 30% dei decessi è causato dal cancro, la spesa per i farmaci antineoplastici nel 2014 si è collocata per la prima volta al primo posto,

seguita dai farmaci antimicrobici e dai farmaci del sistema cardiovascolare. Gli interventi chirurgici per tumore sono il 12% del totale (fonte: VIII° Rapporto F.A.V.O. sulla condizione assistenziale del malato oncologico). 
L’emergenza finanziaria sarebbe addirittura destinata a crescere se la direttiva sulla mobilità sanitaria transfrontaliera n. 24/2011/UE trovasse concreta attuazione nei Paesi membri in ragione dell’incremento dei flussi di pazienti che si spostano per ricevere cure nello spazio UE, rimborsati dal proprio Stato di affiliazione.
È infatti noto che il cancro rappresenta una delle principali determinanti della mobilità sanitaria, mobilità che costituisce sempre una scelta eccezionale dei malati che, ovviamente, preferirebbero curarsi nel luogo dove abitualmente risiedono e in un contesto familiare. Più degli altri servizi alla persona, la sanità non è un’industria che possa essere facilmente delocalizzata. Nel 2015, il sondaggio curato da Eurobarometro sull’effettivo esercizio dei diritti dei pazienti nell’Unione europea ha rilevato come le ragioni della scelta di curarsi lontano da casa sono essenzialmente due: (1) ricevere un trattamento non disponibile nel proprio paese; (2) ricevere un trattamento di migliore qualità.

È dunque la mancanza di risposte o di risposte di qualità prossime ai malati che spinge questi ultimi alla dolorosa migrazione sanitaria, anche al di fuori dello spazio nazionale.

Il Servizio sanitario nazionale, a fronte di questi numeri, dovrà elaborare una risposta decisa che garantisca non soltanto la sostenibilità economica della malattia e delle cure necessarie, ma anche la sostenibilità politica e sociale.

In Basilicata, la risposta è il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata in Vulture (PZ), un’eccellenza della sanità del Sud, una speranza possibile, accessibile e a portata di mano per i lucani.

Il CROB è un IRCCS (Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico) di diritto pubblico riconosciuto con Decreto del Ministro della Salute del 10 marzo 2008 nella specializzazione oncologica. Il carattere scientifico, riconosciuto alla struttura, sulla base degli specifici requisiti stabiliti dal d.lgs. n. 288 del 2003 che ha provveduto al riordino degli IRCCS pubblici, consente alla stessa di accedere a un finanziamento statale finalizzato alla ricerca che si aggiunge a quello già erogato dalla Regione di appartenenza. Il CROB è stato confermato IRCCS con decreto del Ministro della Salute del 9 dicembre 2015. 
La struttura ha 118 posti letto per acuti e 8 posti per cure palliative/hospice. Il volume di attività fa registrare circa 5000 ricoveri in un anno. Il CROB è il polo hub della rete oncologica regionale (centro di riferimento) e dall’11 giugno 2015 è stato accreditato dall’Organizzazione Europea degli Istituti contro il Cancro (OECI) come Clinical Cancer Center. Non finisce qui.

L’Osservatorio Nazionale sulla salute della Donna (O.N.Da.) ha attribuito all’Istituto il massimo riconoscimento dei tre bollini rosa come ospedale women friendly. Da ultimo, il CROB è stato insignito di un prestigioso riconoscimento: il Premio Nazionale “Amministrazione, Cittadini, Imprese”,

assegnato ogni anno dall’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche con il patrocinio del Ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione.
Per l’anno 2016, il Premio “Amministrazione, Cittadini, Imprese” era riservato a un Presidio ospedaliero (o Azienda ospedaliera) che, nelle proprie attività ordinarie, fosse riuscito a combinare un alto livello di efficacia delle prestazioni cliniche erogate, di efficienza gestionale e di umanizzazione del rapporto con i pazienti. Pur essendo di piccole dimensioni, la struttura “è assolutamente simbolica come efficacia, impegno e risultato. Ha una significativa incidenza di ricercatori e una grande e avanzata attenzione al paziente […]”.
Il riconoscimento ottenuto dal CROB significa che l’eccellenza nell’amministrazione pubblica è possibile quando si condivide una strategia di lungo periodo che riporti di nuovo al centro la persona destinataria dei servizi. In particolare, l’eccellenza nella sanità può aversi solo se il paziente torna ad essere il perno dell’azione e quando si progettano le risposte a tutti i suoi bisogni complessi.

L’adeguata considerazione delle differenze legate all’età, al genere, alle specificità della malattia consentono una risposta, sempre più personalizzata e quindi più efficace, che permette alla struttura di essere al passo con i tempi.

La personalizzazione delle cure rappresenta un nuovo orizzonte dell’assistenza. Non a caso, tra le quattro linee di ricerca del CROB vi sono anche studi per la definizione di tailored therapies nelle emopatie neoplastiche e su nuovi target e biomarcatori per la personalizzazione dei trattamenti medici e chirurgici. 
L’Istituto, in altre parole, propone una sanità moderna e adeguata alla complessità attuale.
Il recente accreditamento da parte dell’AIRTUM (Associazione Italiana Registri Tumori) del Registro Tumori della Regione Basilicata, curato dal CROB, dimostra lo sforzo dell’Istituto per un monitoraggio costante del cancro e delle sue evoluzioni. Il Registro della Basilicata è di tipo generale e riferito a tutta la popolazione assistita e i dati sono raccolti con metodologia coerente con quella adottata per il Registro nazionale.

Il CROB, dunque, contribuisce alla conoscenza del cancro attraverso l’impegno costante per la raccolta di dati di qualità. E la corretta allocazione di risorse in sanità non può prescindere dall’informazione.

 Per un uso corretto delle risorse pubbliche, tuttavia, non è sufficiente una scelta tecnica, ma occorre un’azione etica.
Il CROB opera nella totale condivisione dei dati, dei saldi e delle cifre. In altre parole,

l’Istituto è un’amministrazione trasparente come rilevato dall’Autorità Nazionale Anticorruzione. Un altro scacco al luogo comune.

Il Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata CROB è, dunque, un contenitore di buona amministrazione sanitaria che riesce a coniugare tutte le azioni necessarie per fornire una risposta appropriata alle nuove esigenze di salute, ma anche un modello per la preparazione necessaria a quella tempesta perfetta – come è stato efficacemente definito il prossimo futuro della sanità – che sta per abbattersi sui Servizi Sanitari Nazionali.

 

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UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD di Gaia Bay Rossi – Numero 5 – Luglio 2016

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UNO ‘SPIRITO’ DEL SUD

 

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La cosa più importante che esiste nella vita è la fortuna. Io ho avuto la fortuna di nascere a Napoli. Ora ti voglio dire come immagino la nascita. Io la immagino così: nell’alto dei cieli vedo un cestino con dentro miliardi di palline, poi vedo una mano che prende un milione di palline e le butta nel cielo. Queste cadono. Qualche pallina va su un pianeta, qualche altra pallina su un altro pianeta. Ebbene io, De Crescenzo, ho avuto la fortuna che la mia pallina è caduta proprio sulla terra; e non solo, ma anche sull’Europa; e non solo, anche su Napoli. La prima cosa che debbo aver visto nella vita sono state il mare e il Vesuvio e questa, come si chiama? Si chiama fortuna!
Ecco. Ma ho avuto altre fortune. Per esempio, quando ho conosciuto Francesca, quando Francesca mi ha lasciato, quando il Napoli vinse con l’Ambrosiana per 1 a 0 all’ultimo minuto. Ma chi era l’Ambrosiana? L’Ambrosiana era quella che oggi si chiama Inter. 
Mi ricordo di quando io presi la funicolare, perché abitavo al Vomero, per andare ad iscrivermi all’università. Entrai nella funicolare e vidi un posto libero accanto ad una bella ragazza. Allora, mi sedetti subito vicino a lei e le chiesi: “Come ti chiami?” Lei mi rispose: “Mi chiamo Francesca”; ed io: “Ciao Francesca dove vai?” E lei mi rispose: “Vado a iscrivermi all’università”. 
Io mi volevo iscrivere a filosofia perché la amavo molto come materia, ma, siccome lei mi disse che si andava ad iscrivere a matematica, le dissi: “Ah, pure io mi iscrivo a matematica”. Ed è stato così che sono diventato ingegnere. Se non avessi corso quella mattina per prendere la funicolare, io oggi non sarei ingegnere, ma professore di filosofia.

Nascere a Napoli è stata una fortuna?

 Una cosa é dire ti amo e una cosa e dire ti voglio bene. Che differenza passa tra il bene e l’amore? Che l’amore prima o poi può finire, mentre il bene invece non finisce, anzi aumenta. Quindi io consiglio a tutti quelli che mi leggono di voler bene. Nella mia vita ho voluto molto bene innanzitutto a mia figlia e poi a mia moglie. Poi, anche a un uomo che si chiamava Marotta, perché scrisse dei libri bellissimi. Mi ricordo anche di aver voluto bene al mio professore di matematica, perché grazie a lui sono diventato ingegnere.

Lei non è mai stato tentato dalla canzone napoletana?

Quando si nasce, ognuno di noi, può nascere con dei meriti e dei demeriti. Io purtroppo, pur essendo napoletano, non so cantare, però so scrivere. Come si fa a scrivere bene? Chi mi legge dovrebbe sapere quali sono i trucchi per scrivere bene. Innanzitutto, ogni pagina bisogna scriverla due volte e l’importante é che la seconda volta sia più corta della prima. Poi bisogna avere una fidanzata ignorante a cui far leggere la pagina: se la capisce lei, la capiscono tutti. Poi che dire…io ho fatto una cosa intelligente e una stupida: quella intelligente è stata quella di copiare il libro “Della filosofia greca”; quella più stupida è stata quella di cederla una tantum, perché poi ho saputo che è stata adottata nelle scuole e, quindi, avrei guadagnato miliardi se non avessi firmato.

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sul nostro Mezzogiorno d’Italia è chiaro e diffuso nell’etere e può essere sintetizzato nella celebre frase “si è sempre meridionali di qualcuno” (da Così parlò Bellavista). Noi di Myrrha non potevamo non incontrarlo.

Lei ha vissuto in tre città: Milano, Roma e Napoli, che differenze ci sono nelle città e nella gente?

Quando ero giovane, per andare da Milano a Napoli ci voleva quasi un giorno, perché il treno dell’epoca si fermava in ogni stazione prima di arrivare a Napoli. La più grande differenza tra i milanesi e i napoletani è che a Napoli si parla di più che non a Milano. Cioè, due persone che si incontrano e si siedono vicino, se sono napoletane parlano, se sono milanesi non parlano. 
Se sono romane? Come i napoletani, perché sono molto simili. Tutto questo perché a Milano c’è una cosa che si chiama riservatezza, a Napoli non esiste.
Una volta, a Napoli, nel mio palazzo, c’erano due persone che si odiavano. Queste due persone si chiamavano, una Bellavista e una Cazzaniga. I due presero insieme l’ascensore e, a causa di un black out, l’ascensore si bloccò. Loro rimasero per quasi mezz’ora, tutti e due, in ascensore tra il terzo e il quarto piano, e, a forza di stare insieme, parlarono e parlarono, e da che erano nemici, divennero amici. Questo fatto è realmente accaduto ed è quello che mi ha poi suggerito il libro “Così parlò Bellavista”.

Abbiamo visto la presentazione del suo nuovo libro, con un bel sottofondo di canzoni napoletane. Cosa è per lei la canzone napoletana?

Io credo che non esista nessuna città al mondo che abbia inventato più canzoni di quanto non sia stata capace Napoli. Comunque la mia preferita dovrebbe essere ‘O sole mio’. Dovrebbe…
Molti pensano che questa canzone sia stata scritta a Napoli: non è vero. ‘O sole mio fu scritta in Russia; anzi, per essere precisi, in Ucraina. D’altra parte lo si capisce anche dalle parole. Come dice la canzone: “Che bella cosa na jurnata e sole”. Questa meraviglia la si può capire solo da una persona che stava in Ucraina, perché se fosse stata a Napoli non l’avrebbe mai detta, visto che a Napoli ogni giorno c’è una giornata di sole. 
Quando ero ragazzino ho avuto la fortuna, e la sfortuna, di abitare in un cosiddetto piano ammezzato; cioè, dalle mie parti, il piano ammezzato è in un appartamento che sta a metà distanza tra la strada e il primo piano. Ma perché parlo di fortuna e di sfortuna: di sfortuna perché purtroppo sotto la mia camera da letto c’era un venditore di fiori che ogni mattina si metteva a cantare alle sei e mi svegliava. La fortuna è stata perché tutto questo é capitato a Napoli, dove sono nato.

 Il libro è intitolato Ti voglio bene. Perché questa decisione?

Le manca Pino Daniele?

Sì, io l’ho anche conosciuto ed era una brava persona. Purtroppo, per colpa sua io ho commesso uno dei sette peccati capitali, e cioè l’invidia!

Fino a che età è stato a Napoli?

Sono stato a Napoli fino a sedici anni. Poi, un giorno, Mussolini decise che anche i ragazzi di sedici anni dovessero andare in guerra. Io andai a Capodichino, mi misero la divisa, mi dettero il fucile ed io dissi al mio amico Alfonso: “Fofò, io non ammazzerò mai nessuno”; e lui: “E come fai, quelli ti hanno dato il fucile!”. E io: “Fofò, basta sparare un poco poco più in alto, per essere sicuri di non uccidere”. Proprio quel giorno, io arrivo a Capodichino e scoppia la pace. Questo sempre che si possa usare il verbo scoppiare quando si parla di pace.

Perché i giornali italiani parlano del sud sempre in maniera negativa?

Loro parlano così perché purtroppo invidiano il sud. Io ho abitato a Milano dove lavoravo alla IBM e mi ricordo ancora quando la IBM mi trasferì a Napoli, e io ringrazio… A Napoli non si dice mai “ringrazio Dio”, si dice “ringrazio la Madonna” e questo perché, secondo me, Dio non esiste, mentre esiste la Madonna. Io credo di essere religioso in maniera particolare, perché non sono credente, io sono sperante, che è qualcosa di più di essere credente. Spero che ci sia e, infatti, spero “dopo” di andare in paradiso, o meglio, forse troverei più bello il purgatorio, perché l’eternità se ha un difetto è quella di essere eterna. 
Una cosa è passare tutta l’eternità vicino a una santa, come Santa Teresa, che ti racconta tutti i giorni i suoi problemi, perché fu martire. Un’altra cosa è passare il tempo vicino a Totò. Totò non credo che sia andato subito in paradiso, perché – si dice – che lui approfittasse delle ballerine; quindi, per stare vicino a Totò, starò volentieri anche io un po’ di tempo in purgatorio.

 

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LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA di Alessandro Gaudio – Numero 5 – Luglio 2016

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da molti considerata la raccolta più importante dell’autore nato a Montemurro − in provincia di Potenza, in fondo alla Val d’Agri, tra Viggiano e Corleto Perticara, nei pressi dell’invaso del Pertusillo − nel 1908. Si tratta di versi ormai molto noti, e non soltanto tra i cultori di Sinisgalli, ma li ripropongo comunque per i lettori di «Myrrha».

Il più delle volte, si è preferito sottolineare il riferimento dei versi di Sinisgalli al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza, a uno spazio povero, spoglio ed elementare, quasi folcloristico, tralasciando di notare che

La poesia, allora, è una reazione incontrollata, ma non indefinita, a quel cumulo di detriti, a quel mucchio di pietre, a quella strada senza uscita;5 essa non fa operazioni, né composizioni, ma reagisce ad esso, costruendo con niente un po’ di geometria

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1 Ne trascrivo il testo da una bella antologia, curata da Giuseppe Pontiggia: L. Sinisgalli, Lucania, in Id., L’ellisse. Poesie 1932-1972, Milano, Mondadori, 1974, pp. 55-56.
2 Cfr. G. Pontiggia, Le Muse di Sinisgalli, in L. Sinisgalli, L’ellisse cit., pp. 11-19.
3 L. Sinisgalli, Postilla, in Id., L’età della luna. 1956-1962, Milano, Mondadori, 1962, p. 137.
4 Dell’ENI, Sinisgalli, su invito di Enrico Mattei, assumerà nel 1959 la direzione dei servizi di pubblicità. Tra l’altro, il famoso cane a sei zampe, simbolo dell’Ente, fu ideato proprio dal poeta lucano. Sin dal 1937 anche altre notissime aziende del panorama nazionale si erano avvalse delle competenze di Sinisgalli: tra le altre, Olivetti e Pirelli. La foto che ritrae Sinisgalli a Milano Bicocca, tra i copertoni, è del 1951.
5 E senza uscita è la strada di una delle foto che Raffaele Luongo, in collaborazione con la Fondazione Leonardo Sinisgalli, ha dedicato alla Lucania di Sinisgalli, reinterpretando, in una mostra del 2015, la poesia qui discussa.
6 La strada interpoderale, dritta e semplice, che collega Tricarico alla piana delle Matine fu voluta già alla fine degli anni Quaranta da Scotellaro: la foto riproduce il suo aspetto odierno. In questa sezione si fa riferimento al dettato lessicale de La ricerca (ora in L. Sinisgalli, Infinitesimi, a cura di G. Tedeschi, prefazione di G. Pontiggia, Roma, Edizioni della cometa, 2001, p. 54).

 

LUCANIA, OMBELICO DELLA POESIA, DELL’INFERNO, DELLA VITA

è proprio sopra i cumuli di detriti, intatti per secoli ma sdrucciolevoli e malfermi, che nasce la poesia di Lucania. Nasce in questo spazio privo di fondamenta, con innocenza, senza che nessuna certezza le faccia da struttura.

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Al pellegrino che s’affaccia ai suoi valichi,
a chi scende per la stretta degli Alburni
o fa il cammino delle pecore lungo le coste della Serra,
al nibbio che rompe il filo dell’orizzonte
con un rettile negli artigli, all’emigrante, al soldato,
a chi torna dai santuari o dall’esilio, a chi dorme
negli ovili, al pastore, al mezzadro, al mercante,
la Lucania apre le sue lande,
le sue valli dove i fiumi scorrono lenti
come fiumi di polvere.

Lo spirito del silenzio sta nei luoghi
della mia dolorosa provincia. Da Elea a Metaponto,
sofistico e d’oro, problematico e sottile,
divora l’olio nelle chiese, mette il cappuccio
nelle case, fa il monaco nelle grotte, cresce
con l’erba alle soglie dei vecchi paesi franati.

Il sole sbieco sui lauri, il sole buono
con le grandi corna, l’odoroso palato,
il sole avido di bambini, eccolo per le piazze!
Ha il passo pigro del bue, e sull’erba,
sulle selci lascia le grandi chiazze
zeppe di larve.

Terra di mamme grasse, di padri scuri
e lustri come scheletri, piena di galli
e di cani, di boschi e di calcare, terra
magra dove il grano cresce a stento
(carosella, granoturco, granofino)
e il vino non è squillante (menta
dell’Agri, basilico del Basento!)
e l’uliva ha il gusto dell’oblio,
il sapore del pianto.

In un’aria vulcanica, fortemente accessibile,
gli alberi respirano con un palpito inconsueto;
le querce ingrossano i ceppi con la sostanza del cielo.
Cumuli di macerie restano intatti per secoli:
nessuno rivolta una pietra per non inorridire.
Sotto ogni pietra, dico, ha l’inferno il suo ombelico.
Solo un ragazzo può sporgersi agli orli
dell’abisso per cogliere il nettare
tra i cespi brulicanti di zanzare
e di tarantole.

Io tornerò vivo sotto le tue piogge rosse
tornerò senza colpe a battere il tamburo,
a legare il mulo alla porta,
a raccogliere lumache negli orti.
Vedrò fumare le stoppie, le sterpaie,
le fosse, udrò il merlo cantare
sotto i letti, udrò la gatta
cantare sui sepolcri?1

Quel cumulo di detriti, a ogni buon conto, è il punto verso cui tutta la poesia converge; è anzi, il polo, diceva Giuseppe Pontiggia, del medesimo esistere.2 Sinisgalli, dal canto suo, sosterrà che è situata lì la forma «introvabile»,3 il cuore della poesia (poesia che non è voluttà espressiva, perla nel pattume; è, piuttosto, quello stesso pattume): allineata, cresciuta su frammenti, ossa, escrementi, senza un disegno preventivo, un progetto: asimmetricamente, se si vuole, allo stesso modo di un paese, allo stesso modo di Montemurro.
In quel cumulo di non-poesia (oppure, ma non è poi così diverso, di antimonio) c’è lo spreco, la dissipazione, sulla quale la poesia − come lo stesso Sinisgalli ammetterà sempre nell’Età della luna − fulmineamente sorge e prospera; vita che muore cui la poesia attinge. Il poeta, dunque, non esce indenne da quell’ammasso di macerie: è lì, nella Lucania che sta per essere devastata dai vulcanici succhielli e dalle piogge rosse dell’ENI, che il poeta lascia le penne;4 è lì, all’interno dei suoi confini, che i versi di Sinisgalli ripiegano. Nelle sue viscere trova la strada difforme della poesia, abbandonando per sempre quella del formalismo (la forza, quindi, più che la sua forma), perdendo di vista, nello sforzo vano, nel pianto e nell’oblio, il soggetto, la coscienza.

(che poi non è, con ogni evidenza, che la semplice geometria della strada che Scotellaro, segnando a suo modo il percorso obbligato del progetto di cambiamento, aveva fatto costruire a Tricarico), una fedele chimica interiore.6 Il poeta di Montemurro, per non cadere, si siede su quel mucchio di detriti e tossisce e sputa e rifà i calcoli, all’infinito, nelle distanze incommensurabili di spazio e di memoria e nel tempo infinitesimale di un soffio. Non è forse, quel cumulo di scorie, il luogo stesso in cui ciascuno di noi resta sepolto? Non è forse esso il risultato dell’accumulo giornaliero di tutti i frammenti della nostra esistenza? E non è forse proprio quello che, giornalmente, continuiamo a ricercare? Risiede in questa ricerca, fatta della realtà che il poeta distrugge, di piccole aberrazioni millesimali, di nessi, congiunzioni, particole, spezzoni, tacche del linguaggio, nodi, l’esercizio, talvolta fastidioso, della poesia e, di conseguenza, della vita.

 

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SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA di Sergio Spatola e Gianluca Anglana – Numero 5 – Luglio 2016

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A presentare “lo scrigno che gelosamente custodisce le memorie sacre e profane dell’umile terra” è Padre Adiuto Putignani1, che, già nel 1948, comprese che “chi l’ha vista una volta la vuol rivedere; chi l’ha amata non la dimenticherà più mai”.

È la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria di cui oggi Myrrha riscrive2 perché, come ha detto Padre Putignani,

, “questo grande amore per la più bella chiesa del mezzogiorno d’Italia mi ha spinto a parlare di essa, a scrivere le sue glorie, a violare il silenzio geloso dei secoli. Perché mai? Perché altri la possano conoscere bene e meglio, e conoscendola amarla, e amandola custodirla e vegliare perché non si sfrondi la sua gloria, non si deturpi la sua bellezza”.

Quando Maria d’Enghien decise, nei primi decenni del Quattrocento, di (ri)affrescare gli interni della Basilica, certamente non poté ignorare gli esiti della rivoluzione di Giotto di Bondone, quella rivoluzione deflagrante, una sorta di big bang che generò la nascita dell’arte moderna in Occidente e che travalicò ben presto le Alpi. 
Altrettanto sicura è però anche la presenza di maestranze artistiche borgognone e fiamminghe: come alcuni studiosi sostengono, infatti, è plausibile che, al seguito dello spostamento dei popoli che in precedenza dal Nord si erano riversati verso il Sud dell’Italia, vi fossero artigiani ed artisti caratterizzati dal gusto dei Paesi di provenienza.
Si può dire, dunque, che Galatina abbia giocato, sebbene su scala limitata dal punto di vista regionale, un ruolo assai simile a quello assunto dalle scuole pittoriche di Assisi. Non per questo, però, si può escludere una sorprendente osmosi culturale europea in atto, sul finire del ‘300, nel Tacco d’Italia.
Ecco spiegato perché

la Basilica di Santa Caterina d’Alessandria a Galatina costituisca un unicum nel panorama artistico meridionale: è una sintesi di culture (massimamente di quella italiana e francese), un linguaggio totalmente innovativo e sperimentale, un guanto di sfida al passato e uno sguardo su un futuro da scoprire.

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1 In P.Adiuto Putignani, Il Tempio di Santa Caterina in Galatina, Introduzione
2 Tantissimi i contributi scientifici sulla storia, l’architettura ed il ciclo pittorico all’interno della Basilica nonché sul contesto storico-socio-politico in cui fu eretta. 
3 Il nome di una via è venuto in soccorso degli storici tanto quanto i documenti scritti in senso stretto: l’onomastica stradale ha permesso a città troppo protese verso il futuro di non dimenticare il proprio glorioso passato.
4 La parola “Balzo” è l’italianizzazione del nome di un feudo provenzale: Baux.
5 Maria emanò una serie di bandi e capitoli che ancora oggi destano interesse. Era convinta che “in tutte le città bone se vuole vivere con ordine et boni statuti in tutte cause” (cfr. Can. Pietro Serio, Attraverso dieci secoli di storia patria, p. 86).

SANTA CATERINA D’ALESSANDRIA A GALATINA

 

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Più si approfondisce la storia di questo splendido esempio di commistione di stili (romanico e gotico), più se ne è rapiti. Innanzitutto perché, essa stessa,

è la rappresentazione dell’unione di tre terre affacciate nel mediterraneo: la Terra Santa, la nostra Italia e la Francia.
Cosa esattamente accomuni le tre terre lo si scopre approfondendo: un mito, una terra e una donna straordinaria.

Se esistesse una psicologia del profondo applicata alle masse, essa probabilmente spiegherebbe le ragioni dell’appeal che, da qualche anno a questa parte, il Salento esercita nei confronti di un numero sempre crescente di visitatori provenienti dalla Francia e da altre aree di lingua francese del Vecchio Continente. È capitato a qualunque salentino di incrociare, soprattutto in primavera o in estate, gruppi di visitatori d’Oltralpe o di imbattersi sui social network in articoli di encomio della Terra d’Otranto, scritti nella lingua di Stendhal. 
Non sappiamo se, così come gli individui, anche i popoli dispongano di una sorta di io profondo, una qualche memoria a lungo termine che affonda le proprie radici in un’infanzia ormai lontana o scomparsa. Sta di fatto però che, a cavallo tra il XIII e il XIV secolo, le province più meridionali di Puglia furono occupate da genti provenienti dal nascente Regno di Francia o dalla Vallonia: di questa invasione si trovano tuttora numerose tracce, a partire dalla toponomastica salentina3.
Nel Comune di Lecce, ad esempio, non è infrequente accorgersi di una o più vie intestate a personaggi illustri di chiara origine francese: si pensi, ad esempio, a Via Orsini del Balzo4 oppure a Via Maria d’Enghien, strada cittadina dedicata ad una sorta di “Wonder Woman ante litteram”.
Per un soffio Maria mancò l’obiettivo di conquistare la corona del ricchissimo Regno di Napoli, un reame ormai saldamente in mani francesi, ponte di collegamento tra lo Stivale e i territori dell’Anjou o della Borgogna: lei, abile amministratrice5 dotata di un notevole fiuto politico, perse il duello che la vide opporsi a Giovanna d’Angiò per la scalata al potere partenopeo.
Ed è proprio Maria il comune denominatore delle tre terre del Mediterraneo.
Enghien è il nome di una cittadina del Belgio (o, per essere più precisi, di quella Vallonia che potremmo definire le Fiandre di idioma francese). In realtà, Maria poté fregiarsi di origini più luminose di una cittadina vallone: era nipote di Isabella di Brienne nonché figlia di Giovanni d’Enghien, conte di Lecce, e di Sancia (Bianca) del Balzo.

Maria, come di consueto per quei tempi, fu data in moglie a Raimondello Orsini del Balzo – tipo tosto ed estremamente spregiudicato – dietro consiglio di Luigi I d’Angiò.
Raimondello aveva anche fama di essere un tipo alquanto macabro. Ed è qui che la leggenda unisce la Puglia alla Terra Santa:

 pare che, nel corso di un pellegrinaggio alla salma di Santa Caterina d’Alessandria sul Monte Sinai, Raimondello strappò con un morso un dito della reliquia che venne, dunque, portato in Puglia. In omaggio alla tradizione delle Cattedrali gotiche, soprattutto francesi, Raimondello si risolse a dedicare alla Santa quella Basilica che avrebbe dovuto ospitarne la falange e che, a ragione, può essere considerata la Cappella degli Scrovegni del Mezzogiorno italiano.
La Basilica (eretta tra il 1369 e il 1391), austera all’esterno, quasi una fortezza, colpisce, all’interno, per il mirabile ciclo di affreschi: questi ultimi non sono soltanto opere pittoriche di eccezionale fattura, ma una testimonianza rarissima di un inedito intreccio di culture. Sì, perché il Salento era stato, anche dal punto di vista artistico, saldamente in pugno dei Bizantini, cioè di quella élite greca che era presente da secoli in Apulia e che era arroccata su un modo di intendere l’arte ormai in fase di definitivo superamento.
La Puglia meridionale è, soprattutto, ricca di preziosissimi monumenti di radice orientale: si pensi ad esempio, alle chiese di impronta basilica in terra di Brindisi o a taluni edifici di memoria greca sparsi sul territorio della provincia leccese. Questo passato, glorioso e ingombrante, è stato raramente scalfito nella sua granitica esistenza.

Santa Caterina d’Alessandria a Galatina segna, dunque, un improvviso cambio di passo, perché importa in Terra d’Otranto un linguaggio artistico inedito, una summa di stili interpretativi che attingono ispirazione alla cultura francese e fiamminga oltre che alla ormai inarrestabile lezione di Giotto.

 

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QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA di Francesco Festuccia – Numero 5 – Luglio 2016

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questo “cibo” assolutamente unico che sembra caduto sulla terra da un altro mondo e da un altro tempo. Forse è proprio così se pensiamo a quell’animale che è alla base di tutta la vera mozzarella di bufala. Perché è una storia che ha radici lontanissime guardando questa specie di sopravvissuto al mammut, bovino dal profilo ingobbito, ma assai meno fesso della mucca, un po’ spaventevole per quella sua vaga aria preistorica, sfortunato anche nel nome visto che l’appellativo di “bufala” è chissà perché sinonimo di cosa inventata.

QUANDO GOETHE INCONTRÒ LA MOZZARELLA.

 

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Per raccontare la storia della mozzarella si deve andare indietro fino al Settecento. Da qui partono le tracce sicure della presenza del bufalo (e della bufala…) in alcune zone italiane e, quindi, delle mozzarelle

nei primi diari di viaggio di chi – da tutta Europa – veniva per il Grand tour in Italia, addentrandosi con grande coraggio e spirito d’avventura alla ricerca delle rovine della Magna Grecia dalle parti di Battipaglia.

Ai lati di queste, nient’affatto agevoli, strade si rischiava pure di trovare agguerriti briganti, ma, soprattutto, poveri e macilenti bufalari che tenevano sotto controllo le loro bestie cercando di vendere al viaggiatore la “provatura” del formaggio di bufala e sbarcare faticosamente il lunario.

Due singolari circostanze, come suggerito da uno studio di Oreste Mottola – uno dei pochi circostanziati – favoriranno la conoscenza della mozzarella in quel periodo, della passione venatoria di Carlo III di Borbone e di suo figlio Ferdinando IV e poi del “pellegrinaggio culturale” a Paestum.

E qui, l’orografia e le strade del tempo cambiarono il senso della storia di questo particolare tipo di alimento. Fu così che tante persone delle più diverse condizioni di tutta Europa assaggiarono, innamorandosene, questo prodotto mai assaporato prima, dalle caratteristiche peculiari perché il latte proveniva da un animale che non suda e, per questo, il suo sapore è leggermente acidulo con un vago accenno di muschio. Insomma, la chiave di tutto erano le bufale e le zone dove erano diffuse. 
Una parte, dove era alta la presenza di bufala, veniva evitata dai viaggiatori, perché c’era forse qualcosa di inquietante nei territori capuano e mondragronese. La strada proveniente da Roma passava solo da/per Sessa, Cascano, Speranise, Capua: chi voleva spingersi fino a Paestum doveva obbligatoriamente percorrere la piana ebolitana e pestana, con avventure leggermente orrorifiche, come ha descritto Goethe che arrivò lì nel 1787 “attraversando canali e ruscelli e incontrando bufali dall’aspetto di ippopotami e dagli occhi iniettati di sangue…”

Il sapore affascinante della mozzarella di bufala si scontrava con il luogo impervio e l’aspetto stesso dell’animale.

Stavo facendo proprio questa considerazione vedendo un gruppo di bufale allo stato brado, in una tenuta nel basso Lazio, ancor oggi spesso ricoperte di fango e dal caracollare diverso da qualsiasi altro animale. Mi chiedevo quale tipo di impressione o quale tipo di paura devono aver fatto a un viaggiatore, anche se erudito, come Goethe, nel Settecento. 
Il bufalo della mozzarella, bubalus bubalis, è infatti un bovino di origine asiatica abituato, proprio per difendersi dal caldo e dal sole, a rotolarsi nel fango delle zone paludose.
Ma torniamo proprio al prodotto del latte di quell’animale: la mozzarella.

Il termine nella storiografia sembra posizionarsi addirittura prima di questi eruditi del Grand Tour settecentesco, citato, per la prima volta, in un libro di cucina pubblicato nel 1570 da Bartolomeo Scappi,

che, come cuoco della corte papale, era abituato a una cucina che oggi si potrebbe definire da cuoco stellato e dove giungevano specialità da ogni parte dell’Italia e dell’Europa. E allora scrive: “…capo di latte butirro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche et neve di latte” e poi parla di “mozzarelle fresche” (incomprensibile oggi perché le mozzarelle sono per forza fresche…). 
Quindi, la parola mozzarella è collegata, nell’origine del termine, alla mozza che altro non è se non la provata, ovvero la provola. Negli annuali contratti per l’appalto del prodotto della Reale industria della Pagliara delle bufale a Carditello si stabiliva che la mozzarella doveva restare nella salsa 24 ore, mentre la provola 48; la successiva affumicazione, cui generalmente era sottoposta, era un espediente per una più lunga conservazione in vista del trasporto che, certo visti i mezzi e le strade del periodo, non erano veloci. I documenti d’archivio ci dicono che la pratica dell’affumicazione era stata in precedenza uno strumento molto utilizzato per cercare di conservare il più a lungo possibile dei prodotti che andavano velocemente a male.

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E nel XVII secolo, nel mercato capuano, arrivano, accanto alle mozzarelle fresche, provole e mozzarelle affumicate.

Se tutte le fonti sono concordi a far risalire al grande cuoco Scappi la primogenitura della parola mozzarella, ci sono tracce incerte o quasi certe anche prima. Tracce di una storia vaga che spesso si autoalimentano in curiosi e incrociati rimandi.
Anche un altro indizio ci deve far pensare che il prodotto mozzarella fosse all’epoca poco conosciuto, perché sembra totalmente assente nell’iconografia, anche in quella così particolare del presepe napoletano, che è spesso una interessante spia degli usi e costumi popolari. Nel presepe, casomai, si vede la provola. Ricordate? C’è spesso il classico contadino a cui pendono due provole dal collo legate da una corda. Certo con la provola, la mozzarella è strettamente collegata: non solo perché fatta con lo stesso latte di bufala (la provola rispetto alla mozzarella rappresenta un’ulteriore fase della lavorazione) ma perché il nome stesso della mozzarella deriva da quello della provola; anzi, da una denominazione di questa caduta in disuso e mettendo in campo anche il fatto che, all’inizio, proprio per la sua poca conservabilità, la mozzarella era fatta con gli avanzi del latte. Quello che non era potuto diventare altro, alla fine diventava mozzarella.

Ed è una storia tutta da scoprire, per uno dei simboli del cibo italiano, così amato e imitato nel mondo, così misconosciuto nelle sue origini.

 

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