Il Sud non solo si sta svuotando, ma sta trasferendo altrove la qualità delle sue risorse. Secondo il rapporto Svimez, ad abbandonare il Mezzogiorno sono in particolare laureati, giovani, donne. Tra coloro che scelgono di vivere definitivamente altrove, la stragrande maggioranza sono proprio i giovani, il 40 per cento dei quali con un percorso universitario alle spalle. Al Sud si studia, ma non si trova lavoro: i laureati hanno un tasso di occupazione pari al 31,9 per cento, i diplomati pari al 24 per cento. Sono dati che fanno sprofondare il Meridione nelle classifiche europee. Per fronteggiare questa situazione, Matteo Renzi, nel novembre dello scorso anno, ha lanciato un Masterplan per il Mezzogiorno, indicato come un progetto fortemente innovativo: non più soluzioni calate dall’alto, ma interventi per “far leva sulle capacità e sulla voglia di mettersi in gioco dei cittadini e delle istituzioni meridionali”. In sostanza, il Masterplan è stato immaginato come uno strumento operativo finalizzato a mettere in movimento la società civile del Mezzogiorno in un contesto di “politica industriale e di infrastrutture e servizi che consentano di far diventare le eccellenze meridionali veri diffusori di imprenditorialità e di competenze lavorative, attrattori di filiere produttive in grado di garantire la ripresa e la trasformazione dell’economia del Mezzogiorno”.
Sulla carta il progetto è molto ambizioso: si punta alla ripartizione di responsabilità tra le diverse amministrazioni, con l’obiettivo finale di costruire 16 Patti per il Sud con le 8 Regioni meridionali, le 7 città metropolitane (tra cui Napoli, Bari, Palermo e Cagliari) e il contratto di sviluppo di Taranto.
A un anno dal lancio del Masterplan come si sono tradotte in pratica le indicazioni del Governo per il rilancio del Mezzogiorno e per fermare la fuga di cervelli?
Ad aprile Renzi ha fatto un tour del Meridione (Reggio Calabria, Catania, Palermo, Matera) al grido: “Si frulla per sbloccare l’Italia”. Buona volontà e propaganda per sostenere misure i cui risultati si potranno valutare solo a partire dai prossimi anni. A fronte della mancanza di interventi nella legge di stabilità del 2015, si è andati un po’ meglio in quella del 2016 (20% del Fondo di garanzia delle Pmi, il credito d’imposta sugli investimenti produttivi, interventi ad hoc per Bagnoli e Ilva di Taranto), per giungere, finalmente, allo stanziamento di circa 40 miliardi nella riunione del Comitato interministeriale per lo sviluppo il 10 agosto.
In alcuni casi si tratta di riprogrammazione di risorse già disponibili e non utilizzate nel corso del tempo, piuttosto che di nuovi finanziamenti. Tuttavia, al di là dell’inevitabile perplessità per una comunicazione in generale propagandistica e sopra le righe, va riconosciuto che il metodo per la definizione dell’elenco degli interventi da finanziare (“Patti” tra Governo, Regioni, Città) rappresenta una novità interessante in termini di bilanciamento degli interessi nazionali e regionali. Altra cosa, invece, la valutazione delle scelte compiute, in alcuni casi non propriamente strategiche.
A volte è la stessa narrazione trionfalistica del Governo a non sposarsi con la realtà. Un’oggettiva difficoltà nasce dal rapporto spesso conflittuale con le Regioni, ma anche il grande risultato di aver smaltito la quasi totalità dei fondi europei, non ha dato esattamente i frutti sperati: fino a oggi, si è trattato perlopiù di spese sostitutive di interventi già previsti con altre risorse. Il punto, in sostanza, dovrebbe essere non solo quello di non restituire i fondi europei, ma di accertarsi che gli stessi vengano utilizzati per ridurre gli squilibri e non solo per tappare i buchi.
La notizia positiva viene invece dal finanziamento dei singoli Patti regionali e dalla firma del primo patto territoriale, quello con la Campania, che impegna il Governo e la Regione a realizzare interventi per 9,6 miliardi di euro, conteggiando i fondi già messi in conto nei diversi cicli di programmazione. L’intento è quello di mettere nero su bianco un elenco di azioni prioritarie su cinque macrosettori (infrastrutture, ambiente, sviluppo, turismo e sicurezza) entro il 2017. In caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo fissato, il Patto prevede il ritiro del sostegno economico all’opera in oggetto.
Il dato più interessante è certamente quello rappresentato dal finanziamento (circa mezzo miliardo) per 88 cantieri della cultura nelle cinque principali regioni del Sud. Il Cipe ha approvato il Piano di Azione e Coesione Complementare (Pac) 2014-2020 che costituisce l’ultima tranche del Piano operativo nazionale (Pon) Cultura e sviluppo del Mibact.
Gli interventi sono tutti di rilievo. Tra gli altri, quelli per il Museo archeologico di Napoli, i parchi archeologici di Cuma, Velia e Paestum, la Reggia di Caserta, la Real Tenuta di Carditello, i musei e i parchi archeologici di Sibari, Locri e Scolacium, Castel del Monte, i Castelli Svevi di Trani e Brindisi, il Castello di Carlo V a Lecce, il parco archeologico di Venosa, il museo archeologico di Metaponto, il parco della Valle dei Templi di Agrigento e il parco archeologico di Gela. Misure che dovrebbero anche essere finalizzate a creare nuova occupazione e a contrastare la fuga di cervelli.
Da segnalare, infine, la rilevanza delle risorse messe a disposizione per il Contratto di programma RFI e le azioni previste per l’ulteriore rafforzamento dell’Accordo di partenariato sia per le aree interne, sia per i programmi complementari in materia di “Ricerca e innovazione” e delle “Città Metropolitane”.
Come sempre, tuttavia, l’efficacia dell’intero programma si giocherà sull’effettiva disponibilità delle risorse e sull’efficienza dei diversi centri di spesa, questioni sulle quali, anche nel recente passato, la macchina amministrativa, ai diversi livelli istituzionali, non ha di certo brillato.